Il libro di Roberto Volpi, La fine della famiglia,
va letto. Niente sociologia più o meno spicciola, niente invettive
post-para-psicanalitiche. Volpi si occupa di statistica e analizza dati. In
soldoni, sostiene che nel nostro paese si è smesso di investire sui figli, o
meglio, di immaginare la famiglia in funzione dei medesimi. La conseguenza è
che i pochi bambini messi al mondo vengono trattati come merce rarissima, da
iperproteggere. Ci torno.
Altra lettura in corso, anche se in ritardo di due anni
sulla sua uscita italiana, è La strada degli errori di Elisabeth
Badinter. Che assesta un bel colpo, fra l’altro, ad una consuetudine in
estensione: l’insistenza mediatica
sulla violenza nei confronti delle donne (che naturalmente c’è, e nessuno la
nega) non finisce, anche, per
perpetuare l’antica immagine della vittima da difendere e, ancora una volta, da
proteggere? “Oggi la voce dei movimenti si leva solo per parlare di una donna
fragile, diversa biologicamente, che va protetta. Il femminismo si è arroccato
su posizioni di difesa”, dice Badinter. Già che ci sono, ripesco parte di una
lunga intervista alla medesima.
Badinter, come mai afferma che le femministe hanno
imboccato una strada sbagliata?
Una decina di anni fa sono apparsi i primi segnali di un
cambiamento di tendenza nel pensiero femminista. Ho aspettato che si
confermassero, e oggi ho deciso di parlarne. Un certo numero di femministe,
quelle più in vista, hanno preso posizioni filosofiche, ideologiche e
strategiche che non solo non condivido, ma che ritengo controproducenti,
retrograde e responsabili di due effetti disastrosi. Anzitutto, le giovani
donne, la generazione delle under 30, rifiutano di definirsi femministe. Anche
se poi, nel quotidiano, i loro atti sono femministi, rifiutano tale etichetta,
come se fosse démodé. Il secondo segnale, più preoccupante, è che da 15 anni le
ineguaglianze tra i sessi rimangono le stesse. Anzi, in certi casi aumentano.
Si riferisce al mondo del lavoro, e alle disparità degli
stipendi?
Sì ma non solo. Le ultime ricerche dimostrano che, per la
prima volta negli ultimi quindici anni, si registra un’inversione di tendenza
nel trattamento dei salari. Ossia, la differenza tra quelli dei due sessi è
aumentata, invece di diminuire. Anche nella sfera privata le disparità
rimangono fortissime: rispetto a un decennio fa, oggi gli uomini dedicano alle
attività domestiche circa 10 minuti in più. Insomma, le donne se ne sobbarcano ancora
l’80 per cento: bel risultato.
(…)
Cosa non è stato fatto?
Cosa è stato fatto, piuttosto. Alla fine degli anni ’80 un
certo numero di femministe ha sostenuto un pensiero che rimetteva la donna, la
madre, al centro della famiglia. Il binomio donna-famiglia che lei stigmatizza
nel suo libro. Sì, è proprio questo il cuore del problema. Non abbiamo
despecializzato i ruoli, anzi: è stato fatto di tutto per rafforzarli.
Di questo sono responsabili le femministe?
A metà degli anni ’80 è cominciato il discorso ecologico,
sostenuto anche dalle sinistre. Un ritorno alla natura, al biologico, al
rifiuto del consumismo, dell’artificiale. E noterà che, proprio in quel
momento, si è ricominciato a parlare dei benefici dell’allattamento al seno,
con la benedizione del movimento delle donne.
Cosa c’è di sbagliato nell’allattare?
Non si tratta di giusto o sbagliato. Fino a metà degli
anni ’80 gli psichiatri infantili consigliavano l’allattamento misto, per
offrire alla madre una certa libertà e al padre la possibilità di essere più
coinvolto nella crescita del bambino, sin dai primi mesi. Oggi la direttiva
europea per il personale medico specifica chiaramente che va incoraggiato
l’allattamento al seno per almeno sei mesi.
