Ricevo una mail. Una gran bella mail, peraltro. L’autrice lavora nell’editoria: piccola, grande e media, perché – come sottolineato qualche giorno fa – essere piccoli non significa automaticamente essere corretti. La pubblico così come mi è arrivata. Aggiungo solo che, come è avvenuto altre volte, questo blog è a disposizione di chiunque voglia raccontare la propria storia, e che – ovviamente – l’anonimato è assicurato. Grazie a chi l’ha scritta.
Straordinari non pagati. Obbligo di timbrare allo scadere dell’orario di lavoro pattuito, anche se ti fermi a lavorare oltre, perché non hai terminato quello che stavi facendo. Inviti a lavorare sabato e domenica, non pagati ovviamente, perché l’azienda non ti obbliga a lavorare, sei tu che devi cogliere l’opportunità al volo di essere formata, di conoscere, di apprendere. E tutto per 600 euro al mese. Me ne avevano promessi 800, inizialmente. O almeno, così avevo capito. Quando sono andata a protestare, dicendo che la mia busta paga riportava un netto diverso da quanto pattuito, mi è stato risposto che avevo capito male, che si era sempre parlato di lordo, che era colpa mia che non sapevo che quando si concorda un contratto si parla sempre di lordo e mai di netto. In dieci anni di editoria, questa non l’avevo mai sentita.
Ho un regolare contratto, con malattie e ferie pagate. Poi è il mio datore di lavoro a deciderle, le ferie, decretando chiusura aziendale sotto Natale e ad agosto, perché “i magazzini sono chiusi”. Ho permessi retribuiti, sì. Non me li si concede, ma ce li ho. Quando ho avuto bisogno di prendere mezza mattinata, il mio datore di lavoro, con in mano il foglietto del permesso non ancora firmato, ha voluto sapere cosa dovessi fare, dove dovessi andare e perché dovessi andarci proprio in quella mezza mattinata libera. Ma a me, beh, a me va di lusso.
Condivido questa realtà lavorativa con persone che hanno accumulato talmente tante ferie e talmente tante ore di permesso non godute che, se fossero loro pagate, potrebbero sistemarsi a vita.
Ho 32 anni, da quando ne avevo 23 milito nella piccola, media e grande editoria. Ho avuto collaborazioni occasionali con ritenuta d’acconto, contratti a progetto e tanti contratti “veri”, seppur a tempo determinato, ma sempre rinnovati. Almeno finora. Una garanzia, sì. Sono “sistemata”, sì. Ho dei privilegi, rispetto a tanti colleghi della mia età, anche percependo 600 euro al mese. Ma non è tutto oro quello che luccica, perché la fregatura è dietro l’angolo. Perché sì, ti fanno il contratto regolare, ma trasformando il tuo netto in lordo. Perché “c’è crisi, alla fine prendi 600 euro al mese, ma contando la tredicesima e il tfr arrivi a mettere da parte un bel gruzzoletto”. Caspita, se ci arrivo. Metto da parte un così bel gruzzoletto che sono costretta a fare il doppio lavoro, come tante persone della mia età, perché altrimenti non c’è discount che tenga, e io non arriverei nemmeno a metà del mese. Anzi no, a metà del mese ci arriverei, perché a metà del mese mi pagano il mese precedente, e urrà.
In circa 10 anni di piccola, media e grande editoria ne ho viste parecchie. Ho visto editori “invitare” i dipendenti licenziati a recarsi regolarmente a lavoro con la finta promessa di una prossima riassunzione: “vi licenzio per il periodo estivo, così percepite l’assegno di disoccupazione e le ferie ve le paga lo Stato. A settembre vi riassumo”. Quando poi settembre diventa dicembre e tu son sei mesi che lavori gratis, quando vai a battere cassa e a reclamare ciò che è tuo diritto e ti si risponde “c’è crisi. Non posso riassumerti”, allora dici no grazie. E resti con un pugno di mosche in mano. E non importa se son 30 anni che lavori in quell’azienda. Non importa se ti mancano 7 anni alla pensione. Non importa. Non importa nemmeno se dopo 15 anni di contratti a progetto, perché tanto l’Inps non controlla, pur conoscendo bene la situazione, dicevo, non importa nemmeno se dopo 15 anni di contratti a progetto ti ritrovi non rinnovato, perché “c’è crisi” e il tuo datore di lavoro decide chi dentro e chi fuori, in base a come si sveglia la mattina, in base a simpatie e ad antipatie. E sì, in alcuni casi, anche in base al tuo cognome.
