Avviene ogni anno, e avviene in genere proprio alla fine dell’estate, quando i corpi, dopo la libertà della pelle nuda e dei piedi senza scarpe, tornano a essere un problema. Però succede di più, ogni volta. Chiunque frequenti un social viene invaso da proposte che riguardano lo yoga sulla sedia (se over 60, soprattutto), o tutti i modi per portare a termine con successo la strategia del digiuno intermittente, e sul suo schermo danzano gli avocado e le uova della dieta chetogenica, e produttori di formaggio vegano sussurrano che la differenza col pecorino serravallese proprio non si sente. E poi ci sono le star del penitenziagite, che ti ricordano che devi morire e che morirai prima se assaggerai un solo goccio di vino, o se tirerai una boccata di sigaretta. Il che è anche vero, ovviamente. Ma credo che ognuno di noi, a meno che non abbia la vocazione dell’altrui fustigazione, sappia bene che abbandonare una pessima abitudine non è affatto semplice, e che non tutti hanno la volontà della Ligeia di Edgar Allan Poe (“Né l’uomo è inferiore agli angeli, né vien domo dalla stessa morte che per difettò della povera sua volontà”: in realtà Ligeia cita Glanwill).
L’ossessione per il corpo mi dà sempre da pensare, perché aumenta. Intendiamoci, senza ossessioni probabilmente non si vive, e anche chi se ne crede immune ne coltiva qualcuna. Molti miei coetanei hanno decisamente strapazzato il corpo, in giovinezza, sottoponendolo a quegli schianti incoscienti dei vent’anni fatti di alcool e di sostanze e di notti insonni, che non sono – sorpresa – solo la caratteristica dei ventenni di oggi. La differenza è che era meno facile vederli, allora. La differenza è che se per caso ci accadeva qualcosa non avevamo sulle nostre tracce decine di segugi pronti a setacciare i nostri profili social per verificare come ci vestiamo, cosa facciamo, chi frequentiamo (e anche questo dovrebbe come al solito darci da pensare, e non avviene).
Qualcuno, in quell’azzardo che è la giovinezza, si è fermato. Per overdose, per Aids, altro. Qualcuno è andato avanti incappando in quegli inciampi che la vita ti mette davanti anche se ti comporti nel migliore dei modi. Altri invecchiano cominciando a fare i conti con il corpo che non risponde, che duole in alcune sue parti, che da un momento all’altro ti impedisce di fare quello che facevi prima, e anche questo non è affatto nuovo. Ho visto zoppicare mio padre come ora zoppico io, ricordo il modo in cui mia nonna trascinava i piedi prima di curvarsi sullo stesso bastone che avrebbe usato poi mia madre. E’ nell’ordine delle cose.
Quello che è diverso, e che appunto mi turba, è che siamo entrati nell’ordine di idee che si possa e debba controllare tutto. E’ giusto e sano e importante che, negli anni, ci si renda consapevoli di quanto alimenti e comportamenti possano essere dannosi per il nostro corpo, e che ci si metta in guardia contro le abitudini sbagliate. Ma è la violenza con cui si fa a preoccuparmi. Il controllo sociale, se vogliamo, sulle nostre vite, e lo stigma qualora i nostri comportamenti non siano virtuosi (ed è una delle rare occasioni in cui gli aggressori si dimostrano preoccupati per il servizio sanitario nazionale su cui i viziosi gravano, onestamente).
Il corpo è la nostra ossessione nel tempo in cui quel che contano sono i nostri corpi immateriali, opportunamente abbelliti e filtrati e con il giusto sfondo. E se questo è il modello fornito dagli adulti, cosa mai dovrebbero fare gli adolescenti, i figli e le figlie che agli adulti guardano?