Ore 20 circa, camerini del centro di produzione romano di Mediaset. Prima della puntata di Matrix rileggo le cifre dell’Osservatorio di Pavia sulla presenza femminile nei talk show televisivi. Una su quattro. Conto: con me ci sono Nanni Delbecchi, Gianluca Nicoletti e Fabrizio Rondolino.
I conti tornano.
Dice sempre l’Osservatorio che quasi nel settanta per cento dei casi gli ospiti di sesso maschile vengono chiamati per competenza, mentre le donne sono chiamate per fornire “una testimonianza”.
Mentre ci rifletto, la truccatrice, gentilissima, mi chiede di cosa si parlerà.
“Drive In”, rispondo. Da quanto ho capito, l’idea è quella di mostrare un’ora del programma e interrogarsi su quanto abbia influito sui modelli televisivi a venire. Per quanto riguarda il femminile, soprattutto.
“Ah”, esclama la truccatrice. “Allora lei era una delle ragazze Drive In!”.
Ps. La puntata on line.
Pps. New York Times.
@ lalipperini
Al volo. Simone Regazzoni ha ragione. Noi altri WM caschiamo spesso nelle dinamiche tra maschi alpha. E questo secondo me dimostra almeno due cose:
1) che c’è tanto da lavorare su noi stessi, nessuno escluso (come dicevo già in precedenza);
2) che i maschi alpha hanno rotto il cazzo.
Buona serata 🙂
@crowdsurfer
io ero quella che ha detto che guadagno (come molte mie amiche) più del mio compagno, ma, credimi, niente affatto perchè ho “più autostima” e mi pompo il CV… o perchè ho fatto studi “più attraenti per le aziende”.La realtà è davvero più complicata (come ha notato lalipperini per il mio post).
Tu dici: “le facoltà scientifiche siano a totale appannaggio degli uomini”. Da quando non entri in una facoltà scientifica? lo sai che nei dottorati in medicina o in biotecnologie il rapporto è 3 donne contro 1 uomo? ora mi raccontano che qualcosa di simile sta avvenendo anche ad ingegneria (dove ai miei tempi le donne erano pochissime). E spesso le donne pubblicano meglio, e se vanno fuori col cavolo che vengono pagate di meno (a volte)
E’ al vertice che questo rapporto si ribalta. Secondo te è solo un problema di “priorità”??? Veramente lo credi? O piuttosto si tratta di modelli pregiudizievoli che ricalcano esattamente il tuo schema: il pregiudizio tutto maschile che le donne abbiano “altre priorità” (dove per priorità penso tu intenda fare figli, ah se potesse farli voi…)
per tacere del ricatto tra “le priorità”… ma del resto siamo stati condannati a questi ruoi da almeno 2 millenni: “tu donna partorirai con dolore … tu uomo lavorerai con sudore”. Mica viceversa 😉
@ Valeria:
grazie davvero per il tipo di obiezioni oltre che per il tono. Provo a risponderti in modo sintetico, poi se la discussione va avanti su questo binario aggiungo pezzi, perché davvero le cose da dire sarebbero moltissime. Una precisazione: si può anche provare a usare la filosofia per leggere o lavorare con Drive In. Io però qui non sto dicendo questo. Ho detto che come oggetto estetico o se preferisci come testo audio-visivo lo trovo interessante e innovativo.
1. Drive In è postmoderno? Senza entrare nel merito di una definizione di “postmoderno” diciamo pure: sì. Almeno questa è la mia valutazione. Postmoderno nella misura in cui riutilizza (le forme sono varie: parodia, travestimento, citazione, allusione,e cc.) forme e materiali della cultura di massa del tempo, dando vita a un testo audio-visivo nuovo scandito da tempi velocissimi, “frenetici” scrive Aldo Grasso, in cui sketch e spot si susseguono e contaminano. Come noto, testi di questo tipo permettono livelli differenti di fruizione e di gioco. Ora, per non farla troppo lunga altrimenti qualcuno dice che faccio lo splendido, citerò un passo tratto da un volume di Aldo Grasso: “La trasmissione [Drive In] si caratterizzò per la capacità di coinvolgere e spettacolarizzare tutti gli aspetti del pianeta comunicazione attraverso l’uso sistematico della citazione parodistica. Il comico emerse dalla contaminazione fra bersaglio reale dello schermo e forma espressiva adottata […] l’ironia non risparmiò nessuno dei feticci del mondo dello spettacolo, neppure i colossi della storia del cinema: dal 1987 sono stati proposti in parodia i capolavori classici e moderni, nella interpretazione di protagonisti della trasmissione” (Radio e televisione).
Io trovo condivisibile il giudizio di Aldo Grasso. Ora qualcuno dirà che Aldo Grasso è di destra o non so cos’altro. Io lo giudico il maggiore studioso di televisione italiano, come ho anche avuto modo di scrivere.
La mia domanda è: si può provare a discutere a questo livello? Sulle caratteristiche di un prodotto estetico? Ci sono donne seminude in Drive In, va bene. Ma questo a priori non vuol dire nulla per me. Ci sono anche in Russ Meyer. Concordo quando mi parli di rischi di omologazione, e di predominio. Ma non sul fatto che in sé quell’immagine della donna sia degradante.
2. Io non so se B. avesse un progetto di plasmazione dell’immaginario collettivo. Dico solo che questo tipo di ragionamenti sono per me troppo semplicistici: perché ci sono troppe variabili in gioco, mettiamola così per non elencarle tutte. Un testo audio-visivo può persuadere, certo. E’ una questione enorme. Provo con una risposta che mi sembra efficace, data da Morin: “Non c’è azione unilaterale dei mass-media sul pubblico”. E ancora, Berelson: “Gli effetti sul pubblico non sono in conseguenza e in relazione diretta con le intenzioni di colui che comunica, né con il contenuto della comunicazione”. Sono cose che spesso dimentichiamo quando pensiamo al rapporto tra media e potere. Dimentichiamo che il fruitore ha un ruolo attivo anche nel caso di messaggi costruiti per persuadere: gli spot. Cosa che ricorda molto bene Eco in “Apocalittici e integrati” (evito la citazione). Questo non significa che i testi audio-visivi non producano effetti, ma tali effetti non solo prevedibili. E nella loro produzione sono fondamentali i fruitori il cui ruolo non è mai passivo, benché spesso nel caso della televisione si parli di passività.
Rimando al seguito possibili risposte alle questioni che sollevi, mi fermo per non farla troppo lunga. Grazie.
@Simone. Ripeto che dovrei fare una full immersion nelle puntate di ‘drive in’ per darne un giudizio non estemporaneo.
Come sai l”ipse dixit’ non mi seduce, per cui il fatto che a ‘dire’ sia stato Aldo Grasso, di destra o di sinistra che sia, per me, se non verifico, lascia il tempo che trova, anche se sicuramente ho strumenti molto meno raffinati dei tuoi e di Grasso: mi appello a quell’autonomia per cui il destinatario di un messaggio, estetico e non, ha il diritto di pensare e decodificare con la sua testa (per inciso, considero il postmoderno – concetto, concordo, dall’interpretazione ardua – un brodo da cui salvare solo alcuni pezzi di lesso, che ci sono, ma non sono tanti).
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Sono d’accordo sul fatto che gli effetti prodotti dagli audiovisivi non sono prevedibili a priori, nemmeno io credo nel determinismo, però ci sono e su come agiscono, quale sia la loro portata e quali siano gli strumenti più adeguati per indagarli la questione mi pare ancora aperta.
Per quello che mi riguarda, mi tengo stretto non solo il senso critico, ma pure una sana diffidenza. A scanso equivoci. Non solo, ma se da qualche cosa mi sento offesa, per prima cosa dico: quella cosa mi offende, poi ne possiamo pure parlare.
L’uso che si fa oggi del corpo della donna, l’esibizione della relazione fortemente sbilanciata uomo-donna, la condizione femminile fortemente e oggettivamente svantaggiata mi offendono e, secondo me, non è vintage la mia reazione, ma è l’oggetto stesso che la provoca a essere molto, ma molto, vintage.
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Ora però, solo a margine, rispetto al peana di Grasso in lode di Drive in, mi viene da rilanciare con la frase di Berelson che citi : “Gli effetti sul pubblico non sono in conseguenza e in relazione diretta con le intenzioni di colui che comunica, né con il contenuto della comunicazione” e, aggiungo io, con il giudizio dei critici laureati.
