Sono curiosi segni del destino, non credete? A pochi minuti dalla diretta di questa mattina di Pagina3, arriva la notizia della morte di Goffredo Fofi, personalità enorme e difficile e dagli innumerevoli meriti.
Il curioso segno del destino è che avevo deciso di leggere in apertura il lungo articolo di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni “Rimozione forzata” che trovate su Giap!, insieme alla postilla dei Wu Ming, e che racconta come la frattura che si creò allora fra “rimasti pandemici” e “disvedenti” non si è mai sanata, e che in virtù anzi di quella frattura abbiamo accettato tutto.
E’ soprattutto nei rapporti fra gli esseri umani che le cose sono cambiate: la spaccatura ha preso il posto del dialogo, l’irrigidimento ha sostituito il dubbio, l’incapacità di concepire un futuro ha sostituito la progettualità, o la visione, o l’incanto o chiamatelo come volete.
Ecco, sono andata a ricercarmi un vecchio articolo di Goffredo Fofi scritto nei mesi del primo lockdown, quando molti si erano già trasformati in vigilanti e spie. E lui, questo, l’aveva visto e scritto:
“La distanza è grande, tra il buon cittadino e il cittadino servile e rivendicativo, pronto a obbedire a qualsiasi potere pur di sentirsi qualcuno, e fustigatore di ogni esempio di autonomia, di chi predica il rispetto di una legge comune ma nell’esigenza di una legge giusta e migliore, di una giustizia reale. Dagli zelanti bisogna guardarsi, oggi e domani. E dai loro sostenitori politici! E almeno per me e spero non solo per me, vale la scritta che un amico mi dice di aver visto scritta a calce sull’argine di una ferrovia alle porte di Firenze: “Ora pazienti poi disobbedienti”.”
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Per carità, sarà una mia fissa, quella della letteratura e delle storie come momento di incontro e coesione, e mi rendo conto che in questi tempi rabbiosi sembra anche un rigurgito da vecchia bonacciona, perché le persone hanno assai più voglia di sbranarsi che di parlarsi.
Però succede, invece. Succede che a chi crede in quella strada capiti di incontrare altri e altre che la pensano allo stesso modo, e poi chissà, si scopre che molte delle cose che riteniamo inutili, o impossibili, sono invece utili e possibili.
Per questo invito a leggere integralmente l’articolo su Giap! che ho letto questa mattina, laddove i Wu Ming ci ricordano un paio di cose che ci riguardano e che abbiamo dimenticato. Cose da cui ripartire. Cose che invitano a guardare il presente con altri occhi, e a sentirci, come si diceva un tempo, coinvolti.
“Le prime bombe dal cielo furono italiane, caddero su Ain Zara e su Tripoli l’1 novembre 1911, durante l’aggressione imperialista alla Libia. Gabriele D’Annunzio, sempre pronto a esaltare ogni nefandezza e abominio, celebrò l’impresa in una delle sue Canzoni delle gesta d’oltremare. Versi agghiaccianti, uno su tutti: «anche la morte or ha le sue sementi».
In seguito, sempre sulla Libia (1930-31) e poi sulla popolazione etiope (1935-36), l’aviazione italiana sganciò bombe chimiche: iprite, fosgene, arsine… Ne avrebbe sganciate anche di batteriologiche, se il generale Badoglio non avesse convinto il duce a desistere, ché con le epidemie non si poteva mai sapere: potevano andarci di mezzo anche i “nostri” (cfr. Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 2007).
Durante quella guerra, l’Italia fu anche pioniera nel bombardare ospedali e accampamenti della Croce rossa. Suona familiare?”
C’è un articolo, “Scrittori a caccia di like”, di Gianluigi Simonetti su Snaporaz, dove si incrociano due libri: “Storia della fama”, di Alessandro Lolli, edito da effequ, e “Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sull’arte di scrivere” di Alessandro Piperno, per Mondadori. Da leggere, entrambi: il saggio di Lolli riprende e ampia quello che con Giovanni Arduino provammo a fare dieci anni fa in “Morti di fama”, mentre Piperno parla di ambizione letteraria, faccenda antica ma rinnovata e ampliata nei social.
C’è però un punto fra i molti su cui riflettere. Scrive Simonetti:
“da quando pensiamo allo scrittore come a qualcuno che sia come tutti? Un’ottica novecentesca della distinzione raccomanderebbe agli editori di impedire per contratto agli scrittori di sputtanarsi sui social; sappiamo invece che oggi accade il contrario – gli editori battono il web alla ricerca di scrittori disposti a sputtanarsi. In questo quadro commerciale ed estetico, ogni forma di sprezzatura è destinata a andare perduta, come lacrime nella pioggia”.
Mi viene da dire che non sempre si può parlare di sputtanamento, ma di confronto. Il problema, secondo me, sta nel fatto che non sempre viene inteso come confronto ma come esserci e basta.
