Imprescindibile intervento di Valerio Evangelisti sulla narrativa di genere, oggi, su Carmilla. E’ l‘introduzione a Distruggere Alphaville, appena uscito per l’Ancora del Mediterraneo. Consiglio vivamente la lettura integrale e posto i passi conclusivi qui sotto.
«Ho paura della morte. Ma per un modesto agente segreto come me è un elemento normale, come il whisky. E io ho bevuto whisky per tutta la vita.»
Insomma, il destino di Alphaville, se vuole perpetuarsi, è esplodere. Autodistruggersi, in vista non della morte, bensì di un’altra vita. La saggistica selvaggiamente assemblata che propongo persegue questo fine, articolato in tre fasi: 1) comprendere la ricchezza del genere; 2) violarla in molte forme; 3) passare ad altro, pur senza rinnegare l’ambito d’origine.
Se il grosso problema, per lo scrittore senza etichette, è la ripetitività, per quello di genere sono le gabbie. Il successo persino eccessivo arriso al noir, il potere contaminante della fantascienza (che può anche agonizzare, ma dopo avere riversato sulla società immagini, idee e un intero vocabolario utile a descrivere i più recenti sviluppi della società stessa), l’estendersi dell’horror nelle più inattese diramazioni mediatiche, ecc.: tutto ciò resta vitale finché resiste alla minaccia incombente della cristallizzazione in formule prive di anima e di tasso inventivo.
Personalmente, comincio a non poterne più dell’investigatore privato cinico e disilluso, del poliziotto coraggioso che si scontra con l’abulia dei superiori, dell’agente tormentato da problemi intestinali, del serial killer tanto idiota quanto capace di raffinate nequizie, dell’astronave carica di rutilanti gerarchie in viaggio verso ultime frontiere, di giudici zelanti che riaprono casi dimenticati, di avvocati anticonformisti in crisi esistenziale ecc. Ognuno di questi topoi ha alle spalle alberi genealogici illustri. Ogni loro riproposizione negli stessi termini accorcia, magari inconsapevolmente, la distanza che separa L’esorcista da L’esorciccio, il laboratorio dell’alchimista dalla cucina di casa. Gli esiti sono garantiti (come Eco ha dimostrato analizzando la ripetitività in Rex Stout), ma logorano progressivamente il genere, riconducono l’opera “al nero”.
Quella che poteva essere una sfida, diventa acquiescenza e consolazione. Inutile criticare, da una posizione tanto fragile, le banalità del romanzo borghese. Inutile stigmatizzare il vuoto a partire da un vuoto ancora peggiore. Sarà magari vero che la narrativa noir (e qui comprendo sotto l’etichetta l’intera letteratura di genere, “nera” in varie forme) ha le potenzialità per descrivere meglio di ogni altra la società odierna. Però non basta prendere atto di questo, e adagiarsi sulla rassicurante constatazione di essere nel giusto. La cognizione deve farsi coscienza e, sul piano dell’atto, tradursi in militanza.
Basta con i percorsi obbligati e i luoghi comuni. Basta con l’astronauta coraggioso, il commissario umano, il giudice senza macchia, l’assassinio seriale dalle efferatezze allucinanti e dalla psicologia confusa, il mostro vampiresco che percorre la storia identico a se stesso. Tutto ciò conduce a quella che alcuni hanno chiamato, parzialmente a ragione, la “voga thrilleristica”. No. Il genere è sostanza esplosiva a cui manca l’innesco. Autori come Ballard, Ellroy, Vonnegut, Manchette, Raymond e quasi tutti gli altri che ho citato più sopra lo hanno trovato e attivato. Usciti dagli schemi e dai percorsi obbligati, si sono visti immersi nella letteratura senza classificazioni, non più emarginabili, non più viventi da emarginati. Se poi qualche accademico continua a sollevare il sopracciglio, diventa problema suo, non loro. Il parruccone si troverà a sua volta in un ghetto, fino a riuscire a berciare solo sulle pagine screditate e avvilenti de Il Domenicale.