Per cui non vedo perché dobbiamo considerare oro colato i giudizi, non solo di Grasso, ma pure quella di Ricci, e non piuttosto gli effetti che Drive in ha prodotto sui suoi destinatari.
Sui quali effetti lascio al commentarium il giudizio, perché io non avendolo visto, se non per spezzoni, non ho nessuna competenza in merito.
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E ora chiudo fino a lunedì. Buona domenica a tutti.
Chiedo scusa, perché ancora non sono riuscita a vedere tutta la puntata (anche perché ho passato il pomeriggio al Palasharp) e dunque sposto momentaneamente l’attenzione da Drive In, ma confesso che lo faccio volentieri, anche perché quella non è la tv vediamo oggi e forse spostare il discorso sulla presunta genealogia della tv odierna è stata una bella furbata.
Approfitto del riferimento di Regazzoni a Aldo Grasso per postare il link a un suo commento a un programma di Mammuccari, The call: http://video.corriere.it/the-call-metafora-paese/fc2d3622-0451-11e0-b06d-00144f02aabc
Ecco, premesso che ho tutto il rispetto per Aldo Grasso (anche se non ne sono una entusiasta ammiratrice, confesso), questo commento in particolare mi ha stupita per il fatto che, mentre si lamenta della stupidità del programma in questione (sulla quale concordo) gli scorrono dietro le spalle immagini di donne sulle quali non trova – a mio avviso surrealmente – nulla da dire, con un effetto – almeno su di me – alquanto irritante. Domanda: il sessismo gratuito e offensivo dei ruoli femminili lo vedo solo io? E’ così irrilevante come il fatto che Aldo Grasso non lo noti sembrerebbe far credere? O quale altra interpretazione possiamo dare di quelle presenze (tra le quali, l’ho notato solo ora perché è un link che mi ero archiviata tempo fa, c’è la Maristell di olgettino-arcoriana nonché narcotica memoria)? Tanto per rendere il quadro più chiaro, una sera mi sono guardata cinque minuti della trasmissione in questione, durante i quali Mammuccari ha chiesto a una concorrente se 120 euro erano quelli che chiedeva a prestazione, a un’altra dov’era il suo pappone e ha selezionato una terza bella ragazza per baciare un principe a occhio e croce dell’età del premier e, se possibile, ancor più disgustoso.
Approfitto per segnalare al volo due cose: la mia sintonia con i commenti di Valeria (cosa che spesso mi accade) e il fatto che ritengo il trash americano qualcosa di diverso dal sessismo nostrano. Il trash può non essere sessista (come anche esserlo, per carità).
Daniela, mi devi spiegare una cosa: secondo l’Istat in Italia le donne occupate sono il 47,2% della popolazione di riferimento, mentre gli uomini sono il 70,3%. D’altro canto il tasso di natalità delle donne italiane è uno dei più bassi al mondo. Ma se è così, mi spieghi cosa fa più della metà delle donne italiane? (Oltretutto se a ciò si aggiunge che ci sono più di 1 milione di badanti straniere)……. Mi sembra che il problema sia piuttosto serio, non trovi?
@crowdserver
il problema è molto serio. Devo studiare meglio i dati (e questo dibattito mi ha stimolato a farlo). Sarebbe interessante conoscere la composizione di quel 50%. Sia anagrafica sia socioeconomica. Per le donne del sud penso di poter dire con buon margine di approssimazione che il 50% di no occupate (che al sud è molto di più) per 1/3 lavora in nero, per 1/3 sta a casa e per 1/3 passa da un lavoro all’altro con grandi periodi di disoccupazione (quindi questo terzo potrebbe non essere composto sempre dagli stessi individui). Se poi consideriamo che l’analfabetismo ancora esiste in questo paese arrivando a picchi dell8% al sud http://fattiemisfatti.com/2010/06/05/lanalfabetismo-in-italia/
Ma il problema del pregiudizio di chi è in posizione di potere (e.g., uomini) è un problema altrettanto serio, come rilevava anche l’articolo del NY Times che è linkato a questo post: “they [the women] are often discriminated against in the workplace, experts say, because employers BELIEVE that they will place family above job.” http://www.nytimes.com/2011/02/03/world/europe/03italy.html?partner=rss&emc=rss
invito comunque al leggere tutto l’articolo che ha altri spunti interessanti (Berlusconi ed escort a parte)
Non capisco una cosa: se la percentuale delle donne che non lavora è nettamente inferiore rispetto a quella degli uomini, cosa c’entra il drive in? scusate non è un problema di governo che non fa abbastanza per eguagliare lavoro e stipendio delle donne a quello degli uomini? e il problema nasce con berlusconi? mi pare di no. purtroppo siamo molto lontani dalle democrazie del nord europa anche per walfare. volevo poi rispondere a qualcuno che dice che non ci sono donne che difendono drive in ecc. Beh io lo guardavo ho 40 anni e non ho problemi a dire che era una trasmissione che mi faceva divertire. non sono certo diventata una donna sottomessa agli istinti maschili perché lo guardavo. sono una persona equilibrata mentalmente e ho un ottimo rapporto con gli uomini, piuttosto faccio i salti mortali quando devo lasciare il lavoro e correre da mio figlio che non sta bene perché l’organizzazione nelle aziende non facilita le mamme. forse io non ho capito niente ma questo mio problema dipende da come sono rappresentate le donne in tv? la polemica sui programmi televisivi può essere interessante ma fino a un certo punto, la realtà delle donne è un’altra. quando guardo striscia, uomini e donne, l’eredità non è che penso: ecco se le donne non trovano lavoro è per colpa di quelle che stanno in tv, che vanno a fare le ballerine. Ma chi se ne frega! La televisione è uno specchio deformante della realtà, non la rappresenta in pieno, è una lente che ingrandisce e deforma riprendendo una parte non il tutto. Se mio figlio crescerà con una certa idea di donna non darò la colpa alla televisione ma a me come genitore.
Don Cave con quel tuo bel predicozzo confermi quanto ho scritto
Capisco quanto questi siano argomenti complessi e spinosi, la cui trattazione meriterebbe tutt’altro tipo di modalità. Tuttavia capisco anche che vale la pena di sollecitare riflessioni che sono importanti. A Simone Regazzoni vorrei fare una domanda: quanto ritieni che sia verticale la comunicazione cui siamo sottoposti quotidianamente? Alle parole di Aldo Grasso (tutte interne all’oggetto comunicativo) vorrei aggiungere quelle di Norberto Bobbio (vecchie, guarda un po’, del 1994 a luglio) che invece azzardano una sintesi irriguardosa della pubblica intelligenza (come se si tentasse di guardarsi da fuori):
“Non ha vinto Berlusconi in quanto tale, ha vinto la società che i suoi mass media, la sua pubblicità, hanno creato.”
O forse questo non è un paese per vecchie parole? ^__^
“Se mio figlio crescerà con una certa idea di donna non darò la colpa alla televisione ma a me come genitore.”
serenella
Quest’ultima frase mi pare sia ineccepibile, e, aggiungo, sarà colpa anche dell’altro genitore.
Adesso proverò anch’io a fare un po’ di outing sul mio immaginario: direi tra i cartoni, “Il mistero della pietra azzurra” (quant’era bella Nadia!), tra i fumetti direi le donne di Dylan Dog, ma le mie primissime fantasie masturbatorie, per quel che riesco a ricordare, le ho avute (non ridete) pensando alle scene d’amore delle soap opera.
Passando dalle fantasie prettamente sessuali a quelle sentimentali, ultimamente sto leggendo Diabolik e Alan Ford. il rapporto di Diabolik e Alan con le rispettive fidanzate (Eva Kant e Minuette Macon) è fatto di complicità e assoluta parità. Mi piace molto.
Nel mio ambito lavorativo, la scuola pubblica superiore (che potrebbe essere esemplificativo perché, a differenza delle elementari, non è un ambito quasi esclusivamente femminile), non osservo alcuna disparità tra generi. Se la mia sensazione fosse corretta e generalizzabile a tutte le scuole superiori italiane, si dimostrerebbe una verità lapalissiana: là dove le donne non sono “penalizzate” dalla maternità e dalle cure parentali e dove sostanzialmente non esistono rapporti gerarchici, non si va oltre qualche caffè in più offerto alla supplente carina e qualche battutina su ciclo e menopausa fatta… tanto per non perdere l’abitudine. Anche al “vertice” di cui parla Daniela non mi sembrano esserci grosse differenze tra uomini e donne.