Passo indietro fino al dicembre 2019. Il collettivo Wu Ming scrive due lunghissimi post in occasione del loro abbandono di Twitter, L’amore è fortissimo, il corpo no, che pone la questione dal punto di vista del business, ovviamente dei social medesimi. So di citare con frequenza questo intervento, ma lo faccio perché credo che sia di enorme lucidità (e stiamo parlando di sei anni fa) e soprattutto più che pertinente rispetto alla presenza sui social, non solo di chi scrive, ma anche di chi scrive (libri, ovviamente).
Dunque, gli scrittori e le scrittrici. Credo che nessuno possa dire ad altre e altri qual è il modo giusto di comportarsi sui social: e le vecchie chiamate alla responsabilità nell’uso delle parole si infrangono quando l’umore, i tempi, le circostanze mandano all’aria i buoni propositi. Un discorso diverso andrebbe fatto per gli editori: e qui ha ragione Simonetti. Fare scouting sui social non è sempre un’idea felice. E neanche spingere chi scrive a essere performante sui medesimi. Perché chi scrive dovrebbe preoccuparsi soprattutto di come scrive i suoi libri, e non di come promuoverli. Ma anche questa, sapete, è una storia vecchia, e ripeterla probabilmente serve a poco.
Ieri sera ho pubblicato un post sgomento per quanto Silvana De Mari ha scritto, su La Verità, contro Selvaggia Lucarelli: prendendo a pretesto il non gradimento della canzone di Cristicchi (autodenunciamoci: siamo parecchi a non aver gradito), l’ha attaccata sul suo aborto con parole intollerabili. L’ho fatto perché trovo terribile che si possano impunemente scrivere articoli, ripeto, articoli, di questo tenore, e suppongo che l’Ordine dei giornalisti stia facendo il solito pisolino in proposito, ma pazienza.
Quello che mi ha colpito, ma ancora una volta non sorpreso, è che alcune commentatrici hanno, se non difeso De Mari, spezzato una lancia in suo favore per il suo essersi spesa contro i vaccini.
E questo mi riporta a un discorso molto importante, che prova a infilarsi negli articoli commemorativi di questi giorni che rievocano quanto avvenuto cinque anni fa con la prima scintilla, o il primo incendio, del Covid in Italia.
Le divisioni non sono state prese in considerazione. Il trauma continua a essere ignorato. I discorsi non accolgono il dolore e la paura collettivi. Non si fa, ancora, un ragionamento serio e riparatore sul greenpass.
E invece dovremmo.
Ripubblico un articolo di dieci mesi fa. Lo ripubblico testardamente, perché dopo cinque anni bisognerebbe parlarne e parlarne e parlarne, proprio per non lasciare alle De Mari di turno l’ultima parola per quel che riguarda le persone che hanno sofferto, ebbene sì, in prima persona l’imposizione del greenpass. Che si possa almeno discuterne ora è necessario, anche se vedo che non avviene, e probabilmente non avverrà, lasciando campo libero a chi non ha altro interesse che raccattare seguaci (sì, ancora una volta è una questione di potere e, no, non esistono poteri buoni).
Non vediamo i conflitti. Vediamo soltanto noi e la nostra posizione all’interno di quei conflitti.
Questa è una di quelle mattine in cui mi interrogo sul perché abbiamo un governo di destra, e sul perché le destre ascendono un po’ ovunque. Questa è anche una di quelle mattine in cui torno a quindici anni fa, a quell’autunno 2009 in cui nasce il Movimento 5 Stelle: che nella prima fase almeno ha accolto il risentimento e lo smarrimento di chi non si sentiva riconosciuto, ma spesso trasformandolo in pura negazione. Curiosamente, The Dome esce proprio nel 2009. E’ fra i romanzi più controversi di Stephen King, per struttura e anche per il tono amarissimo, come se non ci fosse – o quasi- via d’uscita.
Quando i social hanno favorito la presa di parola , l’atteggiamento generale è stato quello di definire chi protestava come imbecilli, ignoranti, scomposti. Il che rafforzava la collera verso la “casta” è il disprezzo verso i “saputelli” o “colti”, che per il fatto di esser tali con la casta medesima sono giocoforza collusi. E questo è uno dei punti da meditare bene: perché il disprezzo verso i cosiddetti intellettuali non è faccenda nuova, ha attraversato quasi tre decenni in varie forme e canali, ed è diventato ancora più profondo. Colpa di chi? In parte, certo, anche di un modo di concepire il lavoro intellettuale come distaccato dal sociale e dal quotidiano. In parte, di un “frame” da cui non ci si libera perché non viene affrontato.
Perché ci penso oggi?
Perché continua a sembrarmi difficile battere questo governo se prima non riusciamo a vederci e a vedere. C’è un gigantesco lavoro di ricostruzione da fare, e dobbiamo pur cominciare a farlo. Partendo da noi, credo.
Sono accadute parecchie cose in questo week end e credo che molti di voi le sappiano già. Parlo della censura televisiva ad Antonio Scurati, nonché di quelle, emerse subito dopo, a Nadia Terranova e Jennifer Guerra. Non è la prima volta che avviene, d’accordo, ma è inquietante la modalità, è inquietante il contesto.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi.