Io sono figlia di nessuno. I miei genitori sono onesti lavoratori che si son potuti permettere di mandare i figli a scuola e all’Università. Si son potuti permettere di mantenerli fuori sede, pagando 500 euro di affitto al mese per una stanza e la spesa al mercato. Da quando ero piccola volevo entrare a far parte del mondo dell’editoria. E dopo stage non retribuiti, colloqui improbabili, offerte di lavoro ridicole, ci sono riuscita. Non lavoro in una major, probabilmente non sono “sistemata” a vita, ma chi al giorno d’oggi lo è? Basta guardarsi intorno. Certo, ci sono i fortunati, i privilegiati: ma non è guardando nell’orto del vicino che i frutti della mia terra cresceranno forti e rigogliosi.
Sono dell’idea che solo stando tutti uniti riusciremo a farcela. Ma lo siamo, tutti uniti?
Vengo subito al dunque: la risposta (per me) è che no, non siamo affatto uniti, proprio per niente. Prometto di tornare a riparlarne (ora ho ritardi e urgenze dei miei lavori meno che precari che premono!), ma intanto volevo ringraziare chi ha scritto questa lettera (sarei potuta essere io, e numerose altre persone di mia conoscenza) e Loredana per lo spazio e la voce che ci offre sempre.
Mi hanno pagato due anni di articoli i con due cambiali scadute, poi mi hanno chiesto indietro le cambiali scadute per sostituirle con un’unica cambiale bancabile ma solo della metà a saldo.
Poi hanno chiuso e io non ho visto un euro.
Io vorrei sapere – seicento euro al mese, per quante ore di lavoro – straordinari esclusi.
“Guardare l’orto del vicino” non aiuta a far crescere i propri frutti “forti e rigogliosi”. E’ vero, da una parte è proprio così. Ma dall’altra, è evidente che con questo invito di sano buon senso pragmatico (lavora il tuo campo, invece di dedicare il tempo a osservare e invidiare/denigrare il campo degli altri) noi che lavoriamo nell’editoria siamo stati divisi e isolati gli uni dagli altri (e anche dagli altri lavoratori, temo). E lo sappiamo cosa succede quando c’è chi “divide”…
La grande difficoltà del lavoro editoriale, secondo me, è che non può essere valutato solo in base alle ore lavorate, ed è su questo computo che si fonda la gran parte dei Contratti Nazionali. Lo sappiamo: ci sono periodi in cui non bastano le ore della giornata, e altri in cui potremmo anche prenderci una giornata libera; ci sono lavori che “materialmente” ti impegnano 2 ore, ma hanno dietro ore e ore di riflessione e pensamenti (e allora, quanto dovremmo essere pagati?); ci sono lavori (di redazione/editing) che si possono fare solo se è molto chiara la “mission” dell’editore per cui lavoriamo (quindi è necessaria una certa “intimità”, “frequentazione”).
Pensiamo di riuscire, con una contrattazione individuale, ad ottenere di più del nostro vicino di scrivania, e invece perdiamo doppiamente: perché consideriamo lui il nostro “rivale” e perché perdiamo sempre e comunque.
Sono d’accordo che “solo stando tutti uniti riusciremo a farcela”. Vogliamo farlo?
l’Anonimo sopra sono io
Per “regolare contratto” si intende quello dei grafici editoriali?
Non posso ovviamente rispondere per chi ha scritto questa testimonianza sui dettagli tecnici del contratto, però penso di poter dire a zauberei che le ore di lavoro sono più di otto: semplicemente perchè nella maggior parte dei casi i tempi sono fluidi, e ti coinvolgono anche una volta uscito fisicamente dal luogo di lavoro.