“Sporcarsi le mani significa scrivere qualcosa per la quale si verrà censurati.”
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Se si trattasse solo di questo, beh, di “medagliette” così ne abbiamo svariate: un libro del Luther Blissett Project fu sequestrato dalla magistratura ed è tuttora non ristampabile per sentenza di un tribunale civile; diversi amministratori pubblici del Veneto hanno recentemente chiesto la nostra messa al bando (e non solo la nostra) dalle biblioteche pubbliche e scolastiche della regione; poi articoli richiestici da giornali che all’ultimo momento vengono respinti perché scomodi etc. etc.
Solo che non credo funzioni così.
Davvero qualcuno pensa che lo “sporcarsi le mani” di uno scrittore dipenda da quante censure e/o quante denunce prende?
A volte (non sempre, ma a volte sì) censure e denunce si subiscono semplicemente perché si è stati avventati e maldestri.
E gli scrittori che scrivono cose altrettanto di rilievo, influenti e “scomode” ma in modi che non consentono querele, solo perché stanno più accorti non si stanno sporcando le mani?
Gli scrittori che tengono seminari in carcere o nei gruppi-appartamento di ex-tossici, che uniscono scrittura e volontariato, che partecipano a lotte sul territorio, ma non subiscono mai o quasi mai censure dirette e appariscenti, sono forse gente che non si sporca le mani?
Questa solfa che gli scrittori e gli intellettuali “non si impegnano” o non sono presenti o non si sporcano le mani è falsa e ideologica, deriva in alcuni casi – come ha fatto notare qui Valentina Fulginiti – da una proiezione delle proprie frequentazioni, e in altri casi da un’indebita generalizzazione all’intero consesso civili delle misere rappresentazioni che passa il “convento” mediatico (pagine culturali dei giornali che trascinano stancamente dibattiti artati, opinionismo dei sempre-soliti tromboni etc.)
Ovviamente ciò che dice Serenella, ancorchè lo condivida, non mi porta certo a negare l’importanza dei media e la loro capacità “persuasiva” sulle persone, specie se minori. però credo che la responsabilità sia di chi ha ceduto alla tv un ruolo educativo che secondo me non le spetta, o perlomeno spetta di più ad altri.
Serenella, semplificare è insensato: nessuno ha mai sostenuto che esiste un rapporto causa-effetto IMMEDIATO fra il modello femminile proposto dalle televisioni e la disuguaglianza di genere (altissima) nel nostro paese in materia di parità economica e professionale, influenza politica e aspettative di vita (non dimentichiamo questo aspetto, peraltro).
Ma pensare che il piano sociale e quello culturale, quello dove agisce l’immaginario, siano separati e non si incrocino mai, è, temo, ingenuo. Le studentesse italiane, per fare un esempio, risultano secondo tutte le indagini nazionali e non, più preparate dei propri coetanei, sono quelle che terminano prima il ciclo di studi e con risultati eccellenti.
Tutto crolla nel momento della ricerca dell’impiego.I motivi, come riportava Daniela, sono molti: non ultima, la riluttanza dei datori di lavoro nei confronti di futuri congedi per maternità.
C’è un dato interessante, anche qui riportato da diversi reportages sui concorsi per diventare veline. Molte ragazze sono laureate e con ottimi risultati. Sara Tommasi, finalista a Veline 2004 e poi paperetta e schedina, si laureò in economia alla Bocconi. Ma ha sempre dichiarato che la via scelta era più agevole: “io sono un prodotto da vendere nel mercato dello showbusiness”.
Ora: è evidente che non va sempre così e che le variabili sono infinite. Dipendono dalla famiglia, dalle relazioni, da migliaia di altri fattori. Eppure, il modello non è innocente. Se le bambine – secondo indagini condotte in diverse scuole elementari italiane – sognano la televisione, un motivo ci sarà anche.
Non voglio essere noiosa: che questo paese, qualunque sia stato lo schieramento che lo ha guidato, non abbia fatto praticamente nulla per l’occupazione femminile, per i servizi alla maternità, per i riconoscimenti economici e professionali delle donne, è un fatto assodato. Che a questo si unisca – e a mio parere peggiori la situazione – una rappresentazione televisiva delle donne a dir poco sconcertante, è un altro fatto.
Ps. Giuseppe D’Emilio: nel “tuo” ambiente forse. Nell’ambiente scolastico in assoluto la differenza c’è eccome. Nell’unico settore, la scuola, dove le donne sono più numerose degli uomini, i dirigenti scolastici sono nella stragrande maggioranza dei casi maschi. Non confondiamo casa propria con il resto del paese, non mi stancherò mai di ripeterlo.
@ Giuseppe d’Emilio
io e te siamo maschi. Non scordiamocelo mai. Noi siamo quelli che dalla disparità tra i generi traggono *vantaggio* ogni giorno, in modi che riteniamo talmente normali da averne fatto una seconda natura.
Non ci suona mai strano che quando si parla di scrittori si facciano quasi sempre elenchi di autori maschi, mentre gli elenchi di autrici, nove volte su dieci, si fanno solo se si sta parlando di “scrittura femminile”. Fuori da quella cornice specifica, elencare solo autrici suona strano, e se qualcuno lo fa (come Alfonso Berardinelli in una puntata recente di Fahrenheit), gli viene subito chiesto: “Come mai ha elencato solo donne?” (Berardinelli ha risposto, più o meno: “Mi è venuto così. Se avessi elencato solo uomini, me l’avrebbe fatto notare?”)
Noi maschi abbiamo abitudini, espressioni del nostro carattere, rituali quotidiani che si sono sviluppati grazie alla disparità tra i generi. Per forza tendiamo a non vederla, e ce la devono far notare le donne. Noi siamo totalmente immersi nella disparità. Quindi la nostra percezione, in sé, vale poco o nulla. Quando un maschio mi dice che non gli sembra che in giro ci sia tutta questa discriminazione della donna, io gli rispondo: “Appunto: non ti sembra”. Tu dici che “non osservi” disparità. No, Giuseppe, tu (come me) la disparità non la vedi. E’ diverso. Noi non la vediamo, non ce ne accorgiamo nell’immediatezza, dobbiamo ogni volta “pensarci”, arrivarci con il ragionamento, sforzandoci di guardare da fuori la nostra posizione di predominio.
@ Sir Robin,
ho tale stima per Bobbio che quando mi fu chiesto, al momento della polemica attorno al disegno di legge sulle intercettazioni, di partecipare a una lettura pubblica contro la legge, lessi, a Milano, la voce “disobbedienza civile” (bellissima) scritta da Bobbio. Devo però dire che trovo poco convincente l’analisi che le parole di Bobbio da te citate sintetizzano.
Non che in essa non vi siano elementi di verità (e qui bisognerebbe entrare nel merito: trovo che varrebbe davvero la pena analizzare il fattore Signorini), ma trovo che in essa vi sia una lettura della democrazia di massa poco articolata.
Provo a spiegarmi meglio: io penso che sia vitale per l’avvenire, perché un avvenire sia possibile, *decostruire il berlusconismo*; ma per farlo occorre cogliere la sua specificità (il che implica anche lo sforzo di comprendere le dinamiche nuove – sempre negative per me, ma comunque nuove – che B. ha attivato nello spazio del politico) evitando di confonderlo con la democrazia di massa. Invece quando l’intellettuale di sinistra (il vero problema è proprio il profilo storico-culturale di questa figura, nata con Zola, che chiamiamo ancora “intellettuale”) critica B. finisce molto spesso per criticare la sub-cultura televisiva, il degrado culturale del paese, l’individualismo esasperato prodotto da quel modello televisivo. Io questo lo trovo un errore. Perché la forza e la specificità del berlusconismo è di essere un fenomeno politico populista che usa in modo inedito lo spazio della democrazia di massa. E se si attacca la democrazia di massa per colpire il berlusconismo si rischia solo di far danno a l’organismo che ospita il vero obiettivo.