Voglio parlare di un’altra cosa, che è molto importante quanto rimossa. In questi giorni, dopo il video collettivo in cui, in cinquantatre fra scrittori e scrittrici, abbiamo letto il monologo di Scurati, non sono stati pochi coloro che hanno detto: bravi, ma dove eravate ai tempi del greenpass? La controreazione, per lo più, è stata di scherno, e la terribile parola no-vax è tornata a circolare.
Ebbene. Su questo blog ho più volte espresso dubbi giganteschi su come è stata raccontata la necessità del greenpass. E ho più volte linkato quanto hanno scritto e ripetuto i Wu Ming, cui l’onestà e il nitore con cui hanno provato a intervenire sono costati parecchio.
Linko di nuovo perché, quattro anni dopo la pandemia, ritengo folle non aver riaperto il discorso, come se non fosse accaduto nulla. E non è per rispondere a chi chiede “dove eravate?”. Molte e molti di noi ci sono sempre stati, hanno sempre provato a problematizzare e a capire. Magari non ci avete letto, e ci sta. Ma non bisogna neanche usare la domanda per minimizzare la situazione di oggi o per screditare chi contro questa situazione si batte. Sarebbe non solo ingiusto, ma pericoloso.
Ma quanto si parla di Tolkien, eh? Dopo anni in cui la discussione sul professore è stata relegata ai margini, tutti scrivono de Il signore degli anelli e de Lo Hobbit, si fanno convegni (lunedì, a Milano) e mostre (mercoledì, a Roma) e anche dall’estero ci si interessa allo strano caso dell’autore preferito delle destre.
Ci tornerò in modo ampio, nei prossimi giorni, qui o altrove. Per ora, mi limito a segnalare due interventi: quello di Wu Ming ieri e quello di Edoardo Rialti (che ne aveva già scritto benissimo) sul Foglio di oggi, dove si ricorda anche l’uscita, più che simbolica, di Maria Elena Boschi contro i maghi e a favore di Draghi, con tanto di innocente bambino munito di cartello. Simbolica non perché Tolkien vada ascritto alla sinistra (ma per favore), ma perché dell’immaginario, del mito, del fantastico, molta sinistra non ha capito nulla, e spesso ancora non capisce.
Ho cominciato la settimana leggendo, divertendomi ma anche arrabbiandomi, l’articolo di Fabrizio Patriarca su Snaporaz: parla di imbecillità e soprattutto parla di influencer, e di quel che può avvenire quando un improvvido organizzatore decide che l’influencer faccia il moderatore nella presentazione di due libri. Al di là dell’episodio (che pure dà da pensare, visto che capita con frequenza maggiore che gli e le influencer presentino o moderino eventi culturali), quel che forse dovremmo ancora capire, e non è facile, è cosa si intenda e come si muovono le persone che hanno un considerevole seguito sui social.
Perché non sono tutte uguali, ovviamente. Ci sono state e ci sono persone che hanno quel seguito perché hanno fatto e scritto e detto cose importanti, e intendono usare i social per raggiungere il pubblico più ampio possibile. Non faccio i nomi ma credo che sia abbastanza intuitivo capire il concetto. Ci sono però stati e ci sono influencer che con i social lavorano, e dunque i loro video e le loro parole hanno un prezzo che viene pagato dal committente, e tanto. Anche qui, niente di male: sapevamo da anni che saremmo finiti dritti dal no-logo al me-logo, e che saremmo diventati i brand di noi stessi, da mettere al servizio di altri dietro compenso. Che si tratti di vendere libri o limette per le unghie o scarpe o quel che volete non cambia.
Però, cosa succede quando non si vende nulla e si milita nei social come attivisti? Quali rischi corriamo?
“Quelli della Bilancia” è una citazione da “Libra” di Don DeLillo. E’ lo spunto per ragionare un po’ sul romanzo storico, che sembra predominare nelle narrazioni contemporanee. Ma quale romanzo? E’ il “defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgercene più”, come fa Kazuo Ishiguro ne “Il gigante sepolto”? E’ recuperare il mito e la funzione sociale come fanno i Wu Ming? Spesso ho la sensazione che il romanzo storico venga utilizzato per proiettare all’indietro non qualcosa di cui non ci accorgiamo più, come dice Ishiguro, ma qualcosa che avviene ora. Il nostro io, i nostri problemi, le nostre emozioni. Che è cosa diversa (sempre Wu Ming) del “dar conto di sé” di Judith Butler, ed è cosa diversissima della ricostruzione letteraria della storia di, per dire, Don DeLillo, o della proiezione nella distopia che appartiene a Margaret Atwood. E’ come se il tipo di narrazione che Le Guin definiva “da appartamento borghese di Manhattan” si fosse trasferita fra cascine o baite di un secolo fa.
Giusto un anno fa, tornando a Roma, scrivevo un breve post preoccupato. Questo: “Qualcosa si ripresenta. Qualcosa da cui dovevamo stare in guardia e che abbiamo già dimenticato. La distinzione fra “noi felici pochi, noi colti, noi nel giusto”, e…