(…)
Aveva ragione Manchette ad asserire che il noir era la migliore chiave interpretativa di una società a sua volta anneritasi, in cui crimine e potere si erano fusi. Però di questo assunto non fece mai un assioma e, appena si accorse che sciami di imitatori rischiavano di ridurre a formula sterile le sue intuizioni, li scomunicò uno dopo l’altro – salvo poche eccezioni – con quelle parole capaci di scorticare di cui lui solo possedeva il segreto.
Il noir – dopo avere assassinato il “poliziesco” puro – resta grande in quanto si ricollega direttamente alla tragedia. Ma, in questa accezione, non richiede né investigatori né delitti. Romanzi neri, anzi, nerissimi, sono quasi tutti quelli di Zola, compresi alcuni che non appaiono tali (tipo La conquête de Plassans, che descrive l’instaurarsi di un delirio erotico-religioso in una cittadina di provincia; oppure Au Bonheur des dames, con la vicenda del vecchio ombrellaio rovinato dall’ascesa dei grandi magazzini).
Il noir può continuare a proporsi quale oggetto letterario dotato di centralità se capirà che la lotta contro il “giallo” è stravinta, ed è inutile continuarla sullo stesso terreno formale. Le migliori opere di Paco Ignacio II e di James Ellroy sono una biografia di Ernesto Che Guevara e un’anti-storia degli Stati Uniti.
Quanto alla fantascienza, la sua grande stagione ’50-‘70 non ha avuto seguito. Il cyberpunk ne è stato l’ultima propaggine. Però non si può dire che la narrativa fantascientifica, il genere tra tutti più vitale e fecondo, più letterariamente propositivo, sia morto di consunzione. Al contrario: ha deciso con lucidità di compenetrare tutto ciò che lo attorniava, dalla letteratura “alta” a ogni sfera della comunicazione. La fantascienza scritta si è volutamente suicidata (le vendite di Urania sono passate da 40.000 copie a un decimo appena) per contaminare della propria sostanza l’ambiente circostante, e trasmutarlo. Ha raggiunto l’opera al rosso. Si è fatta quintessenza o, per usare un termine più comune, pietra filosofale. Il genere più nobile ha avuto il più nobile dei destini.
Un esempio da seguire. Alphaville va smantellata, in vista però di una fusione, non di un’evaporazione.
Nero e non consolante, nè rassicurante. Sfumatura intrinseca alla narrazione e non dominante di genere. La definizione più azzeccata è quella che pone lo stretto confine tra un laboratorio di ricerca e la cucina di casa: non è detto che l’uno abbia prodotti migliori dell’altra, il problema è confondere la destinazione d’uso e il target di riferimento. Se è vero che noir vorrebbe essere nella laicità scettica del nostro mondo occidentale la risposta a vecchie mai sopite ansie religiose o filosofiche, allora è altrettanto vero che noir è al più umor nero della vecchia medicina, destinato a non confinare mai col biliatico giallo. E ad essere sbagliati non sono gli ingredienti, nè i personaggi fissi: l’errore è proprio in una richiesta di mercato che tutto mescola e confonde per arrivare a ridurre un prodotto – che non è di genere ma di sentimento del tempo – a tascabile di facile consumo e altrettanto facile guadagno e perciò stesso ben delimitato e costretto. Costretto anche da evidenti logiche di mercato a moltiplicarsi all’infinito fino a perdere l’essenza del sè. Il fatto è che poi chi compra se non trova gli elementi cinematografici del genere “americano” ( il francese già è lusso) non apprezza e smette di comprare. E viceversa c’è chi compra e cerca, invece del sangue , mistero, morte e soluzione, il gliomero della vita senza soluzione nè rassicurazione. Dando per scontato, girovagando per le lipperature, che debba avere il fascino della scrittura quando è grande.