Ora: è una lettura di destra quella che vuole distinguere tra berlusconismo e spazio della democrazia di massa? Quella che rimprovera agli intellettuali il limite delle analisi della televisione e dei suoi programmi condotte sempre e solo con la critica dell’ideologia? Sono questioni legittime naturalmente. Io credo di no. Rinvio a questo proposito ad alcune considerazioni di Rancière nel suo “L’odio della democrazia”. Il limite di queste critiche è di riprodurre lo stesso schema che certa critica apocalittica o certa critica marxista in anni passati applicava alla cultura di massa tout court, e che oggi quasi nessuno oserebbe riproporre. C’è però un medium che ancora attira questo tipo di lettura, e non a caso è il medium distintivo della democrazia di massa e che più ha dato problemi all’intellettuale classico: la tv. E questo, paradossalmente, quando si dovrebbe riconoscere che in verità è proprio la tv ad aver prodotto in questi anni i più innovativi oggetti estetici della cultura di massa: le fiction seriali, ben presenti anche in Italia e la reality tv. Io non dico che non si possa fare anche critica dell’ideologia di ciò che la cultura di massa produce. Ma sempre nell’ottica di un approccio plurale, che non si limiti a liquidare frettolosamente ciò che la tv produce come “m***” per citare parole pronunciate qui. E questo vale anche per Drive In. Senza questo tipo di lettura ci si limita a liquidare o meglio a esorcizzare qualcosa che continuerà a produrre effetti.
La comunicazione cui siamo sottoposti quotidianamente è verticale in particolare per quanto riguarda l’informazione, che almeno per me rimane l’aspetto più problematico della tv italiana. Il resto della produzione della cultura di massa certamente è verticale, se vuoi, ma le dinamiche della sua fruizione sono qualcosa di inedito e attivo, che in alcun modo corrisponde al fantasma di un Soggetto che grazie ai media e alle narrazioni in essi inserite plasmerebbe le menti delle masse con ricette del tipo Drive In + Dallas + X produce Y. E’ di questo frame che, credo, dovremmo al più presto liberarci. C’è un libro importante con prefazione dei Wu Ming che spiega molto bene le dinamiche di interazione attiva tra fruitori e cultura di massa (reality compresi): è “Cultura convergente” di Jenkins. Io quindi non credo all’egemonia sottoculturale. Berlusconi ha costruito una potente narrazione politica (per noi aberrante) usando anche materiali di quell’universo: ma non è l’universo della cultura di massa ad aver prodotto in termini di causalità B. Noi dobbiamo attaccare la sua narrazione, non lo spazio da cui ha attinto materiali. Perché se attacchiamo quello spazio che è lo spazio della cultura e della democrazia di massa appariamo immediatamente, e giustamente, come una élite di intellettuali snob che guarda in modo sprezzante, dall’alto della propria cultura, le masse. E’ il discorso delle élite intellettuali raffinate che Rancière critica. Mi scuso per la lunghezza, ma volevo argomentare nel modo, spero, più chiaro possibile la mia posizione di sinistra.
Loredana e WM1: non a caso sono stato molto dubitativo nel mio commento, bisogna giustamente verificare, magari col conforto del parere di insegnanti donne, se si tratta di una mia sensazione “da maschio” e/o limitata alla mia esperienza; per quanto riguarda la questione dei dirigenti scolastici, credo che nella scuola il rapporto sia più equilibrato rispetto ad altri ambiti lavorativi; domani proverò a documentarmi (ora devo uscire).
Va’ pure detto che “sognare la televisione” può anche voler dire sognare di fare la conduttrice e non necessariamente la velina. Che poi chi lo sa come può andare? Roberta Lanfranchi iniziò come velina di Striscia e in seguito condusse un’edizione dell’Italia sul 2 (una trasmissione di qualità non altissima, secondo me, ma non è questo il punto), Eleonora Daniele che fu concorrente alla seconda edizione del Grande Fratello ora è tra i conduttori di Uno Mattina.
Ma l’esempio che ammiro di più è Ambra Angiolini che dai tempi di Non è la Rai è maturata e cresciuta (in ogni senso e in meglio)…sarebbe arrivata al punto in cui è ora pure senza Non è la Rai? può darsi di sì, ma la domanda che voglio porre è: se molte bambine sognano la televisione come una volta magari sognavano il cinema (era meglio? Forse sì) perchè genitori e insegnanti non sono in grado di proporre altri sogni? Si sono mai sforzati di farlo? Quando sento dire che la tv sarebbe “la prima agenzia formativa del Paese” come dato acquisito m’incavolo…perchè, se fosse vero, nessuno si chiede mai chi ha permesso che accadesse, e nessuno o quasi si chiede mai come reinventare, innovare (senza restaurare) un ruolo educativo a scuola e in famiglia.
@wu ming 1 nemmeno a me piace quando si parla di letteratura “femminile”, cinema “femminile” ecc..l’arte non è maschio o femmina, ma solo riuscita o meno.
Giuseppe. I dirigenti maschi sono 54,2% nel settore dell’obbligo e 76,2% negli istituti superiori,
Senti Paolo. Nessuno nega il ruolo determinante della famiglia e della scuola, mi sembra. Ma laddove la famiglia è meno presente o preparata culturalmente, gli altri media influiscono. Questo vogliamo negarlo?
Forse un po’ OT:
“Distolgo la mente. Penso che in effetti l’immagine istituzionale e manualistica del partigiano è quella del guerrigliero montanaro, caro all’immaginazione ‘guevariana’ della generazione successiva. Non ti viene da pensare ai Gap ai Sap e tanto meno alle donne. Devi fare uno sforzo, devi fare mente locale e pensarci” da Asce di guerra Wu Ming pag 227.
Ecco, credo che questo atteggiamento, noi maschi, dovremmo sforzarci di averlo sempre. Dovremmo cercare di riconoscere le immagini istituzionalizzate, tutte le immagini, e ripensarle. E’ tempo di responsabilità, altro che lodare ipotetici geni.
grazie alla padrona di casa.
@ Paolo, temo che ci siamo fraintesi, io sto dicendo il contrario, e cioè che tutto è sessuato: esiste eccome una scrittura maschile, un cinema maschile, un’arte maschile, solo che quella “mascolinità” è interpretata come la normalità, la natura delle cose, perché il punto di vista maschile sul mondo è quello dominante, è quello “di default”. Quindi tale “sessuazione” viene notata e fatta notare molto più di rado. Noi maschi nemmeno ce ne accorgiamo che il mondo è sessuato a nostra immagine e somiglianza, devono sempre farcelo notare coloro che ci vivono in modo …meno comodo. Invece lo sguardo delle donne (che, s’intenda, è uno sguardo plurale, molteplice; non vorrei essere frainteso e accusato di considerare le donne tutte uguali!) è considerato l’eccezione, “l’altro” punto di vista, da tenere in considerazione per “contentino”, e in ogni caso è la cornice minore, il sotto-insieme.
Per questo si parla di autrici prevalentemente in dibattiti a tema specifico (“il ruolo delle scrittrici” etc.), mentre si parla di autori maschi sempre. Appunto: noi siamo “l’impostazione di default”: accendi un qualunque terminale della macchina sociale, è parte la modalità maschile; per tener conto delle donne, un maschio deve sempre andare sulla barra degli strumenti, cliccare “Opzioni” e cambiare l’impostazione.
A conferma di quel che scrive Wu Ming 1, testimonio la difficoltà estrema che ho incontrato negli anni quando mi venivano proposti dibattiti o articoli sulla “scrittura femminile”. Sostenere che occorre parlare di scrittura, punto, è cosa che viene capita da pochissimi, anche quando ci si trova in ambienti colti, preparati e financo “di sinistra”.
@ Simone Regazzoni
Devo uscire, purtroppo. Provo a cavarmela con una battuta (anche se credo che non farà ridere nessuno). Secondo Matteo Renzi la metà delle università italiane andrebbero chiuse.
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2011/02/03/news/renzi_mat_delle_universit_dovrebbero_essere_chiuse-12010731/?rss
@Serenella, Lipperini, Regazzoni ecc.
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Anch’io penso che la condizione femminile in Italia non dipenda esclusivamente dal linguaggio televisivo e pubblicitario. La critica dell’immaginario non può aggiudicarsi l’esclusiva, in un progetto di lotta, sulla mobilitazione relativa a temi come la parità dei diritti sul lavoro, la violenza maschile ecc.