Ma questo ritorno all’allattamento non è la causa di tutti
i mali…
È uno degli aspetti. Va letto all’interno di un sistema
che comprende le nuove leggi europee sulle molestie sessuali e quelle sulla
parità. Tutto è incentrato sulla differenza biologica, sulla specificità
femminile, sulla specializzazione dei ruoli. Così arriviamo all’offerta di un
compenso alle donne che restano a casa per accudire i figli… Sono leggi che
variano a seconda dei Paesi, ma che sottendono una filosofia pericolosa. In
Francia, una misura votata nel ’93 prevedeva di dare l’equivalente del minimo
salariale part time alle donne con due figli che accettavano di stare a casa.
Una legge drammatica, che metteva le donne in uno stato di totale dipendenza.
Eppure nessuna femminista l’ha messa in discussione né criticata.
(…)
Lei si è espressa raramente in materia di pubblicità o
immagini sessiste.
Perché non sono d’accordo con le associazioni che
vorrebbero vietarle e basta. Se un’immagine è degradante va, ovviamente,
denunciata. Ma più che lanciare anatemi, è importante rifiutare di comprare il
prodotto che ci viene proposto in tal modo. Le faccio un esempio: le pubblicità
trash di Dior hanno fatto triplicare le vendite. Il problema, però, non è tanto
l’immagine di cattivo gusto, bensì le donne che sono state da essa attirate e
hanno comprato. E allora cosa facciamo? Le mettiamo nei gulag per educarle al
femminismo? Vietare non serve. Solo la parola e la riflessione ci possono
aiutare.
Non c’è mai stata in effetti, una forte riflessione sulla maternità, che pure è il punto centrale (anche per chi figli decide di non averne) e che non dovrebbe essere in competizione con una parità di diritti e salari.
La differenza biologica e la specificità femminile ci sono, non ho mai capito però perchè dovrebbero comportare rischi, se le garanzie fossero forti.
Perché una donna non dovrebbe essere in grado di pensare anche se partorisce? Eppure c’è questo pregiudizio, e in effetti è vero che durante la gravidanza l’attenzione si rivolge altrove, ma non si resta mica gravide per 99 mesi, e anche ad avere due figli il numero di anni destinati esclusivamente alla prole sono una frazione minima nella vita di una persona.
Il cerebro non esce con la poppata, Susan Sonntag docet.
Si tratta di allargare i diritti e le garanzie.
E anche di insegnare alle donne a pensare in grande.
E questo insegnamento tocca alle madri.
Purtroppo, molto spesso, le madri tramandano alle figlie l’abitudine a pensare in piccolo.
E temo che il punto sia esattamente questo.
Infatti, hai ragione, avrei dovuto dire “toccherebbe” alle madri.
Ma dicendo madri non intendevo solo le madri carnali, dovrebbero esserci Madri e Maestre, mentre abbiamo avuto prevalentemente Padri e Maestri.
E la responsabilità è sia di allievi/e (anche i maschi avrebbero bisogno di Madri e Maestre) che non cercano che delle madri che non si assumono la responsabilità e non si sentono all’altezza.
Siamo ancora indietro, non c’è dubbio.
E mi chiedo anche se “in questa generale ricorsa fra produzione industriale e produzione dal basso che sta attraversando tutto il mondo della comunicazione e dell’immaginario (i videoclip di Youtube, le fan fiction, i blog e via elencando)” come ho letto sotto, l’idea stessa di Maestro/a sia ancora possibile e praticabile, almeno in questo modo un po’ semplice e lineare in cui almeno io l’ho detto.
Salomonicamente, avremmo bisogno di Madri e di Padri in ugual misura. E, ribadisco, abbiamo un problema urgente di comunicazione e di informazione, che tende a far lievitare un insieme di notizie fra loro omogenee fino a creare una pseudo-realtà…
E se invece avessimo bisogno di meno mammaepapà e di più tribù, fin da piccoli?
Secondo me l’iperprotezione va di pari passo con la famiglia nucleare, che tra i suoi effetti deleteri ha quello di limitare drasticamente le relazioni e i modelli umani significativi per i bambini nella prima infanzia…
Cara Loredana,
mi dispiace moltissimo commentare sul suo blog… che per altro leggo sempre ma su cui non posto… cerco da diverso tempo il suo indirizzo e.mail, gradirei inviarle delle copie stampa ma non riesco a mettermi in contatto con lei! Se ha voglia mi risponda, grazie!