Il problema riguarda il lavoro culturale e intellettuale in senso ampio, e dunque le condizioni nelle quali si è sviluppato questo lavoro negli ultimi anni (lavoro che, per certe sue particolarità, si è prestato prima di altri a certe aberrazioni contrattuali). Analizzare queste condizioni significa anche capire, ad esempio, come ci sia stato “venduto” il lavoro culturale. Mi viene da dire che ci sia stato venduto molto bene (come status, per ricollegarmi ad alcune riflessioni di Sergio Bologna sull’argomento), al punto che si è arrivati a svolgerlo persino gratis (come nel caso degli stage o dei tirocini). La contropartita, mi si dirà, è la soddisfazione di fare un lavoro che ci ripaga in altri modi (mentre dall’altra parte s’invoca il fantasma della crisi), e per il quale si fanno (o si sono fatti) volentieri più sacrifici. Insomma, a me pare che quella suddivisione tra piccoli giardini di cui si parlava qualche commento più sopra sia insita in una certa interpretazione del lavoro culturale (una responsabilità che grava su un intero sistema, di cui andrebbero ridefinite regole prima che sia il mercato – o già è così? – a farlo).
Questa lettera è bella. Non è neanche rabbiosa, non so proprio come faccia questa persona a non esplodere. E poi frasi come “Ho dei privilegi, rispetto a tanti colleghi della mia età, anche percependo 600 euro al mese”, che per me (comunque ex precario e uno dei primi co.co.co. d’Italia, quando questa figura nacque) suonano aliene: 600 euro… manco l’affitto di una stanza, in una città come Roma. E che te ne fai del resto, tipo permessi, ferie benché obbligate e quant’altro, se manco ti puoi permettere un pranzo decente tutti i giorni? Quindici anni fa, quando il precario ero io, i datori di lavoro avevano almeno la decenza di assumerti con contratto di formazione dopo un paio d’anni o anche prima, o di mandarti via se pensavano che tu non fossi bravo. Il mio datore di lavoro di allora, un piccolo editore che tutti giudicavamo un negriero, mi assunse dopo un anno. Un gentleman, con gli occhi di oggi. O forse non avevano ancora preso le misure agli sterminati spazi di sfruttamento dei giacimenti di talento intellettuale che quei contratti stavano aprendo. La soluzione, se una ce n’è, sta di certo nell’azione collettiva, ma quanto è lontana oggi questa prospettiva per persone strumentalmente fatte crescere in un’ottica di prevalenza della dimensione individuale?
Una piccola, amara, riflessione rispetto alla piccola editoria mi viene poi dal vissuto personale: anni dopo quella prima esperienza, io e un altro reduce ci mettemmo insieme per fondare una piccola casa editrice nostra (piccola è già troppo: micro rende meglio). Il mio socio, che come traduttore era stato uno dei colleghi più vessati e peggio pagati, ci ha messo un mese ad adottare in tutto e per tutto la logica del nostro vecchio capo: nessuna attenzione al prodotto, ricerca ossessiva di gonzi a cui proporre stage non retribuiti per l’editing e la traduzione dei testi, stampa appaltata in Slovenia con standard di qualità traballanti, marchette e, dulcis in fundo, editoria a pagamento con la scusa della condivisione dei costi, con richieste economiche che i costi li coprivano almeno cinque volte. Non so più nulla di quella casa editrice di cui pure mi tocca conservare le quote (e chi mai se la comprerà, una partecipazione in un’impresa tanto patetica?). La riflessione è su quanto sia marcio questo nostro popolo: io ho sempre dato di matto quando mi si dice “faresti così anche tu”, ma per la maggior parte dei nostri connazionali temo sia vero, purtroppo.
La malinconica chiusura di questa toccante testimonianza dice molto sul grado di disperazione di questo settore:”tutti uniti… per farcela” come se ci fosse qualcosa contro cui combattere e vincere, per approdare ad uno stabile mondo sereno. Il problema è che non c’è un avversario da abbattere, e nemmeno la quiete dopo la tempesta. Forse si tratta di “abbattere” gli editori o i retailer alla frutta come Fnac? Anticiparne la chiusura costringendoli a sostenere costi insostenibili? A chi gioverebbe?
Certamente ci sarà un dopo, perchè le epoche sempre si succedono, ma non sarà uguale a prima che tutto cominciasse a scricchiolare: non sarà un ritorno a casa, alla fine di una guerra. É bene non ingannare i giovani su questo, i giovani innamorati di letteratura, sono i più fragili, perchè l’innamoramento rende fragili e ciechi.
Ragazze: 600 euro al mese mettono la parola fine: per triste che sia vuol dire che il mercato riconosce 600 euro al mese a certe professionalità, inutile incaponirsi, 600 euro al mese è zappare terra che non darà frutto. Mi si spezza il cuore, ma andiamo altrove.
