DUE O TRE COSE SUL RACCONTARE

Vi aspettavate un commento sui nomi inclusi o esclusi da Asor Rosa nella sua Storia europea della letteratura italiana?
Non ci sarà.
In compenso, pubblico un’intervista fatta dalla vostra eccetera a Tommaso Pincio, per Mente&cervello.

Cinacittà è uno strano romanzo. Di grande pregio e di difficile classificazione come il suo autore, quel Tommaso Pincio che da anni si avventura nel mondo letterario con uno pseudonimo mutuato,ovviamente, dal grande misantropo della narrativa, Thomas Pynchon, e con narrazioni che costeggiano l’ucronia (M.), la musica (Un amore dell’altro mondo), il passato recente (La ragazza che non era lei). Cinacittà, con il suo delitto ambientato in una Roma senza inverno e popolata da cinesi,  racconta un domani che in realtà è quasi oggi: e pone una prima questione, solo apparentemente secondaria. Il genere. Perché Cinacittà è un romanzo dove molti generi letterari confluiscono e deflagrano: certa capacità che fu della fantascienza cyberpunk di raccontare il “presente avanzato” più che il futuro, insieme agli umori e l’angoscia del noir metropolitano. Dunque, la classificazione resta, e forse deve essere, quasi impossibile. Anche secondo l’autore.

“Di sicuro – dice Pincio- non ci sono suggestioni da Blade Runner. L’idea del libro ha preso forma in via Veneto, la strada della dolce vita e dunque felliniana per eccellenza. Da lì non mi sono praticamente discosto, nel senso che ho seguitato farmi suggestionare da cose molto romane, cinematografiche e non, dal Ranxerox di Tamburini e Liberatore a pellicole come Una vita difficile. Ho raccontato una storia di sapore noir, la caduta di un uomo che resta coinvolto un fatto di sangue, ma non ho inseguito Chandler né autori simili. Avevo in mente alcuni romanzi di Simenon, questo sì, ma nulla di più. Il cuore è sempre stato Roma, quella mitica del grande schermo e quella in cui vivo, l’Esquilino, ovvero la nostra Chinatown. Un incrocio peraltro esplicitato nel il titolo. L’inchiesta giudiziaria e morale del mio romanzo è stretta parente di un film di Dino Risi, In nome del popolo italiano, mentre lo scenario apocalittico è un’esasperazione quasi caricaturale di questioni di cui si parla ogni giorno — cambiamento climatico, immigrazione, crisi economica — e non mira affatto a essere fantascientificamente plausibile. Ha piuttosto i tratti grotteschi e farseschi della commedia all’italiana che vira in tragedia.

Lo sguardo sul mondo, rispetto ai tuoi altri romanzi, sembra più diretto. Lo sfondo sociale, la catastrofe del sociale anzi, sembra più immediatamente percepibile: è un’impressione del lettore o un tuo mutamento effettivo?

C’è senz’altro a un’evoluzione, ma non riguarda tanto e soltanto l’avere preso di petto questioni sociali più prossime. Il dato nuovo di Cinacittà è una narrazione orizzontale, senza mediazioni, per nulla sperimentale. Va detto, però, che è la letteratura italiana che si sta evolvendo. Scorgo una propensione sempre maggiore alla narrazione pura, tanto negli autori che praticano la finzione che in quelli immersi nel reale. Quest’anno sono usciti una incredibile quantità di romanzi di grande respiro che affrontano nodi importanti da prospettive sghembe. Penso al modo in cui Giorgio Vasta ha raccontato la stagione buia del terrorismo ne Il tempo materiale. Oppure a come Brizzi è riuscito a parlare di calcio nel suo fantastorico L’inattesa piega degli eventi. E che dire di quello straordinario urlo che è Italia De Profundis di Genna? È un adeguamento ai tempi. Fino agli anni Novanta del scorso abbiamo vissuto in una società appannaggio quasi esclusivo dell’immagine. Oggi non è più così. La Storia, troppo presto data per morta dai filosofi, è risorta dalle ceneri delle Torri Gemelle. Dobbiamo inoltre considerare il contesto anomalo e drammatico del nostro paese. Il rinascimento narrativo italiano è infatti un’inevitabile e sana reazione allo scempio che politica e televisioni commerciali hanno fatto e stanno facendo della nostra identità. La tabula rasa della memoria condivisa si combatte anche raccontando storie.      
Per farlo, esordisci nella prima persona, per esempio: una scelta opposta a quella degli altri romanzi. Perchè? E perchè parli di “calore truffaldino” dell’io?
Non mi fido dell’io narrante. La prima persona consente di stabilire un’intimità immediata con il lettore, ma è una scorciatoia gravida di rischi. Per esempio, si può essere indotti a giustificare qualche buco nel tessuto connettivo della trama con la parzialità del punto di vista individuale. Oppure si può cedere alla tentazione di spacciare scampoli di autobiografia per verità. Ovviamente, mi riferisco alla narrativa in senso stretto, quella della finzione romanzesca. Altrove, nei territori del reportage e della memorialistica, la prima persona ha piena cittadinanza. Per venire al caso specifico, ho cominciato a scrivere Cinacittà come avevo sempre fatto in precedenza, affidandomi alla terza persona. Giunto a metà dell’opera mi sono dovuto arrendere. Così proprio non andava. Ho buttato nel cestino cento e passa pagine e sono ripartito da zero. Non era semplicemente una questione d’orecchio e stile. Volevo scrivere un romanzo molto italiano e molto romano. Il che è come dire: moralmente cattolico. Il protagonista non narra per espiare la propria parte di colpa per l’omicidio del quale viene accusato. Sostiene di volerlo fare, ma in realtà non è così. Quel che davvero vuole è assolversi. È talmente convito del valore della sua confessione che la rifiuta in continuazione, tanto all’avvocato che lo difende tanto agli inquirenti che lo accusano. La concede soltanto al dio-lettore, nobilitando di fatto una storia per nulla edificante. Va da sé che quando si concede lo fa in maniera parziale. Sulle sue vere colpe, infatti, tace bellamente.