Cara Loredana,
mi dispiace moltissimo commentare sul suo blog… che per altro leggo sempre ma su cui non posto… cerco da diverso tempo il suo indirizzo e.mail, gradirei inviarle delle copie stampa ma non riesco a mettermi in contatto con lei! Se ha voglia mi risponda, grazie!
ne so poco di allattamento, ma non credo che la parità sessuale si muova su questi piani, emancipando biberon e tette.
io in realtà ci provo a farmi stare simpatica la banditer (ma il guaio degli uomini è non poter mai essere al 100% femministE), anzi provo a leggere banditer (loredana, tu saresti criticata in quanto ti autodescrimini come “la” lipperini e non ti firmi lipperini), ma proprio proprio non ci riesco.
Il lavoro smobilita l’uomo (e quindi la famiglia).
La parità sessuale, che cosa sarà mai la parità sessuale?
La parità di diritti per le persone è quella che interessa a me.
La Lipperini fa bene a chiamarsi LA Lipperini, è maschio o è femmina? E se è femmina il suo genere è il femminile.
Al massimo, in situazioni istituzionali io ammetterei un diplomatico neutro, se lo avessimo.
Del resto se c’è qualcosa che mi fa letteralmente vomitare è sentire definire la Merini una poeta, mi viene in mente la cassa peota.
Si è sempre detto poetessa. Cos’è, non sarà mica il suffisso a umiliare le donne, la vera umiliazione è che ce ne siano così poche nelle antologie di poesia.
Non so, a me piace molto essere donna, e non voglio mimetizzarmi in nessun modo.
Lo Lipperini (che è tanto neutro, quanto un assaggio del nome)
Mi vengono in mente gli studi, dimenticatissimi, di Alma Sabatini sul linguaggio e il genere: oggi verrebbero liquidati con un’alzata di spalle e l’etichetta di paranoia vetero. Eppure, basterebbe dare un’occhiata ai testi scolastici per le scuole elementari per capire che la discussione sul linguaggio è tutt’altro che secondaria, in questo discorso…
Problemi di semantica femminista: perché in un elenco di nomi, prendiamo come esempio la lista dei nobel, diciamo:
Pamuk, Pinter, LA Jelinek, Coetzee? Mica ci viene in mente di dire IL Fo o IL Saramago? Sarà forse che ci sorprendiamo che una donna sappia scrivere?
Perciò quell’articolo (posto o tolto) non è la mimetizzazione di cui parla alcor, ma probabilmente un riflesso psicologico di massa.
Un altro tema invece è quello delle parole come poeta; se esiste poetessa, perché non usarlo? lo capirei nel caso di “medico” (che non presuppone un femminile) oppure per i plurali “obbligatoriamente” al maschile (altre lingue stanno elaborando forme “paritarie” di plurale)
p.s. chiudo dicendo che secondo me l’unico vero emancipato qui dentro è nicolò LA rocca (sorry, nicolò, m’è scappata!).
Il linguaggio è un sintomo, e come nelle malattie, curando il sintomo non cavi un ragno dal buco.
Questa è almeno la mia convinzione, e ne sono convinta perchè credo che il lavoro delle femministe, pur meritorio (delle ultime non so perchè è molto che non leggo niente in merito)si è sempre mosso o in superficie, con rivendicazioni che avrebbero preteso una guardia armata a ogni angolo di strada, o così in profondo da restare teoriche (e a dire la verità queste sono anche le migliori, secondo me, vedi la Irigaray).
Comunque è vero che si è tornati indietro, in tutti i sensi.
E che la politica non ha fatto il suo lavoro, e questa è colpa nostra.
e solo ora vedo la grande sfuriata di veronica sul “quotidiano”:
http://www.repubblica.it/2007/01/sezioni/politica/lettera-veronica/lettera-veronica/lettera-veronica.html
(devo ancora imparare come di fa un link, mea culpa)
Aggiungo che non solo la politica non ha fatto il suo lavoro: ma che i danni peggiori li hanno fatti i media, cartacei e non.