Lo riconosco: il noir è di moda e gli editori ci marciano. Detto questo però io credo che il genere sia ben lontano dal tramontare, per una ragione molto semplice: rappresenta l’implacabile specchio della nostra società. Una sorta di telescopio puntato sul mondo che lo descrive in un preciso momento storico, evidenziandone pregi e difetti; che racconta come si comportano e come vivono le persone, che abitudini hanno, quali sono i loro desideri, le loro paure. In ultima analisi, la loro vita reale. Il lato più oscuro, certo, ma pur sempre importante. Credo sia proprio per questa ragione che la gente ne è così attratta. Non per voyeurismo o morbosità, ma per curiosità e, forse, anche per una sorta di egocentrismo: tutti vogliamo sentirci raccontare di noi stessi, essere in qualche modo protagonisti.
Il noir contemporaneo,a dispetto dei detrattori che continuano non si capisce perché a considerarlo letteratura di serie B, riveste una precisa valenza critica: descrivere, e quindi esorcizzare, le nostre paure. Oggi più di ieri, infatti, lo scrittore deve essere testimone attento ed implacabile dello stato di degradazione della società perché è proprio da qui che trae la sua ispirazione. La linfa vitale delle storie nere che leggiamo è data proprio da quei principi che sembrano non funzionare più, che si corrompono. L’autore di noir dove coglie una falla, s’inserisce e prolifera: racconta e mostra gli aspetti più crudi del mondo che ci circonda, trasformandosi, spesso, in megafono di denuncia sociale. In questo senso, American Tabloid di Ellroy è un capolavoro.
“logico che ciò che si comunica (…) abbia la meglio sull’invenzione linguistica intraducibile.”
una stronzata doveva pur dirla, in fondo è un essere umano anche lui.
interessante però. adesso che non l’ha detto benedettimoresco ma evangelisti, hai visto mai che la si capisca una buona volta.
duro noir sed noir: brocardico;-)
e chi è senza peccato scagli la prima pietra sulla fronte degli autori
Dei discorsi sul genere non se ne puo’ piu’. Basta sul serio per pieta’ evangelisti e’ un disco rotto.
Mi sembra, e parlo per sassicaia, che i discorsi siano diversi: “compulsare gli archivi” è cosa che giova sempre 🙂
V.: è il primo discorso in questa chiave e in questi termini affrontato da Evangelisti. Mi dispiace per la tua noia: credo che una passeggiata all’aria aperta gioverebbe.
Veramente basta leggere Carmilla ad esempio gli archivi per accorgersi del contrario. Riguardo alla passeggiata sorvolo perche’ di risposte a cazzate simili e’ gia’ piena la rete. Ossequi.
Ecco il lato nero e poco noir del nostro tempo. Si vuole apparire, dire e concludere. Il dibattito o la leggerezza vengono respinte al mittente con la solita parolaccia maschilista. E ditemi che non è vero. Triste.
E’ vero, ma grazie al cielo è trascurabile, Roswita.
@V.
inserendo la parola “Evangelisti” nel motore di ricerca di Carmilla si ottiene, all’interno della lunga serie di interventi di Valerio Evangelisti, una recensione in cui si parla dello stato del genere (18.03.06), e due interventi (06.11.04 e 10.08.04) sul noir come genere. Cioè 3 (=TRE) interventi in 24 mesi. Nel corso dei quali 24 mesi, a leggere i testi, si noterebbe un’evoluzione nel discorso di Evangelisti, corrispondente a un dibattito che c’è stato nel mezzo (la polemica sul “genere” è successiva agli interventi del 2004). A leggere, cioè a saper leggere (I step) e intendere (II step). Ma che telo dico a fare, V.?
Bravo, Sassicaia!
Ben 13 parolette di fila, estrapolate e decontestualizzate, ed ecco che Evangelisti dà ragione a “benedettimoresco” (e Scarpa no? un po’ sospetta, questa omissione, nevvero?). Ma dà ragione anche a:
Guy Debord (“società” ed “immagini”)
Primo levi (“si troverà … in un ghetto”)
Flaubertbovary (“si è volutamente suicidata”)
Harry Potter (“pietra filosofale”)
Carlos Santana (“fusione”).
Ecumenico!!