La città, e soprattutto Roma, sembra tornare ad essere protagonista di molte storie. Recentemente, Pan di Francesco Dimitri. Adesso, Cinacittà. E’ una Roma deformata in tutti e due i casi, eppure immediatamente riconoscibile. Ma Roma, in particolare, sembra offrire non poche difficoltà a chi decide di porla al centro di una storia.
Credo che Roma torni d’attualità perché il mondo occidentale è in crisi e stenta a farsi una ragione dell’irreversibilità del suo tramonto. In questo senso, la Città Eterna è un simbolo potente e imprescindibile. Roma è il luogo del declino e della caduta. Non a caso alcuni hanno paragonato gli Stati Uniti di oggi alla fase terminale dell’impero. Per quel che riguarda le faccende di casa nostra, poi, va ricordato che molti storici fanno coincidere la nascita degli italiani con la deposizione di Romolo Augusto nel 476, a rimarcare che siamo un popolo misto, un po’ romano e un po’ barbaro. Chissà che questa ibridazione non sia anche alla base delle nostre difficoltà a conquistare un’unità nazionale. La Roma che propongo in Cinacittà  è per l’appunto quella della caduta, la capitale della catastrofe. Mi rendo conto che è soltanto una delle sue tante facce, ma è pur vero che raccontare Roma nella sua interezza non è soltanto una missione impossibile, è un utopia.

Tu hai definito, giustamente, Cinacittà un romanzo sulle paure. Paura è la parola chiave del nostro tempo recente. Come darle corpo? E come esorcizzarla?

Certe paure non vanno esorcizzate ma affrontate. Mentre ero alle prese con la revisione del romanzo nelle librerie sbarcò un saggio di Giulio Tremonti, La paura e la speranza. Nella prima parte, quella della paura, l’attuale ministro dell’economia tracciava un quadro alquanto apocalittico del futuro che ci aspetta. Sosteneva che l’Europa è attesa da tempi bui, pensa un po’. Lo scenario che paventava, fatto di dissesti ambientali, migrazioni di massa e crisi del sistema finanziario, era né più né meno quello di Cinacittà. A colpirmi non fu tanto questa coincidenza, giacché i problemi sul tavolo non sono un mistero per nessuno, ma il tono dell’esposizione, l’insistere quasi ossessivo sul tema della paura. C’era un che di letterario, di gotico, nelle sue parole: il suo medioevo globale avrebbe funzionato benissimo come sfondo per un romanzo. Il problema è che non si trattava di un romanzo, ma di un saggio politico e in quanto tale necessitava di una soluzione, di un happy ending. La seconda parte, però, è abbastanza deludente perché la grande speranza consisterebbe nella preservazione delle radici giudaico-cristiane. Chiunque con un po’ di sale nella zucca si rende conto che una simile strada, oltre che politicamente discutibile, più che una speranza è una pia illusione. Se in molti credono agli esorcismi di Tremonti è perché viviamo in una società dove la paura viene prefabbricata e usata per creare consenso e governare. In Cinacittà costringo il lettore a confrontarsi con un protagonista i cui tanti lati sgradevoli sono espressione delle paure tremontiane. L’ho modellato su di me per rendere chiaro che nessuno può sentirsi immune dai mostri generati dalla paura.

 

Sei stato “accusato” di realismo e contemporaneamente di mancanza del medesimo: eppure attraverso Cinacittà si arriva a toccare il cuore della catastrofe in modo inedito. Come spieghi questa (altrui) contraddizione?

