CORREVA L'ANNO 1985

Oh, la polemica letteraria. A volte, anzi spesso, ritorna, magari in occasione di una visita di un ex direttore editoriale a Francoforte che lamenta la nostra meschina condizione, con conseguenti reazioni. A volte, anzi spesso, si incendia di accenti che sembran nuovi e sono sempre gli stessi (è una mafia, una casta, una cricca, sanno che stanno per morire).  Sembrano somigliarsi tutte, le polemiche letterarie: però c’è uno spartiacque storico da prendere in considerazione, e me lo ricordava giorni fa Roberto Cotroneo. Quello spartiacque è “Il nome della rosa”: da quel momento, gli editori, che supponevano una vendita di circa trentamila copie e si son trovati davanti qualche zero in più, hanno cominciato a modificare la propria stessa natura. Cercando il libro che vende prima di cercare altro (si generalizza, e voi lo comprenderete). Da quel momento, chi vende non va perdonato. Accadeva già, ma non negli stessi termini.
Per darvi storica testimonianza, ripesco due articoli che risalgono a eoni lontani. Maggio 1985. Su Repubblica, prima Paolo Mauri, poi Beniamino Placido (avevo già postato tre anni fa quell’articolo, ma è bene riproporlo), intervengono sulla polemicona innescata da Pietro Citati e dal suo disgusto nei confronti del best-seller. Mantenete lo spirito dell’archivista, e godetene.