Ha dato ragione anche a
Hegel (“articolato in tre fasi”)
Sant’Agostino (“confessioni”)
Moana Pozzi (“senza ritrosie”)
Benjamin Franklin (“trarre beneficio dalle sue invenzioni”)
Barbapapà (“in mille forme”)
Iannozzi (“capaci di aggredire”)
Scarpa (“capace di raffinate nequizie”)
“Personalmente, comincio a non poterne più dell’investigatore privato cinico e disilluso, del poliziotto coraggioso che si scontra con l’abulia dei superiori, dell’agente tormentato da problemi intestinali, del serial killer tanto idiota quanto capace di raffinate nequizie, dell’astronave carica di rutilanti gerarchie in viaggio verso ultime frontiere, di giudici zelanti che riaprono casi dimenticati, di avvocati anticonformisti in crisi esistenziale ecc.” …
mannaggia! se ne è dimenticato uno: l’inquisitore medievale in lotta contro il Male.. 😉
Be’, ragazzi, al di là del fatto che trovo condivisibilissimo quello che scrive Valerio Evangelisti (avercene di testi critici così!), vi voglio dire che Girolamo, Geronimo e Marco V. mi hanno fatto spisciare dalle risate!
(e un bel echisenefrega, non ce lo mettiamo?)
😉
Ma infatti Evangelisti non scrive un romanzo di Eymerich da svariati anni.
L’età che costoro vorrebbero restaurare è quella del bel tempo andato. Quale sia questo tempo non è dato sapere. Forse l’evo degli antropofagi pulp? O l’epoca degli altri libertini? O il periodo neo-sperimentale degli invisibili? O i fasti del realismo? O – ancora meglio – gli anni in cui editori-strozzini imponevano contratti-capestro a Dostoevskij? Non lo sappiamo, ma sappiamo che il mito dei bei tempi andati è aria fritta. Nel tempo e nella storia, la grandezza e la miseria degli uni, degli altri e degli stessi, si con-fondono.
Non sarò breve, sorry
L’articolo di Evangelisti riporta il link a quello di De Lorenzis e l’intervento di De Lorenzis riporta (tra le altre cose) le frasi di cui sopra.
Queste considerazioni, che ho riletto volentieri, mi hanno rimandato ad altre che ho recentemente letto su un articolo di nonsopiùchi. Il testo parlava delle forme che ha assunto a partire dai ’60/70 nelle merci e anche nel nostro immaginario una certa corrente che identifica il passato dei nonni, degli orti, dei tempi lenti, delle feste campestri (così è, bucolicamente, rappresentato) come un tempo ideale a cui aspirare e che abbiamo perso. In leggera differita rispetto al processo di trasformazione dell’Italia contadina in Italia consumista nasce cioè questa specie di nostalgia per le madie, i merletti della nonna e tutti gli oggetti ‘rustici’ che vanno a completare il kitch di ristoranti, alberghetti, trattorie e salotti domestici. Ne consegue che hanno successo tutta una serie di ristoranti con nomi dalla Greppia alla Macina e iniziative che recuperano sapori e tradizioni presunti di ‘una volta’. Non si tratta delle teorie di decrescita di Latouche, ma di prosaica pubblicità applicata a un valore presente a livello emotivo in molti dei nostri contesti sociali. Una curiosità: le ragioni di questa specie di ‘voglio la mamma’ generalizzato sembra che lasciasse interdetti i contadini (quando ancora questi contadini esistevano), quelli che l’una volta’ non è detto se lo fossero vissuto proprio romanticamente.
Pare che il fenomeno ‘nostalgia de ‘na vorta’ sia spiegabile se si considera lo sradicamento subito da chi apparteneva all’Italia prerateizzata e pre boom-izzata e dall’ iper-sradicamento (ipermercato) delle generazioni successive. In poche parole a mano a mano che le persone perdono la capacità di padroneggiare il loro intorno (mestieri e capacità e competenze che scompaiono alla luce della produzione industriale e di massa), rapporti umani che si dissolvono (dove prima erano stati collante) nasce una forte insicurezza che, anche se costretta nell’inconscio da un’ammontare di ‘beni’ di consumo mai visti e sperimentati prima, si aggrappa all’idea bucolica dell’ultimo passato meno ‘sradicato’ che ha conosciuto.