Il lavoro in Italia, in tutti gli ambiti purtroppo, sembra sempre più un favore che si fa al lavoratore, che un normale rapporto di prestazioni in cambio di una retribuzione. Come quella comica in tv che al posto di “datore di lavoro” usava l’espressione “il mio donatore di lavoro”. Da qui, a cascata, tutti gli inevitabili corollari (straordinari non pagati, stipendi miserabili ecc.). Fra gli episodi che meglio descrivono questa condizione di favore, per cui si è continuamente sotto ricatto, mi ha colpito la scena con cui Berlusconi interrogava una donna dell’azienda Green Power con carrettate di beceri doppi sensi. Quando lei ha smentito al Corriere si essersi sentita “onorata” per le battute dell’ex premier, come aveva riferito l’azienda parlando a nome suo, il proprietario ha dichiarato che se è così “ne trarremo le dovute conseguenze”. Una minaccia in stile mafioso che altrove sarebbe considerata inconcepibile.
Quale madre di donne laureate, condivido, mi affliggo, m’indigno…
Buonasera, non lavoro nell’editoria, ma svolgo anch’io una cosiddetta professione intellettuale, a quarant’anni mi sono stufata e ho deciso che ne ho abbastanza. Le storie sono tutte simili, io ho lavorato praticamente 6 anni con il rimborso spese. Ridicoli! A volte mi chiedo se ora la figlia della persona per cui ho sgobbato lavori pure lei gratis per il genitore. Però, a parte l’amarezza, il disgusto e lo sconforto è più forte la sensazione di aver contribuito con i miei silenzi, paure ed esitazioni a cristallizzare una situazione inaccettabile. Mi chiedo spesso perchè non ho detto forte e chiaro NO. Ed ora? Tutto come prima, tutto uguale se non peggio. Ho una figlia e ho deciso di andare all’estero, se lo merita.
se quello che raccontano si primi 56 giorni da premier di hollande corrispondesse alla verità forse la cosa giusta da fare sarebbe proprio guardare l’erba del vicino,o preparare il trolley.Nel frattempo sto ancora aspettando un po di autocritica di tutti coloro che caddero in deliquio per Zapatero,senza considerare che se da una parte si stavano compiendo grandi passi avanti nel campo dei diritti civili dall’altra ci si stava scavando una fossa da cui non capiscono ancora come fare per uscirne vivi
http://justme.i2p.to/music/Ramones%20Discography%20(2009)/1977%20-%20Rocket%20To%20Russia%20(Expanded%20&%20Remastered)/13-Surfin'%20Bird.mp3
Forse qualcuno prima o poi capirà che anche qui la sinistra baratta con i diritti civili (mica tutti eh, solo quelli politicamente più glamour) il tacito assenso alle più immonde politiche economiche e del lavoro.
Il grande problema di chi lavora nell’editoria, @Giorgia, è proprio che molte persone ci considerano “innamorati/e della letteratura” e non lavoratori e lavoratrici con diritti pari a chiunque altro lavori.
Fare rete tra noi non significa (solo) serrare le fila contro “il nemico”, ma anche creare tra noi legami di solidarietà e sostegno tali da trovare anche il coraggio di dire no alle richieste che continuamente ci vengono fatte (@Chiara).
Le ferie pagate, la mutua, i contributi per la pensione non sono privilegi, ma diritti.
Il licenziamento calcolato per risparmiare sui contributi è un atto che dovrebbe essere legalmente perseguito. C’è qualcosa di criminoso in questo atto. Si determina la negazione dello Stato di diritto.
Una parola per l’autrice della mail: tu conti, non permettere loro di declassare ognuno di noi.
Cari tutti,
grazie. Grazie perché credo che questo sia un inizio di unità.
Non credo, infatti, che la rabbia serva a qualcosa. La “rabbia ragionata”, come la chiamo io, sì. Non serve urlare, perché tanto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e allora, a quel punto, avremmo solo sprecato fiato e infiammato la nostra gola.
Per chi me lo aveva chiesto, percepisco 600 euro al mese per 20 ore settimanali (sulla carta). Ho un altro lavoro, per arrotondare, diciamo così. E ho un compagno con cui condivido le spese. O, forse, sarebbe meglio dire, ho un compagno che in parte, con tutti gli sforzi che questo comporta, mi mantiene.
Mi domando: cosa possiamo fare, in concreto? Da dove possiamo cominciare? Fermo restando che chi dovrebbe vigilare, SA e tace, come possiamo fare perché questo non accada?
ps. Un grazie di cuore a Loredana Lipperini. Da sua lettrice, la ringrazio davvero tanto.