È un dibattito che non mi appassiona. Mi fa venire in mente quello su astrazione e figurazione che tormentò la pittura italiana nel secondo dopoguerra. L’idea che la strada maestra sia quella del realismo è un’aberrazione tutta italiana. Di recente, in una mia riflessione sul New Italian Epic di Wu Ming 1, ricordavo le parole pronunciate dal cardinal Ippolito d’Este quando Ariosto gli consegnò la versione finale dell’Orlando Furioso: «Messer Lodovico, dove mai avete pigliato tante castronerie?» La diffidenza verso la scrittura tendente al fantastico ce la portiamo appresso da secoli ed è, a mio personalissimo e discutibilissimo avviso, un regalo della santa romana chiesa e procede di pari passo con il nostro essere un paese per natura conservatore. Come ho detto, però, stiamo conoscendo una fase nuova dove tanto il realismo che il suo contrario posso convivere. Edmondo Berselli, recensendo Cinacittà, notava giustamente che per cogliere i tratti del presente esistono anche possibilità alternative a quella di Gomorra, prendere di petto cose reali. Una possibilità non esclude l’altra. Questa dicotomia è ormai superata dai tempi. Trovo molto più attuale e pertinente la distinzione proposta da Gilda Policastro su Nazione Indiana «tra autori che si accomodano sotto l’egida della neoavanguardia e autori che, sdegnati, la rifiutano». Sempre con i dovuti chiaroscuri, ovviamente.

 

 

11 pensieri su “DUE O TRE COSE SUL RACCONTARE

  1. Ho letto stamattina il lancio di Loredana, ma non avevo tempo per lasciare un commento. Riaprendo il computer poco fa pensavo di trovare un’ondata di post, e invece solo quattro.
    Mi dispiace perché ho trovato Cinacittà un libro molto bello.
    Abito a Roma e ho avuto la netta sensazione che Pincio mettesse in scena non tanto un’ ucronia, quanto una distopia già presente.
    E non perché parla di un futuro non lontano ‘invaso dai cinesi’ quanto della nostra immaginazione invasa dalla paura dei cinesi, colonizzata completamente dal terrore ‘di essere sostituiti da questi qua‘ (frase che sento spesso sui mezzi pubblici, per strada, anche da amici).
    Il libro parla del nostro presente, e sono assolutamente d’accordo con Berselli che è una riconferma del fatto che le modalità per raccontare la realtà sono molte.
    E però il libro parla pure di donne, prostitute, giocattoli sessuali nelle mani di uomini moralmente flaccidi, incosapevoli e violenti come il protagonista.
    A questo proposito, mi pare di aver letto in uno dei post degli ultimi topic qualche accusa di furbizia nei confronti di Pincio.
    A me sinceramente non pare che nel libro ci sia qualche forma di compiacimento o connivenza o morbosità verso la violenza sessuale.
    C’è un’ osservazione fenomenologica della deriva fisica e morale di un uomo che arriva fino all’annientamento di sé e della donna che dice di amare. Il riferimento esplicito è alla Lettera al mio giudice di Simenon, ma ammiccamenti o complicità io non ne ho visti.
    Pincio non fa mai da compare al suo personaggio: tanto questi è indulgente con se stesso quanto il suo autore non lo è mai, perlomeno a me non è mai sembrato disposto a sostenere i suoi alibi, semmai a smascherarli e a rivelarli come tali.
    Insomma non lo so cosa si intenda per furbizia in questo caso.

  2. nota sociolinguistica neutra: davvero i cinesi per i Romani sono ‘questi qua’?Dalle mie parti, a nord-est, i cinesi sono ancora ‘quelli là’, pure a un metro dal nostro naso…

  3. Uno dei migliori libri italiani usciti negli ultimi anni. Per qualità e personalità della scrittura e problematicità dell’argomento. Se ne è parlato fin troppo poco di questo libro, o forse mi sbaglio. Qualche dubbio sul perchè, li ho, ma preferisco non fare polemica.

  4. @Paolo.
    Non solo i cinesi, ma tutti gli stranieri immigrati vengono indicati come “questi qua”, con estremo disprezzo.
    Questo è perlomeno quello che sento e vedo sui mezzi pubblici e andando in giro per Roma.
    “Questi” non indica prossimità, ma qualcosa che viene percepita come invadenza, prevaricazione, minaccia.
    Per questo dicevo che Pincio ha fatto una specie di radiografia delle paure che ci agitano e ha dato loro corpo, le ha messe in scena.
    Anche secondo me un libro importante troppo sottovalutato.

  5. Valeria, ci ho meditato molto su “questi qua”/”quelli là”. E non so se la spia linguistica sia sufficiente, ma azzardando un po’ si potrebbero dipingere due atteggiamenti razzisti distinti:
    uno che si sente direttamente toccato nel “proprio”
    uno che considera il “prorpio” inattaccabile.
    Il primo può portare ad azioni viscerali anche terribili, il secondo a un’esclusione totale dell’altro. Non so quale possa essere peggio, di sicuro andrebbero affrontati con strategie specifiche appropriate.
    Ma, ripeto, questo volendo forzare il quadro e fare perno teorico soltanto su un’espressione. Non è un’indagine sociologica la mia, solo una nota.

  6. Sì, Paolo. Il fatto è che entrambi sono atteggiamenti di difesa: che mi senta inattaccabile o no, il presupposto è, comunque, che qualcuno mi vuole attaccare.
    Siamo sotto minaccia e tutti dobbiamo partecipare alla difesa della fortezza, nessuno escluso (medici compresi).

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