Pur se banalizzata questa spiegazione della nostra rincorsa a uno slow food e a una slow wave of life non mi sembra banale. Mi capita di condividerla e di condividere il grande smarrimento rispetto a un presente in cui non saprei e potrei essere autonoma senza le stampelle tecnologiche (di cui ignoro le leggi che le sottendono e mai potrei sperare di costruire con le mie mani) e in cui i rapporti umani sono quello che sono (e non sono neppure una delle persone più sfigate). Per non parlare poi della politica. Mi sento insomma un perfetto esempio di persona che non padroneggia il suo intorno.
Immagino che dopo questa pappardella siate voi a non capire l’intorno e lì intorno.
Il fatto è che una qualche stratificazione del mio inconscio ha messo in relazione lo sperdimento generale con lo ‘sperdimento’ dei critici (restauratori soprattutto). Mi sembra insomma che questo malessere per i tempi che corrono (da qualche decennio o centinaio d’anni) sia anche una perdita di controllo e di analisi verso ‘l’intorno’.
Solo così riesco a capire e a ‘umanizzare’ campagne come quelle ‘controrestaurative’ a prescindere. Sì noi abbiamo nostalgia dei tempi dei ‘Grandi scrittori che furono’, ma non osiamo chiederci se per caso ad andarlo a dire ai diretti interessati (l’equivalente dei contadini de ‘na vorta) rischiamo di attirarci le ire delle loro anime incazzate (l’equivalente dei forconi).
Non solo (visto che sto esagerando esagero sino in fondo), anche al presente si finisce per cercare una ‘tradizione’ ripetitiva ma rassicurante, una narrazione che assicura un certo conforto da ghiandola mammaria (sia per gli scrittori, ma soprattutto per i lettori). Queste sono quelle che Valerio chiama ‘gabbie dei generi’ e sono l’equivalente (in questo mio delirio interpretativo) del buon piatto di lenticchie e carote (di una volta, of course) nell’Agriturismo del Fattore. Un bisogno umano come un altro? anche questo, ma soprattutto una gran brutta realtà sociale in cui ci capita di vivere e che continuiamo a incancrenire.
Besos
PS: a parte questo mio incubo insonne, un sincero ringraziamento a Evangelisti per il suo testo, sia per i contenuti (che possono anche non essere condivisi, ma che sicuramente sono ben argomentati) sia per l’uscire da qualche luogo comune e dalla tendenza alle invidie piccole piccole. Bello, utile e condivisibile.
Forse fatto leggero Kasino, forse rikiamo a konsiderazioni De Lorenzis non centrato. Preko lasciare perdere, mio parlare relatifo a nostalgici del bel tempo andato, quando le letterature, kome le cattedrali, erano bianche.
Prometto di ragionare e scrifere di ciorno, la notte dormire essere meglio.
besos
I discorsi sul “genere” sono sempre interessanti. Anch’io non ne posso più di investigatori privati beoni e annoiati e gli altri tipici caratteri del noir che, non dimentichiamolo, nasce in america e qui è (sempre) di seconda o terza mano… Eppure gli editori vi si crogiolano.
Non solo gli editori, ma anche i lettori e forse pure gli scrittori, why?
besos
scusate, faccio il troll per da dare una notizia OT, che però interesserà tutti. E’ appena uscita un’agenzia che annuncia la morte di Enzo Siciliano…
“SCRITTORI: MORTO A ROMA ENZO SICILIANO
Roma, 9 giu. (Adnkronos) – Enzo Siciliano, scrittore e critico d’arte, ex presidente della Rai, e’ morto stamattina in una clinica della Capitale dopo una lunga malattia. Nato a Roma nel 1934, amico di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Siciliano ha sempre partecipato attivamente alla vita letteraria del paese. Critico d’arte e del costume, direttore di ‘Nuovi Argomenti’ e collaboratore con ‘l’Unita”, ‘l’Espresso’, ‘la Repubblica’, Siciliano e’ stato anche insegnante e funzionario della Rai, di cui poi e’ diventato presidente tra il ’96 e il ’97.”