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Detto questo, però, va riconosciuto che il lavoro sull’immaginario è importante, per una ragione molto semplice: nel tipo di comunicazione su cui si basano i linguaggi della televisione e della pubblicità ha un peso molto forte la componente “prescrittiva” che ha segnalato Valeria. Esprimendo il concetto nei termini della teoria della comunicazione, si potrebbe dire che la “funzione conativa” svolge un ruolo importante, perché, soprattutto se si parla di tv commerciale, l’obiettivo di quel tipo di comunicazione è prima di tutto, quello di vendere.
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La sorte della maggioranza dei programmi televisivi e la loro collocazione nel palinsesto dipende dal ritorno economico garantito dalle inserzioni pubblicitarie. Ora, il motivo per cui un certo tipo di televisione diventa così appetibile per gli inserzionisti risiede in larga parte nel carattere “conservatore” dell’immaginario pubblicitario (e quindi, per diretta implicazione, televisivo): si fa leva su tendenze esistenti nella società e nel costume, si scommette sulla maggiore o minore aderenza di un certo tipo di proposta rispetto ai “gusti del pubblico” per catturare l’attenzione dei consumatori.
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Il processo è sicuramente più complesso di così, ma quello che secondo me conta è prendere atto di un fatto ben preciso: la dinamica commerciale tende per sua natura a non sconvolgere l’ordine simbolico che esiste all’interno di una società… e anzi, tentando di intercettarlo il più possibile, finisce di fatto per assecondarlo e rafforzarlo.
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Questo non esclude la trasformazione che anzi c’è ed è tutt’altro che marginale… però a dettare modalità e tempi di questa trasformazione non c’è alcun intento rivoluzionario o, in senso lato, “educativo” (di qui la ridicolaggine nell’affermare che la tv di Ricci è “gramsciana”); a prevalere, è la trasformazione dettata dall’esigenza di creare nuovi sbocchi di mercato per nuovi prodotti.
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Ecco quindi da dove deriva la netta opposizione a discorsi come quello di Regazzoni… va bene fare analisi testuale, però buttare nel cesso qualsiasi altra forma di analisi (quello che lui chiama “critica dell’ideologia”) significa esimersi dal dare un giudizio sui contenuti, che invece secondo me è fondamentale nella misura in cui i contenuti veicolati da quel linguaggio, con quella particolare modalità comunicativa (di nuovo, il peso enorme della componente prescrittiva, conativa), giocano di rinforzo rispetto all’orizzonte simbolico condiviso. Orizzonte che, giusto per restare al tema, va poi di fatto a legittimare e rendere “normale”, nelle pratiche sociali quotidiane, la discriminazione delle donne sui posti di lavoro o a minimizzare il peso della violenza maschile.
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Tra l’altro, a questo proposito, è significativa la citazione del saggio di Aldo Grasso… l’analisi di Grasso è tutta incentrata sul livello “sintattico”; ora, anche solo restando all’analisi testuale in semiotica, è comunque il contenuto, nei suoi vari livelli di organizzazione, l’oggetto principale dell’indagine! E l'”assolutizzazione del testo”, con annessa epurazione di qualsiasi critica che faccia leva su aspetti non strettamente testuali, è un rischio al quale nemmeno l’analisi semiotica è immune… per cui, davvero, mi chiedo di che diamine di “analisi testuale” parli Regazzoni… e, di nuovo, non riesco quindi a leggere nei suoi interventi altro che una legittimazione “ideologica” (nel senso marxiano del termine) di quanto ci viene propinato, a livello di immaginario, dai media televisivi.
@ Don Cave:
pur nella distanza che separa il tuo approccio dal mio, dici cose su cui penso sia importante riflettere: non c’è cultura di massa che non risponde a logiche di mercato. E si tratta di capire allora che tipo di dinamiche ciò innesca. In questo momento devo uscire: ma appena torno, provo a dire che cosa penso in merito.
Precisazione: non ho mai detto che la critica dell’ideologia sia da buttare. A me sta bene se si pone come uno dei modi di analisi e critica di un testo (per me non è il principale, naturalmente). Inoltre il contenuto per me non è l’oggetto principale dell’indagine. Il mio approccio ai testi, per essere chiari, è di tipo decostruzionista.
Per sintetizzare in una battuta brutale: “non esiste il vero senso di un testo”.
@lalipperini, io non voglio negare niente. Se la famiglia non è preparata culturalmente ci sarebbero sempre gli insegnanti e se non sono preparati neanche loro (ma in realtà molti/e lo sono)..bè non mi meraviglia che i giovani preferiscano dar retta alla TV, (poi certo la scuola italiana a causa dei tagli si trova in una situazione difficile per non dir tragica a prescindere dalla preparazione degli insegnanti) e qui si torna al discorso di come reinventare i ruoli educativi. Questo senza nulla togliere alla critica alla tv italiana e ai modelli dominanti.
comunque, a proposito di modelli, ci sarebbe da discutere anche su quei tanti bambini maschi italiani che vogliono fare il calciatore e sulle pochissime bambine italiane che sognano di fare la calciatrice.
@wu ming 1. Penso (spero) di aver capito e condivido, quando si parla di artiste donne lo si fa sempre come “eccezione” ed è sbagliato.
Però mi chiedo al di là del sesso del suo autore, esistono caratteristiche che ci possono far dire questa opera è inequivocabilmente di una donna quest’altra è inequivocabilmente di un uomo? Io credo di no, è proprio per via della pluralità, molteplicità di sguardi che riguarda entrambi i generi. Quando ho letto scrittrici che apprezzo come Amelie Nothomb, Isabel Allende o Simona Vinci, non ho visto in quella scrittura caratteristiche “femminili” ontologicamente diverse da quelle che potrebbe avere uno scrittore uomo che raccontasse la stessa storia. Non ho mai pensato “un uomo lo racconterebbe in maniera diversa o non lo racconterebbe affatto”, ma ho pensato “quel dato scrittore, uomo o donna che sia, lo racconterebbe in maniera diversa”. Insomma credo che a distinguere un’opera femminile da una maschile sia solo il sesso dell’autore non lo stile o il tema affrontato, anche se per fattori culturali ci sono tematiche considerate “maschili” e “femminili” che però in realtà non appartengono ad un solo genere,e una regista premio Oscar come Kathryn Bigelow sta là a dimostrarlo.
Mi sa che però sono andato un po’ OT, spero comunque di non aver scritto troppe fesserie.
A dire il vero a scuola non c’è alcuna disparità fra uomini e donne, neppure a livello dirigenziale. Questo dipende dalle caratteristiche del mestiere di insegnante, che non ha nulla a che vedere con dinamiche aziendali, competitività, obiettivi, ecc, ma si tratta di un ruolo educativo che si fonde con il quotidiano al punto che spesso l’insegnante replica a scuola lo stesso ruolo che ha fra le mura domestiche. Il concorso per dirigente scolastico è aperto a chiunque possieda i requisiti (sette anni di ruolo), quindi per capire perché i presidi siano per la maggior parte uomini c’è da ragionare sul motivo che spinge più uomini che donne a sostenerlo. Per quanto ho potuto constatare nella mia esperienza, dipende dal fatto che gli uomini sono naturalmente più motivati a ottenere un ruolo dirigenziale anche nella scuola, dove non esistono livelli di inquadramento, insomma, se gli interessi e le soddisfazioni esterne alla scuola scarseggiano, e c’è la possibilità di comandare, gli uomini ci provano, oltre al fatto che il preside guadagna il doppio di un insegnante. Altra ragione, che spinge piuttosto le donne a tenersi alla larga dal concorso da dirigente, è il fatto che il livello di burocratizzazione è elevatissimo, le rogne e la montagna di carta da sbrigare sono infinite, e l’alta responsabilità civile e penale e il tempo che si sottrae a se stesse e alla famiglia non sono compensati dallo stipendio, che non è poi così elevato. Quindi non è una questione di discriminazione, ma si tratta di un ruolo per il quale serve innanzitutto un’autorevolezza naturale, e una predisposizione al comando e a sobbarcarsi di responsabilità, diversamente dall’università, dove i concorsi sono confezionati su misura (o su misure…) e quindi la discriminazione è effettiva ed evidente.