TUTTI VENDUTI di Paolo Mauri
Chi potrebbe dar torto a Pietro Citati? Scorrendo, una tantum, la classifica dei best-seller di  Tuttolibri, si è accorto (vedi il Corriere di lunedì) che vi alligna “una purea di viscidi sentimenti, falso sublime, pensieri confusi”. Di fronte a simile paccottiglia, Citati imbocca la via della (retorica) apocalisse, esortando gli italiani a non leggere più, a far fallire gli editori, i Club del libro etc. Molto più modestamente, proporrei invece di bandire ogni emozione dal ricorrente discorso sui best-seller: sia l’ emozione positiva dell’ editore che si rallegra perchè le vendite aumentano, sia qualla negativa (indignazione) del critico, dell’ uomo di cultura, che vede peggiorare sempre più la qualità. Tolta l’ emozione (che rischia sempre di sopraffarci) che cosa resta? Partiamo da una constatazione ovvia: il valore di un libro è una variabile indipendente dal suo valore di mercato. In altre parole, si può vendere molto (o poco) tanto un buon libro quanto un cattivo libro. Per cui capita di trovare nelle classifiche dei best-seller sia i cattivi libri cui allude Citati (ma non sono d’ accordo con lui per quel che riguarda Eco), sia ottimi libri come il romanzo di Milan Kundera. Il punto è capire perchè si fabbricano tanti cattivi libri, così cattivi e indigesti da far rimpiangere (come fa Citati) i cattivi e divorabili libri di una volta. Ho letto in questi giorni una gustosa plaquette, pubblicata fuori commercio dalla casa editrice Nuova Alfa, che si intitola Del successo in libreria. Si tratta di una lettera che l’ editore Bernard Grasset scrisse nel 1951 a Andrè Gillon, raccontando ciò che fece, nel primo dopoguerra, per dare una svolta al mercato del libro. Il problema, in sintesi, era questo: un libro, lasciato a se stesso, non aveva molte possibilità di trasformarsi in un affare nè per l’ editore, nè per lo scrittore. Grasset cita i casi di Stendhal e di Balzac. Ma l’ Ottocento, in genere, non era prodigo di danaro e le tirature erano molto limitate. Bisognava dunque adoperarsi per trasformare un valore letterario in un valore di mercato. Come? Creando l’ avvenimento. Quando Grasset si trovò tra le mani Le diable au corps di Radiguet non pronunciò affatto la frase che poi la tradizione gli attribuì e cioè: “Ha del genio”, ma disse: “Ha sedici anni”. Sull’ età dell’ autore (vera, falsa?), sulla possibilità di scrivere un romanzo a quell’ età etc. si creò il “caso”. Grasset (e non lui solo) aveva scoperto la necessità di rendere “spettacolare” il libro. Dietro ogni best-seller c’ è una storia di questo genere: Pasternak era lo scrittore oppresso dalla censura sovietica, Tomasi di Lampedusa il nobile in via di estinzione… Senonchè (e qui sta il punto che maggiormente ci interessa oggi) gli editori si sono da tempo accorti che non c’ è nessun bisogno di aspettare che un libro di valore letterario o culturale càpiti loro tra le mani per trasformarlo con arte sapiente in un valore di mercato. Basta (in qualche caso è preferibile) trovare il modo di trasformare qualunque libro di valore “x” (anche zero) in un valore di mercato. La necessità di vendere sempre di più e sempre più in fretta ha fatto il resto. Non credo sia un caso che le grandi case editrici (per le piccole e piccolissime il discorso è diverso) si servano sempre meno di intellettuali e sempre più di manager. Nella fabbrica dei best-seller l’ intellettuale è un inciampo. Perchè cerca il valore letterario, il valore culturale, laddove il manager cerca solo quello di mercato e ridimensiona le collane che non vendono abbastanza. Come mi è accaduto di scrivere altre volte, chi è in pericolo in questo fronte dove si combatte senza esclusione di colpi, è proprio il critico, la funzione critica. Lavorare per trasformare un valore letterario in un valore di mercato aveva infatti anche un valore culturale (di diffusione della cultura). Lavorare per trasformare un valore “x” in valore di mercato ha soltanto un valore industriale. Purchè si venda! sembra essere il motto. E difatti oggi gli editori fanno la fila per mandare i loro libri da Baudo perchè l’ evento favorisce le vendite, a prescindere dal valore del libro. E’ strano (mica tanto) che gli editori non abbiano mai protestato perchè in Italia la Tv non ha mai messo in piedi una trasmissione dedicata ai libri fatta con la professionalità con cui (per esempio) Piero Angela fa Quark. Baudo, nell’ ottica di un manager, va benissimo. E’ l’ agente trasformatore di un qualunque valore “x” in un valore di mercato. A che servirebbe a questo punto la “professionalità”, cioè la critica? Un mio amico libraio mi ha detto che ogni tanto certi libri comprati sull’ onda degli spettacoli televisivi gli vengono poi riportati con la preghiera, “me lo cambi!”. Non so se il fenomeno sia diffuso, ma è certo che, con la paccottiglia, i non-libri, i leggi-e-getta, sarebbe bene non esagerare. Nell’ interesse del mercato, della cultura di massa e perchè no? anche di quelli che si indignano, giustamente, come Pietro Citati”.
QUELLA VENERE SVIZZERA di Beniamino Placido
Vorrei raccontare un aneddoto. L’ aneddoto della “Venere svizzera”, che mi è tornato in mente di fronte ad un inciso di sei parole, contenuto nell’ articolo di Pietro Citati: “Bestseller: gli ultimi saranno i primi” (“Corriere della sera”, 13 maggio). Non riaprirò la questione generale – quali libri o libracci si vendono oggi, e perchè – dal momento che su questa questione è già intervenuto Paolo Mauri (“Tutti venduti”, “la Repubblica”, 15 maggio). Mi riferirò invece a sei parole soltanto del corsivo di Citati. Le seguenti: “assoluta assenza di ogni talento letterario”. E chi sarà mai questo scrittore che da centosettanta settimane figura nella classifica dei best-seller, malgrado – o forse proprio in virtù – della sua “assoluta assenza di ogni talento letterario”? Avete indovinato, si tratta di Umberto Eco. Sono personalmente convinto, anche se non posso dimostrarlo, che se “Il nome della rosa” si fosse venduto in mille – o duemila, o tremila – copie, i critici italiani avrebbero detto che si trattava di un brillante ma sfortunato esempio di saggistica-narrativa: meritevole di ben altra fortuna. Ma “Il nome della rosa” si è venduto ahimè in milioni di copie. E quindi non c’ è dubbio. Deve trattarsi di un libro fortunato (troppo fortunato, accidenti!) ma mediocre. Scritto fuori dei canoni della composizione letteraria. Pietro Citati non è il solo a pensare che “Il nome della rosa” sia stato scritto – ripetiamolo ancora – “in assoluta assenza di ogni talento letterario”. E’ il solo o quasi a scriverlo con trascurata eleganza. Gli altri letterati nostrani lo confidano alla moglie, lo borbottano agli amici, lo scribacchiano come possono. E per spiegare questo successo internazionale tirano fuori tutte le “ragioni” del mondo. Siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre. Che soffre per il successo di uno dei suoi membri. E ad una società che soffre una parola di conforto non la si può negare. Magari porgendola, come facevano i predicatori di una volta, nella forma dell’ aneddoto. Ma intanto cerchiamo di capire che cosa si intende dire quando si dice – o si pensa o si scrive – che “Il nome della rosa” è stato scritto in absentia di ogni letterario talento.  Per quel che ho capito io – ascoltando, discutendo, leggendo fra le righe – si intende dire che la scrittura di questo romanzo è povera, è piatta. Non è inventiva. E può anche essere vero. Però è anche vero che ci sono – ci sono sempre stati, e sempre ci saranno – romanzieri che lavorano sulla scrittura e romanzieri che lavorano sulle situazioni. Facciamo un esempio: quello di H.G. Wells, il grande scrittore inglese di fantascienza. Apriamo uno dei suoi romanzi più meritatamente famosi: “L’ uomo invisibile”. Voto in scrittura: cinque meno meno. Ma quest’ uomo proprio non sa scrivere! E’ sciatto nell’ aggettivazione, è monotono nella scelta dei termini, confonde addirittura “creditable” e “credible” (ciò che i critici inglesi non gli hanno ancora perdonato, a distanza di vent’ anni). Ma proviamo a dare un voto adesso alla sua capacità di creare situazioni significative e interessanti. Gli dovremo dare dieci. Se basta. Perchè oltre ad aver inventato la storia – avvincente – dell’ Uomo invisibile, Wells ha anche profetato – nel 1897 – che il prossimo secolo, cioè il nostro, sarebbe stato “un secolo di uomini invisibili, che spargeranno il terrore”. Chi cerca una definizione letteraria del terrorismo sempre e soltanto nei “Demoni” di Dostoevskij si dia pace. Una definizione del terrorismo novecentesco – nelle sue motivazioni profonde (mi rendo invisibile per essere potente), nelle sue manifestazioni esplosive – è qui, in questo libriccino popolare, scritto – direbbe Citati – in assoluta assenza di ogni talento letterario. Facciamo allora l’ ipotesi che il successo mondiale de “Il nome della rosa” sia dovuto al fatto che Eco ha saputo inventare delle situazioni significative, anche se le ha proposte in un linguaggio semplice.
Mi rendo conto a questo punto che la società letteraria sta ancora soffrendo. Anche per colpa mia. Non ho ancora raccontato il mio aneddoto. Eccolo. Nel 1954 la nostra Nazionale di calcio si recò in Svizzera per prender parte ai Campionati del mondo. Partì accompagnata da fervide speranze. Ma furono subito botte. E proprio ad opera della disprezzata Nazionale elvetica (che ci battè 2-1 a Losanna e poi di nuovo 4-1 a Basilea, il 23 giugno). I calciatori, i tecnici, i giornalisti italiani non sapevano darsi pace. Tirarono fuori tutte le scuse, tutte le spiegazioni, tutte le giustificazioni possibili. Finché non apparve sul “Mondo” di Pannunzio un articolo (a firma, mi pare, di Mino Guerrini: “La venere svizzera”) che passava scrupolosamente in rassegna tutti gli “alibi” della nazionale italiana. Fino a quello più ridicolo. Un giornalista sportivo aveva scritto che i nostri valorosi giocatori avevano perso perchè profondamente turbati dalla quotidiana visione di una formosa fanciulla elvetica che prendeva il sole, in costume, nella piscina del loro albergo. Commentava “Il Mondo” – un giornale che ha tanto contribuito alla nostra educazione sentimentale e culturale: tutte le scuse abbiamo cercato. Tutte. Nessuno ha pensato che forse abbiamo perso – e sonoramente – non perchè le svizzere sono avvenenti ma perchè gli svizzeri sono calcisticamente più forti. Forse anche qualche letterato italiano di oggi farebbe bene a sfogliare di tanto in tanto la collezione del “Mondo”, per imparare che quando gli altri vincono, quando scrivono un libro tradotto e letto in tutto il mondo ci possono essere tante ragioni, tutte ignobili. Ma può anche accadere semplicemente perchè sono più bravi. Perchè sono – calcisticamente parlando – più forti.