@Autrice della mail: grazie di aver risposto. Ho fatto per 11 anni il tuo stesso lavoro, anch’io in regola (contratto grafici editoriali), in un grosso service che lavorava per alcune tra le più note case editrici. Conosco perciò piuttosto bene l’ambiente in cui ti muovi e so – per averlo provato sulla mia pellaccia – che “chi dovrebbe vigilare, SA e tace”. Tuttavia mi trovo d’accordo con quanto dice Davide: tu conti. Il tuo “privilegio” è il regolare contratto, a fronte di tanti altri colleghi che invece quel contratto non ce l’hanno e quindi non hanno neanche voce. I diritti che derivano dalla tua posizione vanno rispettati: dal datore di lavoro in primis, ma anche da te. Certo il prezzo da pagare è alto, altissimo: nella tua battaglia sarai sola e il sostegno di chi si dibatte nelle tue stesse acque melmose sarà una chimera. Verrai mobbizzata (a volte pure dai colleghi, sì) e minacciata e anche, alla prima occasione, probabilmente licenziata (con la connivenza di chi dovrebbe vigilare). Ma sai benissimo che l’accettazione di alcune condizioni (tra cui quella di timbrare il cartellino e rimanere “abusivamente” all’interno dei locali di lavoro) ti si può ritorcere contro da un momento all’altro: il padrone negherà di avertelo imposto e il dolo sarà tuo, sempre e comunque. Quello che voglio dire è che non sei al sicuro nemmeno ingoiando tutti rospi che ti vengono ordinati: e allora tanto vale pretendere il pieno rispetto dei diritti che ti arrivano dall’essere titolare di un regolare contratto. Puoi cominciare da questo: in concreto, è questa la prima cosa da fare.
Un saluto all’autrice della mail, che ho davvero apprezzato per la lucidità anche in condizioni di grave disagio. Lavoro nell’industria, quindi quello dell’editoria è un mondo che non conosco, ma visto da fuori forse posso dare un piccolo contributo.
La chiave sta tutta nel non consentire al mercato di decidere in esclusiva il valore dell’ora di lavoro in ambito culturale. Questo perchè la cultura è un bene preziosissimo ma che non può essere misurato in termini di ricchezza prodotta, come fa il mercato peraltro. Se non si riesce a rompere questa logica, trovando risorse da inserire nel circuito per spezzare questa spietata proporzionalità, da un lato ci sono i giovani ipersfruttati con forme di aggiramento delle regole da negrieri, dall’altro imprenditori come quello di Maurizio che accettano certe regole o semplicemente chiudono.
Non sono d’accordo con l’idea di valorizzare trooppo l’idea di fluidità dell’orario di lavoro, perchè questo è generale. Chiunque voglia lavorare seriamente e con responsabilità, passa una parte della sua giornata fuori a pensare a come migliorare o a come risolvere problemi, e non è giusto aspettarsi di essere retribuiti per questo.
Inoltre vorrei sottolineare che il pagamento alla metà del mese successivo è una cosa abbastanza universale che riguarda tutti i settori, e per quel che riguarda il mio caso è una necessità, perchè l’ UPE deve avere il tempo materiale di correggere le buste paga in caso di errori di marcatura, eccezioni, sostituzioni, cambi turno ecc.
Il primo collegamento che mi è venuto in mente è con un paio di cose lette di recente. Il reportage “Pazzi scatenati” scritto da Federico Di Vita sul mondo della piccola editoria (ma racconti simili li ho sentiti anche da chi lavora nella cosiddetta “grande” editoria) e questo articolo di Cristian Raimo che spiega l’avventura di Orwell, l’inserto culturale di Pubblico. E’ vero, come dice Danae, che molte persone considerano “innamorati/e della letteratura” chiunque lavori in ambito editoriale (ci aggiungerei anche il giornalismo) e non lavoratori e lavoratrici con diritti pari a chiunque altro. Però è anche vero che la logica del creare profitto tagliando sui diritti dei lavoratori è un modello che riguarda un po’ tutti i settori, figuriamoci laddove si produce qualcosa che ha a che fare con quella strana merce che è la cultura. Nell’editoria, però, io vedo dei cambiamenti in atto legati prima di tutto all’avvento del digitale. Siamo in una fase di passaggio, in cui il digitale ha gli strumenti migliori ma alla carta sono ancora vincolate le risorse maggiori. Ma è questione di tempo. Poco tempo. E sono convinto che quella sia l’unica direzione alla quale chi lavora in editoria possa guardare conservando speranze per il futuro.