Riguardo il commento di Paolo: una percentuale elevatissima di una classe di dimensioni medie (fra i 20 e i 30 alunni, a seconda del grado di secondaria) non ha un contesto famigliare di cultura sufficientemente alta da permettergli di formarsi idee autonome sul mondo. In questo vuoto si inserisce la TV, che passa messaggi (che novità), e questi messaggi influenzano scelte e modelli comportamentali laddove i genitori non sono in grado di offrire di meglio, e questi comportamenti e pensieri alla scuola poi tocca contrastarli. La maggior fatica degli insegnanti oggi consiste nel tentare di arginare i danni causati da un’eccessiva esposizione a programmi il cui effetto è di creare il vuoto pneumatico nel cervello degli adolescenti. Prova a trascorrere un quadrimestre con 20 liceali, poi magari discutiamo di innovare e reinventare il ruolo educativo della scuola.
Claudia B., infatti voi che siete insegnanti, dovete discutere di come reinventare questo ruolo per una classe di 20-30 ragazzi/e che non vengono da “contesti familiari di cultura sufficientemente alta”, (su quale sia un”contesto alto” e quale sia “basso” però non saprei dire) e guardano una tv non certo di alto livello e io sono sicuro che ne discutete e lo fate in mezzo a mille difficoltà. Mi sono evidentemente spiegato male non volevo affatto accusarvi di non fare il vostro lavoro tanto più che sono convinto che i giovani in buona parte siano migliori di come sembrano quindi ci sono ancora genitori e insegnanti che il loro ruolo lo sanno svolgere solo che questa positività non entra a far parte del discorso pubblico dove sembra che la gran parte degli adolescenti e dei giovani sia lobotomizzata dalla tv.
@ Paolo 1984,
quello che fa intuire la “sessuazione” di un’opera è soprattutto ciò che nell’opera viene rimosso. E’ dall’assenza, dalla mancanza, dall’esclusione di aspetti della vita fondamentali ma ritenuti automaticamente “pertinenti” al solo mondo femminile che si capisce quanto un autore maschio rimanga confinato nel proprio punto di vista o in che misura riesca a uscirne, o almeno problematizzarlo.
Ti faccio l’esempio dell’Autobiografia di Benjamin Franklin. Da sempre Franklin è visto, descritto e ammirato come l’epitome dell’inventore poliedrico, del “self made man”, del genio-a-tutto-tondo: scienziato, filosofo, politico, scrittore, editore, affarista, imprenditore, diplomatico, educatore… Un autentico prodigio. E l’autobiografia racconta questa parabola umana caratterizzata da versatilità, quasi-ubiquità, vulcaniva verve e volontà di potenza creatrice. Il libro è uno dei grandi classici della letteratura (e dell’ideologia) americana.
Ora: Franklin ebbe tre figli e una plètora di nipoti.
Franklin ebbe sempre tutto il tempo che voleva per dedicarsi alle sue numerose imprese per un motivo molto semplice e banale. Talmente banale che nessuno ci pensa mai, e questo vale per *tutti* i Grandi Uomini della Storia (artisti, politici etc.)
Il motivo molto banale è che dei suoi figli se ne occupò esclusivamente la moglie. Come tante, innumerevoli mogli e compagne, quella donna si occupò dell’ambito domestico e parentale, lasciando libero l’uomo di “estroflettersi” verso il mondo e l’Imperitura Memoria.
E questo è il grande rimosso dell’opera che ho preso ad esempio. Questo mondo in ombra che permetteva lo svilupparsi del mondo baciato dal sole, nel libro di Franklin è presente solo in sporadici, vaghissimi incisi e parentesi, e sempre come pretesto per rafforzare ulteriormente l’immagine del Franklin “saggio uomo pubblico”. Un esempio?
“Nel 1736 persi uno dei miei figli, un bel fanciullo di quattro anni, a causa del vaiolo contratto nella maniera solita. Ho rimpianto a lungo amaramente e tuttora rimpiango di non averglielo fatto iniettare come vaccino. Ne parlo nell’interesse di quei genitori che trascurano questa operazione […]” etc. etc.
“Un bel fanciullo di quattro anni” è tutto ciò che veniamo a sapere di quel bambino. Suo figlio. Un fantasma. Un’ombra passeggera.
Ecco, questa per me è l’apoteosi della scrittura sessuata maschile.
E, attenzione, non è solo un problema del XVIII secolo: persiste ancora oggi, raramente messo in discussione.
In quanti, leggendo un libro scritto da un uomo, si accorgono della suddetta esclusione?
In quanti romanzi scritti da uomini si tiene conto dell’immensa mole di lavoro femminile sovente non riconosciuto come tale (lavoro domestico, mestiere di madre, di moglie etc) che, se non venisse svolto, eliminerebbe la possibilità di vedere i personaggi maschili scorrazzare sulle pagine, saltando da un’impresa all’altra?
@ Simone Regazzoni
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In attesa del proseguimento del tuo intervento, vorrei dire due parole sull’approccio decostruzionista.
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La decostruzione va benissimo, però penso sia rischioso quando diventa appannaggio di una “avanguardia” (perennemente a rischio di trasformarsi in retroguardia, e delle peggiori) di intellettuali, filosofi, accademici.
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Più che un esercizio intellettuale, secondo me, la decostruzione è una PRATICA, che come tale può essere esercitata da chiunque, a qualsiasi livello di fruizione.
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In realtà questo già accade… i mass-media spesso anzi incoraggiano modalità di fruizione “divergenti”, ed è questo il motivo per cui non vanno condannati a prescindere.
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Però, di nuovo, attenzione a non concedere il monopolio delle pratiche decostruttive ad una “cupola” barricata in seno alle istituzioni accademiche.
Aggiungo uno spunto banale alla discussione, ma da cui secondo me non si può proprio prescindere. Said diceva – con il suo consueto meraviglioso buon senso – che quando si inizia uno studio la prima cosa da stabilire è il suo scopo (non mi ricordo nè le parole esatte nè il testo da cui vengono, pardon. Causa trasloco il contenuto della mia libreria è sparpagliato in tre diverse regioni).
Perchè? è la domanda che è indispensabile porsi. Ora, sono certamente ignorante e limitata, ma non riesco proprio a capire il perchè di un’analisi del testo come quella che propone Regazzoni.
Sono moralista e bacchettona, forse.
@ Don Cave:
rieccomi.
1. Sono talmente d’accordo circa rischio di fare diventare la decostruzione una sterile pratica accademica (è più che un rischio) che ho tentato di metterla in pratica in testi che, lavorando su oggetti estetici della cultura di massa, fossero leggibili per un pubblico non-accademico. Sono talmente d’accordo che non mi limito a fare i miei corsi in università, ma vengo anche qui a discutere. Poi, certo, faccio anche un lavoro accademico, che continuo a reputare importante, ma sono convinto che fare solo quello non sia sufficiente o al limite sia rischioso. E’ vitale lavorare a più livelli e usare media diversi. Sì, la decostruzione è una pratica e come tale può essere praticata da chiunque.
2. La cultura di massa sottostà alle leggi del mercato. Innegabile. Gli Studios, con pochissime eccezioni, producono film “crowd-pleaser” o “crowd-puller”, cioè capaci di arrivare a un vasto pubblico (vale a dire in grado di produrre alti incassi) e sono prudentissimi a dare quella che chiamano “green light” a progetti magari di grande valore ma poco rassicuranti dal punto di visita del ritorno economico. Prendo l’esempio degli studios perché è quello in cui la legge del mercato è più evidente in ogni fase della produzione di un film. Ora questo non produce automaticamente la creazione di merci senza nessun valore estetico, culturale o artistico. Ci sono molte cose che sanno di già visto, di mera ripetizione di un prodotto affidabile; ma ci sono anche opere di indubbia qualità. Senza tirare in ballo il cinema indie e restando agli studios: ci sono film su vari supereroi pessimi; ma ci sono anche i Batman di Nolan. Inoltre ci sono registi che lavorano con gli Studios che sono tra i massimi viventi: pensa a Tarantino. Questo perché il sistema stesso degli studios prevede “unità specializzate” che favoriscono la creatività di alcuni registi. Miramax e Touchstone sono unità di specializzazione della Disney ad esempio.
Se poi si guarda al mercato delle serie tv qui il sistema televisivo americano e il suo mercato hanno permesso di produrre veri e propri capolavori. Certo, se il pilot non funziona la serie chiude. Ma questo alla fine non si è rivelato un gioco al ribasso: opere iper-innovative sono passate. E sono state prodotte grazie a questo sistema. Quindi il fatto che la cultura di massa sia legata al mercato non significa nulla in termini di qualità dell’oggetto estetico o della “merce culturale”. Ma questo è un discorso che già facevano Eco e Morin.