4 pensieri su “CORREVA L'ANNO 1985

  1. Grazie Loredà. Costruire una memoria è un altro dei tanti lavori gratuiti che pochi fanno: si trattano cose non nuove e che insegnano molto – robe poco vendibili in brossura fresata. Poi dici perché i blog.
    Dàje.

  2. belli e interessanti entrambi gli articoli. su una cosa non son convinto, e cioè che sia assolutamente necessario creare il caso mediatico per ottenere un best seller. la solitudine dei numeri primi, a mia memoria, non fu supportata da alcuno scandalo o provocazione, e lo stesso autore non cavalcò più di tanto l’onda. nacque tutto da un passaparola, e solo dopo si calcò sulla figura del giovane esordiente che veniva da ambiti molto diversi (scientifici). insomma, non trascurerei di contemplare anche il caso in cui i lettori scelgono (bene o male non è in questione) senza essere per forza condizionati come marionette.

  3. Anche il caso Moccia è nato col passaparola, sembra. Anche il Signore degli anelli…. e anche il Nome della Rosa… o quasi. Gli fecero un po’ di lancio pubblicitario, ma era chiaro che non si aspettavano affatto il botto. Per esempio anch’io, che devo essere stata all’incirca la decima persona che lo comprava, perché mi precipitai sulla preda ancor fresca di stampa, gli feci una discreta pubblicità e lo passai a parecchi amici.

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