Circa un anno fa ho preso coraggio e ho telefonato a Francesco Pazienza, faccendiere, uomo dei misteri, morto ieri nella sua casa di Lerici a 79 anni. Nell’ingenuità che ancora mi porto addosso volevo chiedergli cosa sapesse di Graziella e Italo.
C’era un motivo.
Nel 1983 Pazienza scrive a Bettino Craxi chiedendo formalmente “di poter essere liberato dal possibile vincolo di segreto di Stato per quanto da me svolto dal periodo marzo 1981-aprile 1982” in cui fu “portavoce del generale Santovito” presso Arafat. E’ un faccendiere, si diceva già allora di lui. Collaborava con il Sismi. Collaborava con uno dei tanti nomi oscuri di quegli anni, Licio Gelli, per sorvegliare Roberto Calvi, banchiere di Dio, presidente del Banco Ambrosiano, coinvolto nello scandalo della lista P2, pronto a rivendicare, prima della bancarotta, i favori fatti ai potenti. Pronto a dichiarare che 15 milioni di dollari provenienti dai servizi segreti americani erano stati utilizzati da Licio Gelli per finanziare chi ha messo la bomba alla stazione di Bologna. Un depistaggio, diranno le sentenze, che gli fruttò una condanna a dieci anni.
Francesco Pazienza era solo un nome: eppure era uno di coloro che entra nella storia di Graziella perché è uno di coloro che conoscono l’esistenza del lodo Moro, che della fine di Graziella è in un certo senso l’evento scatenante. Per anni Pazienza ha accettato interviste sul lungomare di Lerici, fumando sigarette e dichiarandosi orgoglioso della sua attività di volontario durante il terremoto dell’Aquila. E sì, certo, raccontava serenamente di aver trattato con il terrorismo palestinese, sì, certo, perché lui ha addirittura condotto la trattativa per il lodo Moro. “Quella fu la moneta di scambio per la tranquillità”, dice. Garanzie da parte dello Stato italiano in cambio di sicurezza. Niente massacri come ai Giochi Olimpici di Monaco. Niente rappresaglie. Niente stragi.
Ah, la telefonata. Quando gli chiesi di parlargli, sul suo whatsapp che ha come immagine profilo un cagnolino, mi rispose con il pollice alzato. Fu gentile, cortese, fluviale e volutamente insignificante. Ma il senso era: “Non so niente, avranno visto qualcosa che non dovevano vedere”. Ho sempre pensato che sapesse molto, ma non me lo disse e si informò sulla mia vita, di cui gli dissi molto poco. Era agosto, ero a Serravalle. Chiusi la telefonata con angoscia, con la quasi certezza che non avremmo mai saputo nulla. Eppure, bisogna continuare a credere che non sia così.
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Appaiono un bel po’ di interviste, da ultimo. Prima Giuliano Amato su Ustica. Il 13 ottobre a Piazza Pulita Corrado Formigli intervista l’ex capo del controspionaggio Marco Mancini. Due giorni fa Repubblica intervista Mario Mori, ex capo dei Ros, e ex Sid. Che dice tra l’altro: “Noi avevamo in Medio Oriente uno dei più grandi uomini di intelligence, il colonnello Stefano Giovannone, uno capace di avere buoni rapporti tanto con l’Olp quanto col Mossad”.
Personalmente ho avuto un brivido nel leggere quella definizione: “uno dei più grandi uomini d’intelligence” riferita a Stefano Giovannone. Quell’uomo, che si faceva chiamare Maestro, è stato in carcere, a Forte Boccea, per rivelazione di segreti di Stato, per ordine di Giancarlo Armati, che indagava sulla scomparsa (e l’assassinio) di Graziella De Palo e Italo Toni. Sulla figura di Giovannone si addensano ombre più fitte della terra di Mordor, e non sono state ancora dissolte. Così come sull’azione dei servizi segreti.
Resta il fatto che improvvisamente sembra essere in corso una riabilitazione generale. Gli anni, ma certo. La vecchiaia, sicuro.
Ma restano i morti. Specie quelli che non hanno avuto giustizia. Magari, ci andrei cauta.
Nel 2017 una fonte anonima, ex dirigente dei servizi segreti, dichiara a Massimo Numa su Italia Star: “sapevamo tutti i particolari della morte dei due giornalisti, chi li aveva rapiti, poi detenuti in una base palestinese, infine torturati e uccisi. I corpi furono sepolti sotto un cumulo di detriti, in un quartiere non distante da Tiro, vicino al mare, all’interno di un cantiere non lontano da uno svincolo autostradale”.
Quella frase viene rilanciata dalle famiglie De Palo e Toni in un appello letto ieri notte a Chi l’ha visto.
Servirà? Naturalmente è impossibile dirlo ed è impossibile non sperarlo. Per questo, come sempre, si va avanti.
Torno a scrivere di Graziella De Palo, in una forma diversa di cui dirò, dopo L’arrivo di Saturno. Lo faccio perché è la mia ossessione. Non solo per l’amica scomparsa e uccisa a 24 anni, ma per tutto quanto alla sua morte è collegato, e rimane oscuro. Non posso sciogliere nodi, ma narrarli. E’ poco, ma è quello che posso.
In 39 anni, si diventa adulti, in molti casi si ha un compagno, o una compagna, una moglie o un marito, in molti casi si hanno figli. Avevo 39 anni nel 1995, l’anno in cui i sacchetti di plastica forati…
Così, da ieri Graziella, e naturalmente Italo, hanno un pezzo del parco della Rimembranza dedicato a loro, grazie al comune di Sassoferrato. Da otto anni hanno anche due vialetti, via Graziella De Palo e via Italo Toni, a villa Gordiani…
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