3. Questo non vale per la tv generalista italiana? In parte no, ma non del tutto. La produzione di fiction, con pochissime eccezioni, non è di alto livello: e questo sia detto con il massimo rispetto per gli sceneggiatori italiani che lavorano in condizioni difficilissime. Alcuni talk sono di livello infimo. Ma non tutti. Per restare in casa del nemico, e reti mediaset generaliste trasmettono anche molta fiction statunitense di indubbia qualità: Dr. House, Fringe, Big Bang Theory, Glee, per citare cose recenti. Quando si parla della figura della donna lo si dimentica sempre: si prendono solo i talk, certi talk. Anche qui concordo con Aldo Grasso: “La tv italiana non ha i tratti del Grande Fratello, almeno non di quello descritto da Orwell; non è stata, e non è, solo apportatrice di abbruttimento, tristezza, squallore, diffidenza odio”.
Daniela, per concludere, ti dico anche che il 26% delle donne lascia l’impiego dopo il primo figlio.
Io leggo la cosa in questa maniera : c’è ancora una mentalità piuttosto diffusa nelle donne italiane -soprattutto al sud, credo- per cui si fanno studi non particolarmente difficili, ci si parcheggia per qualche anno in lavori precari, per poi avere la “scusa” di dedicarsi ai figli/famiglia, lasciando ogni attività lavorativa.
Bisogna lottare contro questo sistema, anchè perchè lo Stato Sociale non può più permettersi di “mantenere” individui che non hanno contribuito -se non in misura minima- alla produzione delle risorse necessarie per il Welfare.
@ Adrianaaaa,
ti deluderò, ma non procedo mai in modo così razionale o razionalizzante come Said. Ogni volta le cose procedono in modo diverso, e se dovessi davvero dire il perché ultimo di uno studio intrapreso non lo saprei dire con certezza, benché potrei trovare molte ottime ragioni. Scrivere, guardare, studiare per me al fondo è cosa che ha a che fare con fantasmi e pulsioni. Il che non significa che non ci siano strategie. Quando ho scritto il libro sul porno usando molto materiale di femministe pro-sex l’ho fatto precisamente per intervenire in un dibattito sul femminile in Italia che prendeva una piega ai miei occhi troppo morale. Ma accumulavo materiali dai tempi del mio dottorato a Parigi grazie a discussioni sul tema con colleghe francesi e americane che se ne occupavano e mi hanno fatto cambiare prospettiva: io a qui tempi ero contro il porno…
@ Simone Regazzoni
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Un altro appunto, questa volta sul rapporto fra cultura di massa e “logica di mercato”.
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Penso che la frase “non c’è cultura di massa al di fuori della LOGICA di mercato” sia errata. Diventa invece una specie di truismo se riformulata così: “non c’è cultura di massa che possa sopravvivere a prescindere da un ritorno commerciale”.
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Dico che si tratta praticamente di un truismo perché la nascita della cultura di massa ha implicato un rapporto fra produttori e consumatori di cultura che ha stravolto la precedente collocazione di scrittori, intellettuali e artisti nella società. La condizione di sopravvivenza di queste figure, nella società di massa, non è più legata al mecenatismo o al possesso di uno status aristocratico, ma poggia invece sulla “vendibilità” dei prodotti culturali ad un pubblico eterogeneo.
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Però questo non significa che la commercializzazione del prodotto culturale debba per forza incamerare in tutto e per tutto la LOGICA del mercato.
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Faccio un esempio chiamando in causa degli interlocutori abituali di questo blog: immagino (e spero!) che il progetto Wu Ming riesca a sostenersi economicamente grazie alla vendita dei libri… e mi sembra anche che gli scrittori del collettivo siano molto bravi nel promuovere quello che fanno.
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Tuttavia, anche solo il fatto di pubblicare in Copyleft (e sto citando solo l’aspetto più evidente), colloca automaticamente questa promozione al di fuori di una logica di mercato, proprio nella misura in cui colpisce al cuore uno dei suoi maggiori punti di forza: la proprietà intellettuale.
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Conclusione: si può fare “cultura di massa” anche senza assecondare la logica di mercato, ma anzi sfruttando i canali di promozione e commercializzazione del prodotto culturale per supportare delle modalità di fruizione e diffusione che sono in antitesi con quella logica.
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Di nuovo: evitiamo la proverbiale “notte in cui tutte le vacche sono nere”.
@ Don Cave:
la correzione che tu proponi non nega la formula generale, prova a correggerla a partire da alcune strategie che, tuttavia, non sono la regola della produzione della cultura di massa.
Ergo, direi che non c’è cultura di massa al di fuori della logica di mercato, ma ci sono forme di produzione culturale che provano a resistere o a fare un uso diverso di questa logica. I Wu Ming ne sono un esempio, sì; anche se il copyleft in generale non colloca fuori dalla logica del mercato bensì possiamo dire la decostruisce dall’interno: se il copylfet producesse come conseguenza il crollo delle vendite di certi libri gli editori non lo accetterebbero più. Mentre il copyleft è anche strumento di promozione del libro.
“Si può fare ‘cultura di massa’ anche senza assecondare la logica di mercato, ma anzi sfruttando i canali di promozione e commercializzazione del prodotto culturale per supportare delle modalità di fruizione e diffusione che sono in antitesi con quella logica”. Certo. Lo ho anche scritto nel prologo di un volume che ho curato: “fare un buon uso perverso di certi dispositivi come anche di una certa condizione del mercato editoriale”.
Anche di notte le vacche conservano le loro sfumature.
Le dispute filosofiche e il gioco a chi è più colto mi interessano poco. Invece, mi interessa moltissimo – oltre all’argomento di partenza – l’ultimo commento di Wu Ming 1 sul femminile come assenza nella scrittura degli uomini. E’ verissimo. Non solo: anche nel caso contrario, difficilmente si riesce a prescindere dal maschile. Anzi, è molto raro trovare una narrazione femminile dove chi scrive non metta al centro il maschile stesso. Anche non volendolo, il default è quello. Persino quando si descrive una fuga, è una fuga dal maschile. Riguardavo poco fa Thelma e Louise, che è stato un film manifesto per molte donne: ma se il centro sono due donne, l’universo maschile attorno è quello che, pur dalla cornice, schiaccia. Questo per dire semplicemente che anche noi ci facciamo i conti, tutte le volte.
@ Simone Regazzoni
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Continuo a non trovarmi d’accordo. La LOGICA di mercato è una cosa ben precisa, che ha alle spalle tutto un armamentario concettuale che molte delle dinamiche in atto nella cultura di massa negano in modo radicale.
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Non penso infatti che la questione minoritario-maggioritario sia del tutto pertinente. Quanto peso hanno, ad esempio, i fenomeni di fandom, la condivisione di contenuti free, le forme di cooperazione trasversale, fino allo sfruttamento del lavoro creativo erogato gratuitamente…? Più che in termini di percentuale, varrebbe forse la pena ragionare in termini “di sostanza”: questi fenomeni rappresentano una tendenza importante all’interno della cultura di massa, che contribuisce a plasmarne la natura e il significato.
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La LOGICA di mercato è basata sul profitto individuale, sulla libera concorrenza, sulla rivendicazione dei diritti di proprietà. Ma la cultura di massa cresce e si forma sempre di più grazie a pratiche condotte al di fuori di qualsiasi prospettiva di profitto, basate sulla cooperazione, sulla condivisione e sul lavoro a più mani, e profondamente “eversive” rispetto alle rivendicazioni di proprietà intellettuale.
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Insomma: ci sono infinite contraddizioni da esplorare e da “far esplodere”. Limitarsi ad appiattire la cultura di massa sulle logiche di mercato significa essere, ironicamente, assai poco “decostruttivi”.
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“Mercato” è un altro termine che andrebbe decostruito. E di brutto.
Diciamo che non ho problemi ad auspicare che tu abbia ragione, anche se non sono ancora così ottimista.
@Paolo: ma guarda che avevo capito, ci tenevo solo a precisare. Poi però dici:
“solo che questa positività non entra a far parte del discorso pubblico dove sembra che la gran parte degli adolescenti e dei giovani sia lobotomizzata dalla tv.”
