VENT'ANNI DOPO

Vi faccio un regalo, appena appena
malinconico. Once upon a time, avveniva di giocare, sulle pagine culturali dei
quotidiani: con grazia e con piacere reciproco di chi scriveva e chi leggeva.
Per esempio. Era maggio, ventiquattro anni fa, e Beniamino Placido aveva visto, in anteprima a Prato, la Fedra di Racine, per la regia di Luca Ronconi, traduzione di Giovanni Raboni. Placido si sofferma su un verso
della tragedia, quel "la fille de Minos et de Pasiphaè", che Flaubert
definì come il più bello della letteratura francese. A seguire, discussioni infinite.
E un gioco: qual è il più verso della poesia, inglese, tedesca, italiana? Il resto,
qui sotto:

  Peccato che non lo si faccia più. Perchè è
un "gioco istruttivo", che fa riflettere sulla natura e sulla
struttura della poesia. Per esempio, se al gioco partecipa un giocatore
proveniente da un paese di cui nessuno conosce la lingua, si capirà subito che
la poesia non è come la musica, non si nutre di suoni soltanto. E’ fatta di
suoni e di significati insieme. Se si tratta di un russo, difatti, citerà
qualche verso di Puskin. Lo farà con aria ispirata, convinto della musicalità
immediata dell’ Evgenij Oneghin. Ma
noi ascolteremo impassibili. Non per durezza di cuore, o di orecchio. Ma
perchè, non conoscendo il russo, e non potendo quindi afferrare il senso (sia
pure esile) di quei versi, non ne possiamo cogliere nemmeno la musicalità, la
poeticità che nasce da un rapporto teso (molto teso) fra suono e senso. No, la
poesia non è come la musica. La poesia è come un aquilone (vogliamo tentare
questo paragone?), che è tanto più bello e eccitante quanto più va in alto. Ma
non tanto in alto che non si veda più. Non tanto in alto da rompere il filo che
lo lega alla terra (al significato). Allora il verso più bello della letteratura
francese (sto per dire la mia, sto per dare inizio al gioco) non sarà quello
della figlia di Minosse e di Pasifae. Sarà un verso del cinquecentesco Pierre
de Ronsard che parla di una donna, della candela, della vecchiezza: "Quand
vous serez bien vieille / au soir, à la chandelle" ("Quando tu sarai
tanto vecchia / la sera, a lume di candela"). Non sono il solo a pensarlo.
Lo hanno pensato in tanti. E in tanti hanno provato a tradurlo, con risultati
modestissimi. Ci ha provato anche il grande poeta irlandese William Butler
Yeats, sbagliando più degli altri: "quando sarai vecchia e grigia e piena
di sonno" ("When you are old and gray and full of sleep"). Come
sarebbe a dire, piena di sonno? Quando sarai vecchia, tu sarai ancora
bellissima; malgrado quella candela, oppure chissà, forse proprio per via di
quella candela (ecco due significati possibili di questo meraviglioso verso). A
questo punto del gioco si sarà già capito (se si gioca sul serio) che un verso,
una poesia non dicono mai una cosa sola. Ne dicono tante insieme. Il loro
fascino deriva dalla capacità di tenere in sospensione due tre quattro
possibili significati. Come il nostro aquilone che non ha una rotta fissa, non
obbedisce a nessuna torre di controllo. Va in tutte le direzioni possibili,
secondo il vento. Questa capacità si chiama "ambiguità" (che non vuol
dire incertezza, vuol dire ricchezza) e mi sono già permesso di parlarne su
queste colonne poco tempo fa, quando è morto William Empson che dell’
"ambiguità" poetica è stato il primo teorico. Ho detto "si sarà
capito". Ma da parte di chi? Da parte di tutti. Meno i filosofi, certi
filologi classici o classicheggianti che passano la vita a cercare il senso
unico e definitivo di un verso (che non c’ è).

