DUE SALUTI

Nel luglio di quindici anni fa, su Repubblica, Irene Bignardi sfogliò un libro, Immagini, di Ingmar Bergman. Vi riporto alcuni brani di quell’articolo.

I suoi film da Alla gioia (“un tremendo melodramma”) a Il posto delle fragole lo lasciano perplesso: “il problema stava, con ogni probabilità, nel fatto che non ero mai stato giovane, ma solo immaturo”. Una vampata d’ amore viene scritta mentre i “demoni della gelosia” venivano “imbrigliati e attaccati al carro”. Il settimo sigillo “è uno dei pochi film che mi stiano veramente a cuore, ma non so perché. Non si tratta infatti di un’ opera priva di pecche”. Per girare Alle soglie della vita vuole andare in sala parto, a vedere da vicino quello che non ha mai sentito il bisogno di vedere alla nascita dei suoi cinque figli (“Durante il travaglio mi ubriacavo, o giocavo con i miei trenini Marklin, o andavo al cinema, o dirigevo le prove, o filmavo, oppure mi intrattenevo con signore di dubbia moralità. Non ricordo bene…”): lo spettacolo, comunque, lo terrorizza, e sviene due volte. L’ ora del lupo invece è nato in un periodo di “notevoli fallimenti umani”, di “costipazione spirituale e viscerale”, e viene girato mentre il maestro ingoia intere scatole di lassativi. Persona – il film che, con Sussurri e grida, rappresenta il massimo a cui sente di essere arrivato e con cui “in tutta libertà tocco segreti senza parole, che solo la cinematografia mette in risalto” – è stato scritto mentre Bergman era ricoverato per due mesi al Sophiahemmet per una infiammazione polmonare, e si era dato un feroce regolamento che non ammetteva telefonate, visite, giornali. Ma fare il film “mi ha salvato la vita”. La vergogna lo fa vergognare “di essere stato in tante occasioni così angosciosamente didascalico”. L’ uovo del serpente – realizzato nel periodo dell’ esilio e della euforica depressione seguita alle accuse di frode fiscale – “è troppo vivace, come sotto l’ effetto di anabolizzanti” (e leggere le difficoltà che ha trovato per mettere insieme il suo cast può essere incoraggiante per i giovani registi che pensano di avere la vita difficile o si sentono discriminati). Con Ingrid Bergman, ai tempi di Sinfonia d’ autunno, andò tutto male. Lei recitava all’ antica americana, lui diventò aggressivo. Sussurri e grida – l’ unico suo film che non potrebbe mai immaginare in bianco e nero – scritto durante un’ altra grande depressione, vide accorrere “tutte le forze di soccorso interiori”: “la maniacalità diventava maniera di sopravvivere”. Forse perché “quando l’ anima è minacciata, le forze creative si concentrano”. Ma qualche volta succede anche il contrario. Fanny e Alexander – nato dal ricordo di un’ illustrazione dello Schiaccianoci, un racconto di E.T.A. Hoffman, in cui si vedevano “due bambini rannicchiati nella penombra, la vigilia di Natale”, e girato quando tutte le nubi dell’ azione legale per frode fiscale contro Bergman erano dissipate, ha “tratto vantaggio dal mio sollievo nel sapere che quello che possedevo era veramente mio”.

 Nel 2000, invece, uscì “L’ Avventura ovvero l’ isola che c’ è” a cura di Vittorio Giacci (Edizioni Centro Studi). Conteneva, fra l’altro, questa pagina di diario di Michelangelo Antonioni, l’altro maestro da cui prendiamo congedo.

Ci alziamo tutte le mattine alle tre per andare con mezz’ ora di barca a Lisca Bianca, dove si gira L’ avventura. Stamattina sul molo sono solo. Non c’ è vento, il cielo è sereno. Una violenta tempesta sconvolge il mare, il rumore delle onde che sbattono contro il molo nel buio fa veramente paura. Le finestre delle case intorno sono quasi tutte illuminate e nel riquadro si vedono le silhouette dei pescatori, uno per finestra, come in una scenografia. Sono sicuro che guardano me, devono intravvedermi appena, ma sanno chi sono. E certamente pensano che se anche stamattina pretendo di andar fuori, è il caso di impedirmelo con la forza. Da due mesi non ho notizie dei produttori. Non rispondono alle lettere, alle telefonate, che peraltro avvengono tramite un ridicolo ponte radio realizzato con due vecchi apparecchi residuati di guerra (di un carro armato russo quello ricevente, di un aereo americano quello trasmittente). Non si capisce una parola. Ma basterebbe la voce lontana dei produttori tra le scariche a mantenere in piedi un’ illusione, di avere qualcuno dietro di noi. Invece niente: eclissati, spazzati via con il loro castello di carta, la carta delle cambiali, dal primo colpo di vento della realtà del film. Manca il cibo, perché le navi di linea hanno sospeso il servizio a causa del maltempo, mancano le sigarette, mancano le coperte, i vestiti pesanti, e il freddo comincia a farsi sentire. E col freddo i topi si rifugiano nelle nostre case. Da due mesi nessuno di noi è pagato. è la seconda volta che gli operai scioperano per questo motivo (ho pensato spesso a questi scioperi attuati contro nessuno, come a un diritto di cui la realtà si prendeva gioco). La logica, il buon senso insomma, la ragione suggeriscono di smettere. è opinione generale della troupe che io debba andare a Roma a sistemare le cose. Non so perché, è proprio la ragione a irritarmi e a provocare in me un senso di ribellione. è troppo giusto interrompere il film, partire. Ma so che se lo interrompo, anche un solo giorno, non lo riprendo più, e la pellicola girata diventa buona per il macero. Ho con me ventimila metri di negativo, ho la macchina da presa e pochi amici: Monica Vitti, i miei aiuti Franco Indovina e Gianni Arduini, lo scenografo Piero Poletto, l’ operatore Aldo Scavarda, il fonico Claudio Maielli. Ecco la mia troupe. I soli pronti a seguirmi con qualsiasi mare, contro qualsiasi ostacolo materiale e morale, per non fermare il film. Il marinaio che ci porta ogni mattina a Lisca Bianca viene a dirmi che è pazzesco pensare di uscire oggi, e che comunque da oggi anche lui è in sciopero. Che fare? Resto così per un po’ col pianto in gola, sotto gli sguardi ironici dei pescatori. Dev’ essere stata proprio quest’ ironia silenziosa e vicina, e quella lontana dei cosiddetti asmbienti cinematografici romani che sapevo feroce nei miei confronti, a darmi la forza di reagire. Un’ ora dopo troviamo un’ altra barca, riusciamo non so come a montarci sopra e prendiamo il largo, noi sette, per continuare un film nel quale solo noi crediamo.

4 pensieri su “DUE SALUTI

  1. Proprio ora ho scritto a un amico, critico letterario (Filippo La Porta) che è ancora a New York e ne tornerà a fine agosto. Gli ho annunciato la morte di questi due ultimi maestri, ma presumo che a New York la fuga di questi due grandi sia stata annunciata dalla stampa e dalle televisioni. Ora mi sto godendo Zabriskie Point (RaiDue ha approntato velocemente una “serata Antonioni”). Due grandi, non poi così diversi. Intensi entrambi in modi molto caratterizzati. Parenti nella imperdibilità.
    PS: il mio blog, DalTramontoAllAlba al momento non c’è, i redattori mi assicurano che lo trasferiranno prima possibile, ma io dispero parecchio…

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