Secondo me anche se la positività che c’è nella scuola e nella società civile non entra a far parte del discorso pubblico, e anche se fosse vero che non esiste alcun legame comprovabile fra cattivi modelli televisivi e cattivi comportamenti adolescenziali, un giudizio di merito sulla qualità della TV italiana si può dare lo stesso, sulla base di ciò che viene messo in onda. Di fatto, io credo che i danni maggiori la TV li provochi agli adulti e non ai ragazzi, perché gli adolescenti in realtà la guardano pochissimo (un’ora al giorno, il programma preferito e poco più), piuttosto stanno ore attaccati alla PSP, a messenger o vanno a rincoglionirsi al centro commerciale. Fra l’altro un tempo si diceva che era tutta colpa del rock’n’roll 🙂 per cui le cause del disagio giovanile vengono di volta in volta attribuite al demonio di turno. Questo però non sposta di un centimetro il giudizio negativo sui modelli introiettati tramite lo schermo, che l’origine sia Drive In o la tv trash americana importata. Si tratta di espurgare dall’immaginario assuefatto degli italiani l’idea che il corpo femminile possa essere spersonalizzato e utilizzato per fini commerciali o che sia lecito ottenere riconoscimento pubblico tramite la prostituzione di alto bordo che oramai è platealmente connessa all’esposizione in TV. Anche a me ha colpito il fatto che Grasso parlasse per parecchi minuti del giochino del telefono senza fare alcuna osservazione sulle ragazze addobbate da dementi che gli passavano alle spalle fra cui la tristemente nota olgettina. Ecco: io non ho la TV e quindi non so nulla di ciò che passa, ed evito accuratamente di informarmi. Ma entro nei bar, e hanno quasi tutti lo schermo. Di solito l’effetto che mi fa è che resto imbambolata e fatico a decriptare quello che vedo e sento, che sia il telegiornale (quantità di stronzate immani, notizie date alla cazzo, ecc) o i talk show con valanghe di silicone e parti del corpo esposte, che trovo disturbanti, e solo allora mi spiego certi atteggiamenti dei miei ragazzi, che altrimenti nell’aria di casa mia, fra radio 3, libri, cd e dvd selezionatissimi non riesco a spiegarmi.
Ti racconto una cosa che non c’entra niente, ma può servire: c’è una ragazza a scuola che quando parla fa le facce come le adolescenti dei programmi tv americani, quelle facce tirare, con le sopracciglia mobili, le dita a virgolette oppure i palmi spalancati, insomma tutta quella mimica che gli americani non notano più e che a noi europei dà ferocemente sui nervi. Non mi spiegavo perché. Poi esce che la ragazza ha una casa in america non so dove, e ci passa alcuni mesi all’anno, quindi la sua mimica l’ha presa da lì. Le sue coetanee hanno una mimica diversa che prendono dal nostro contesto, e non so quale sia peggio sinceramente; sta di fatto che i ragazzi imitano quello che gli pare cool, quello che è riconosciuto come fico, e la stessa cosa la fanno certi adulti incapaci di discernere, associando un modello al riconoscimento sociale che gliene deriva, e quindi la frittata è fatta (so che sto semplificando). Al modello donna=corpo spersonalizzato va tolto il riconoscimento da parte della società, punto, perché è offensivo e perché autorizza atteggiamenti da parte maschile che non vanno in nessun modo avvalorati, perché agisce in modo subdolo e deleterio sull’autostima femminile, di fatto indebolendo le donne e rendendole autrici inconsapevoli della propria esclusione alla partecipazione attiva. Tutto ciò non può essere giustificato in nessun modo, men che meno in nome del diritto all’intrattenimento, se significa nel concreto quotidiano che ciò che è passato è che l’uomo in posizione di autorità è più carino con la donna che la subisce, se lei fa due mossette da velina. Tenendo presente che con maggiore frequenza è la donna che subisce l’autorità maschile, piuttosto che il contrario (vedi anche i commenti di WM1 sull’argomento).
@Simone Regazzoni: risposta molto utile, grazie.
@Lara: è esattamente come dici tu, ed è questo il problema. Il criterio per valutare se e quanto una figura femminile è emancipatoria dovrebbe proprio essere questo: la sua capacità di incrinare la cornice maschile. Ovviamente tutto ciò ha senso se si condivide l’idea che la cornice maschile sia oppressiva e repressiva per le donne, fatto per nulla scontato, neanche nel minuscolo campione di persone rappresentato dai frequentatori di questo blog.
Altra questione da precisare: si può essere o porre in una rappresentazione delle donne forti, capaci e potenti, senza smuovere di un millimetro la cornice. Non è la loro semplice presenza ad essere emancipatoria, non nel XXI secolo. Come ha detto Wu Ming 1 (che ringrazio per aver tirato fuori l’argomento): “accendi un qualunque terminale della macchina sociale, è parte la modalità maschile; per tener conto delle donne, un maschio deve sempre andare sulla barra degli strumenti, cliccare “Opzioni” e cambiare l’impostazione.”. Emancipatoria è una figura femminile che ti viene addosso anche quando ti trovi in modalità maschile, facendoti dubitare di quale casella tu abbia spuntato.
@ Simone Regazzoni
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Ti dirò, penso che più che di buoni auspici o di ottimismo, si tratti di una sorta di “scelta di campo”, sulla quale penso che anche l’analisi “colta” della cultura di massa dovrebbe riflettere in modo radicale.
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Studiare certi fenomeni di “guerriglia semiotica” (giusto per richiamare un’idea sviluppata da Eco, che le pratiche attualmente in atto di fatto hanno integrato, sviluppato e superato), e spendersi per sostenerli e incentivarli è secondo me il vero compito, oggi, nell’ambito del lavoro sull’immaginario.
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Questo non esclude ovviamente l’analisi di quella parte ancora “maggioritaria”, e può anzi contribuire a rafforzare la componente critica di quell’analisi.
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In questo senso, decostruzionismo, analisi semiotica e pop-filosofia possono dare un contributo importante… a patto che davvero non si attardino nella discutibile “difesa ad oltranza” della cultura di massa dagli strali di veri o presunti “apocalittici”.
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Soprattutto “presunti”, direi; mi pare infatti che, nelle loro considerazioni sulle rappresentazioni di genere nella tv commerciale, le molte persone che in questa discussione hanno “attaccato” drive-in siano tutto salvo che apocalittic* bigott*.
Le ultime cose dette da WM1, Lara, Adrianaaaa e claudia b. sono interessantissime, grazie di aver focalizzato i commenti su cose concrete!
“Emancipatoria è una figura femminile che ti viene addosso anche quando ti trovi in modalità maschile, facendoti dubitare di quale casella tu abbia spuntato.” Adrianaaa
Che è quello che accade nel colpo di scena finale di Tortuga di Valerio Evangelisti, almeno l’ho interpretato così. Ti consiglio di leggerlo se non lo conosci.
Interessante poi quello che Isabel Allende fa in Ines dell’anima mia: raccontare un’impresa “ufficialmente” compiuta da uomini (la conquista spagnola dell’attuale Cile) dal punto di vista di Ines de Suarez, una donna (personaggio storico, tra l’altro) che vi prese parte. Mi viene in mente anche Il prezzo della sposa di Grete Weil, le vicende bibliche di re David viste con gli occhi della sua prima moglie, Micol, non so se rompano la cornice o meno, però mi piaceva segnalarli.
Thelma e Louise (spoilero un po’, scusate), sì, sono “schiacciate” dai maschi (pure da quelli “buoni”, in un certo senso) tanto è vero che la loro fuga si conclude in tragedia..ma non so se questo “schiacciamento” sia una cosa “non voluta” da parte della sceneggiatrice Callie Khouri.
Claudia, volevo dire che io trovo divertentissime le due dita piegate a simulare le virgolette che fanno gli americani, sarà perchè non faccio che guardare i loro telefilm…vabbè comunque sia, sarò banale, ma penso che l’esercizio su noi stessi e penso in special modo ai maschi, me compreso ovviamente, che dobbiamo fare è, mentre critichiamo stereotipi di certa tv generalista italiana che vanno criticati, rispettare la personalità anche di quelli che ci appaiono come “corpi spersonalizzati”, tenere presente sempre che una donna a prescindere da come si atteggia, si pone, dalle mossette che fa non fa ha una sua soggettività, dei sentimenti, dei desideri, una mente che non è a nostro servizio.
non so, spero di essermi spiegato bene.
@ claudia b.
“La televisione incanta i grandi” (mio figlio, anni 5).