Il più bel verso della letteratura latina
si trova, ne sono sicuro, nell’ Eneide
(II,254) quando Virgilio descrive le falangi argive che, una volta fatto
entrare il cavallo surrettiziamente nelle mura di Troia, si muovono nottetempo
"tacitae per amica silentia lunae". Viene voglia di tradurre subito
(come fa ottimamente Luca Canalì, "per gli amici silenzi della tacita
luna"). Ma no, intervengono i filologi a guastare il gioco: come si fa a
dire che c’ è la luna quando Virgilio ha dichiarato ben undici volte (e le
elencano) in questo medesimo Libro II che in quella notte fatale la luna non c’
era? "Quel "tacitae lunae" non è un genitivo, ma un dativo. Ha
torto Luca Canali, ha ragione Enzo Cetrangolo quando traduce "dai silenzi
sereni, cari alla tacita luna"". Se potessi intervenire in questa
annosa e famosa controversia (egregiamente riassunta nella nota a pag. 299
dell’ Eneide pubblicata a cura della
Fondazione Lorenzo Valla, volume I, 1978), se potessi intervenire in questa
divertente controversia direi che Virgilio può ben permettersi di volere le due
cose assieme. In quanto poeta, ha licenza di farlo. Vuole che la luna non ci
sia, perchè le falangi argive possano andare – protette dal buio – al loro
destino: distruggere Troia. Ma vuole anche che ci sia. Perchè vuole che noi le
"vediamo", queste navi che scivolano silenziose, minacciose, nella
notte: uno stupendo, agghiacciante spettacolo.

E con questo non ritengo di aver mancato di
rispetto ai filologi. Come potrei? Non solo li stimo e li ammiro. Li invidio
anche: loro non hanno bisogno del vocabolario per leggere il greco (io sì).
Loro sono in grado di capire immediatamente perchè qualcuno sostiene che il
verso 688 dell’ Agamennone di Eschilo
è il più bello della letteratura greca. Recita, questo verso: "elènas,
èlandros, elèptolis". Si parla di Elena, naturalmente. Siamo ancora dalle
parti di Troia e della sua guerra. Di Elena: "distruttrice di navi, di
città, di uomini". Cosa c’ è di tanto bello in questo verso? C’ è una
straordinaria concentrazione di significato, che però ci è difficile cogliere.
Noi sentiamo in quel triplice "el" un richiamo al nome di Elena. Ma i
greci (e quei fortunati che sanno bene il greco) vi riconoscono subito anche il
rinvio ad una forma verbale ("elèin" da "airèo"), che vuol
dire appunto "distruggere". Il destino di Troia è inscritto nel nome
stesso di Elena. Quella donna è un destino. Di qui si capisce un’ altra cosa
ancora. Che la parola della poesia si carica di significati risucchiati da
tutte le altre parole che le stanno attorno nel testo; anzi, da tutte le parole
della lingua in cui quella poesia è scritta. E’ per questo che la poesia
resiste alla traduzione.

O meglio, come diceva il poeta americano
Robert Frost, "la poesia è quella cosa che si perde in traduzione".
Tra l’ altro, proprio lui, Frost, ha scritto forse il più bel verso della
letteratura americana del Novecento: "and miles to go before I
sleep". Che Giovanni Giudici traduce: "miglia da fare prima di
dormire". Non si potrebbe far meglio, ma un po’ di poesia si è perduta, inevitabilmente.
Giacchè siamo nell’ ambito della letteratura americana, con la quale ho qualche
familiarità, posso dire anche qual è la frase in prosa più bella in quella
lingua. Henry James sosteneva che è "summer afternoon"
("pomeriggio d’ estate"). Nel suo romanzo Ritratto di Signora, tutto quello che Gilbert Esmond sa promettere
a Isabel Archer è che la loro vita sarà "one long summer afternoon",
un lungo pomeriggio d’ estate. E lei si accontenta. Ma questo non vuol dire che
poi vissero felici e contenti (tutt’ altro). E non vuol dire che la stessa
frase abbia lo stesso effetto su una donna di lingua italiana. Diversi sono da
noi i pomeriggi, diverse le estati. Diverse, soprattutto, le parole che le
designano (anche la prosa, quand’ è amorosa, perde qualcosa in traduzione). Ogni
bel gioco dura poco. Temo che questo sia durato abbastanza. Me ne dispiace.

Si potrebbe continuare all’ infinito.
Potrei continuare elencando le mie preferenze fra i versi più belli delle
letterature italiana francese inglese tedesca. Sono preferenze che difendo fino
alla fine, quando gioco con altri. Diverso il caso quando mi tocca giocare da
solo, per mancanza di compagni. Allora rifaccio, nella mia mente, delle nuove
classifiche: che dureranno fino al prossimo viaggio in macchina, fino alla prossima
insonnia (sono le circostanze più favorevoli a questo tipo di gioco). Un gioco,
lo confermo. Ma non futile, non inutile: un gioco che vale la candela. Che
faccio (quando posso) da trent’ anni. Che farò, ne sono certo, anche fra trenta
("quand je serais bien vieux, au soir, à la chandelle").