Il link all’articolo di Raimo è questo:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/il-giornalismo-culturale-come-educazione-del-lettore/
nel commento era saltato…
sorry
@Nicoletta z.: già. Ci provo a far rispettare i miei diritti. Ci ho provato quando, in occasione di una trasferta, conteggiando le ore lavorate, ho chiesto che mi fossero riconosciute X ore di recupero o X euro di straordinari.
Mi è stato risposto: “non posso riconoscerti più di X ore di recupero”. Non puoi? In che senso non puoi? Io lì per lì ho sorriso, basita. A quel punto ha fatto in modo che, durante quella trasferta, lavorassi solo 8 ore. Certo, alla prima occasione mi è stato detto “non è questo l’atteggiamento. Riflettici”. Rifletterci? Sorrido.
Da quel giorno il mio comportamento è stato professionale e distaccato. E da quel giorno lui ogni X giorni mi chiama per sapere come sto, se va tutto bene, se il lavoro procede e, udite udite, se ho bisogno di fermarmi per più tempo per concludere ciò a cui sto lavorando. Fastidio.
Continuerò, senza dubbio, così. Quando arrivo timbro perché, come mi ha suggerito il rappresentante dei lavoratori, “se quando stai in ufficio senza aver timbrato ti cade un faldone in testa, passi i guai”.
Trovo comunque scandalosa l’omertà degli organi deputati a vigilare. Scandalosa davvero. E dirò di più: laddove ci sono tu comunque hai le mani legate e la bocca serrata, perché se parli, in una piccola-media azienda, il tuo capo ci mette un nano secondo a sapere che chi ha parlato sei stato tu e alla prima occasione tanti cari saluti. E io questo non posso permettermelo davvero.
@Autrice: sì, hai perfettamente ragione, l’omertà (e la connivenza e la complicità) degli organi deputati a vigilare è scandalosa. Sono le nostre armi spuntate e scariche.
Tu però tieni duro e non mollare.
P.S. Ti giro il consiglio che mi diede una collega più anziana, che ne aveva viste di ogni forma e colore: timbra sempre entrate e uscite “vere” e tutti i mesi fai una fotocopia del cartellino e conservala insieme alla busta paga. Non si sa mai, un giorno potrebbe servire…
Ciao
Sono una traduttrice, editor di testi giuridici, curatrice di collana e, vista la situazione precaria dell’editoria, praticante legale. Non ho voluto proseguire in questo ambito proprio perché conoscevo la situazione, ben delineata dalla Rete dei Redattori Precari.
Però vorrei dire una cosa. Lavorando in uno studio legale e studiando diritto del lavoro mi sono resa conto che in Italia il lavoratore, anche attraverso i sindacati, è molto tutelato, nonostante quello che dice l’autrice della lettera. In una situazione come quella descritta, è praticamente automatico che il contratto a tempo determinato si trasformi in un contratto a tempo indeterminato ad opera del giudice, e se tutti i lavoratori facessero causa a questi datori di lavoro delinquenti forse la situazione cambierebbe una buona volta. Lo sapete quanto è difficile poi licenziare un dipendente?
E non dite che l’avvocato costa, perché potete benissimo rivolgervi a quello del sindacato, che è lì apposta. Fate valere i vostri diritti!
Be’, io, a trent’anni e dopo un lungo periodo di collaborazioni e prestazioni occasionali in ambito editoriale e culturale, dopo l’ennesima proposta di stage non retribuito da parte di un’importante agenzia – stage a cui, mi è stato detto chiaramente in sede di colloquio, non sarebbe seguito alcun rapporto di lavoro futuro – ho deciso di cambiare strada. L’editoria era da sempre il mio obiettivo e il mio desiderio, ma ora ha preso l’inquietante fisionomia di una lotta contro i mulini a vento. La cosa che genera più amarezza, insieme alla consapevolezza di avere delle doti e non sapere a chi offrirle, è che devo ripensare tutto, azzerare immaginario, e, in qualche modo, identità; che, insieme a un progetto professionale, mi è stata tolta la capacità di desiderare spontaneamente e di provare fiducia nel futuro.