15 pensieri su “VENT'ANNI DOPO

  1. tacitae per amica silentia lunae. va benissimo la traduzione di canali. tacitae è una sinestesia. la luna tacita è quella buia, quella assente. e la sua assenza renda la notta più silenziosa…

  2. Sì sì, grazie del regalo, però non cominciamo a fare i malinconici che ho letto l’ultimo libro di Nori e mi è venuto uno sturbo fresco fresco.
    Pensiamo a oggi. Oggi cosa c’è? ci sono sempre delle cose belle. Tipo, il libro di Nori, “La vergogna delle scarpe nuove”, è davvero bello, però attenzione che se uno ha vissuto qualcosa di simile, cioè una fine, e gli dispiace, sicuramente si commuove.
    Poi c’è Coconino che fa spavento come al solito, tra l’altro hanno pubblicato un volume di Marco Corona che ha cambiato completamente il disegno e c’è da inchinarsi per la meraviglia di quello che ha tirato fuori.
    Poi c’è “Arte e follia in Adolf Wölfli” di Walter Morgenthaler pubblicato da Alet, che mette in ginocchio pure questo quando vedi cosa disegnava il pittore internato, fino a svenire davanti a un collage con la zuppa Campbell trent’anni prima di Andy Warhol (ebbene sì, Andrea Warhola residente nel centro del mondo artistico internazionale non ha inventato un tubo, inventava invece un folle isolato nel manicomio di Waldau).
    Poi c’è un bellissimo volume con le opere di Spinoza nei Meridiani: uno non può non leggere Spinoza.
    Poi c’è Piperno in tv che tenta di lanciare una polemica sugli scrittori italiani vs quelli americani: il mondo diventa improvvisamente soffocante, ma basta spegnere la tv.

  3. Tradurre è sempre un po’ anche tradire. Inevitabilmente. Ci si arrabatta come può. Con la poesia, poi, si perdono tutte le valenze fonico-musicali, le allitterazioni, le consonanze, le rime eccetera.
    Credo che, in assoluto, la poesia più difficile da tradurre in tal senso sia ‘The Raven’ (‘Il corvo’) di Edgar Allan Poe. Meglio accontentarsi di un testo bifronte con una semplice, onesta traduzione letterale.
    Le cose si complicano maledettamente con il cinese…

  4. E anche la traduzione del libro su Wolfli, attenzione, è un evento. Un testo storico, se non altro per le conseguenze che ha prodotto. Fine OT.

  5. a volte non compravo Repubblica, magari compravo il Manifesto, l’Unità. poi però mi mancava qualcosa, la lettura di placido, appunto.
    la sua umanità, anche.
    ho, nella testa, suoi articoli che non dimenticherò e che mi hanno aiutato a scrivere, anche.
    e ho nella testa certe sue riflessioni, che invitavano all’umiltà.
    e certe sue polemiche, aspre, anche.
    come quando fece di conto al giovin critico del sole 24 ore che in tv aveva dichiarato d’aver letto tot migliaia di libri.
    placido, calcolatrice alla mano, fece di conto senza fare lo sconto allo sbruffone: risultava un libro al giorno, dall’età di due anni. divine commedie e guerre e paci comprese.
    comunque, grazie loredana.

  6. Dissento per quanto riguarda la poesia greca. Il verso più bello è il n.350 del libroI dell’Iliade. Thin’ep’alòs poliés, oroòn ep’apeirona ponton. (chiedo scusa per gli accenti). E’ il verso più barocco che si conosca: contiene almeno quattro metafore in tre sostantivi+due aggettivi. Neanche Gongora, neanche il cavalier Marino ci sono riusciti!

  7. no, biondillo, mi spiace. ricordo che il tipo aveva trent’anni (placido scrisse l’età) e che il numero dei libri letti l’aveva dichiarato in tv. doveva essere l’86, o l’87, quando lessi.

  8. il critico when was a young era Mamurio lancillotto, nom de plume di Cotroneo Roberto. Tanto acuminato e feroce quando era Mamurio quanto sciatto ed insipido quando è diventato Cotroneo.

  9. The expense of spirit in a waste of shame
    Is lust in action: and till action, lust
    dunque anche Placido, come poi Brolli, disseminava di indizi il testo acciocché il lettore… era insomma per la libertà di ricerca (≠ pappa fatta)

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