Però mi sento in obbligo di spiegare il mio “la”. Semplicemente, prima di aprire il blog, si parlava e sparlava della sottoscritta in quanto curatrice della famigerata antologia, citandomi come “la Lipperini”. Ho ripreso l’epiteto per gioco, ed è rimasto. 🙂
alcor, non credo che il linguaggio sia solo una forma riflessa, anzi confido nella potenza ideologica che esso esercita sulla sfera sociole.
un ragazzino, a furia di sentire: le donne sono tutte puttane, sporco negro, quell’ebreo di merda, non è che ci metta tanto a ritrovarsi maschilista, razzista, antisemita.
la riflessione delle femministe sul linguaggio era (spero lo sia ancora) un modo per causare una sovversione di alcuni valori che sembravano non poter essere messi in discussione.
quando cominciando una mail collettiva scrivo “carissim*”, a qualcuno verrà da pensare che non è stato soltanto un errore di battitura.
comunque in linea generale sono d’accordo con te, che le radici sono state intaccate poco, sebbene questa del linguaggio (se non si fosse spesso risolta in mera pedanteria) sarebbe potuta essere una strada valida.
@Vins
credo che abbiamo scritto in contemporanea, sì, chiamare la jelinek “la” è un riflesso psicologico di massa, sono d’accordo.
Quello che dico io è solo che non mi pare valga la pena sprecare energie per convincere qualcuno a chiamarmi solo per cognome, su questa strada passerebbero i millenni, prima che io, oltre alla mancanza dell’articolo, ottenessi anche il riconoscimento di alcuni diritti.
Sono convinta che la riflessione sul linguaggio non porti a nessuna sovversione dei valori, è troppo lenta. E resta limitata a ceti cittadini colti e riflessivi che sono anche abbastanza autoreferenziali.
Molto più sovversivo, a mio parere, è non mollare mai su altre cose, usando le leggi che già abbiamo.
Adesso non voglio intasare qui, ma per fare un esempio fantasioso, i federali beccarono Al Capone grazie alla legge sul fisco, cioè a quel che c’era. Quando ho saputo che una donna allattava suo figlio in macchina, portatole dal padre ogni quattro ore, perchè non voleva che il suo datore di lavoro pensasse che la maternità abbassava il suo rendimento, ho pensato che bisognava denunciare lei per maltrattamenti al bambino (e per stupidità), non perché, come certamente faceva, accettava che davanti al suo cognome ci fosse l’articolo femminile.
E subito dopo, se il suo datore di lavoro davvero l’avesse discriminata per questo, trascinare lui in tribunale. Ma lei voleva far carriera. Meno doloroso per tutti/e, sarebbe stato l’obbligo di un nido aziendale.
E questo avrebbe toccato e rispettato i diritti della persona madre e della persona bambino più dell’eventuale uso di poeta invece che di poetessa per la Cavalli o la Merini o tutte quelle che non conosco perché non sono antologizzate.
Poete, sì, ma sepolte.
@Lipperini
A me piace il “La”, come ho detto mi piace essere donna, e mi piacciono le donne, e mi fa anche piacere, vedendo tanti articoli femminili, che ci siano tante donne che fanno pubblicamente qualcosa. Non ci fossero gli articoli, visto lo stato delle cose, penserei che sono tutti uomini.
Secondo me l’articolo LA anteposto è un retaggio di una sudditanza linguistica nei confronti del nord-Italia, della Polentonia, insomma. Uh, quanti strafalcioni mi è toccato sentire da quando sono emigrato in Polentonia… LA Maria, LA Marina (e perché non la Montagna?). Ma anche “te” usato sempre come pronome soggetto (!), o “in teoria” e “piuttosto che” reiterati senza vergogna. Ma l’elenco sarebbe infinito… E poi ‘sti polentoni si arrabbiano per certe piccole sviste di noi terroni, tipo: “scendo il cane che lo piscio” 😉
Anch’io penso che un certo pensiero della differenza si sia rivelato alla fine abbastanza una fregatura. Non mi piace questo cercare una qualche sostanza fondamentale dell’essere femminile, mi puzza- a volte- di fondamentalismo. Prima, d’accordo, ce lo dicevano i maschi a partire dai padri della chiesa chi eravamo, ma sostituirne l’autorità con quella di certe madri non mi pare una soluzione ottimale. Se non altro, perché certe cose sono comunque cambiate troppo da poco per valutarne gli effetti profondi:i vari mezzi, per esempio, che ci liberano dalla necessità di proceare (o abortire)esistono da un tempo che riguardo al prima è un secondo.
In queste condizioni come possiamo individuare con certezza ciò che non è solo frutto di vari condizionamenti? E quanto conta poi alla fine l’individualità concreta di ogni donna (che le donne siano soggetti individuali pari ai maschi non è una acquisizione così tranquilla)sullo sfondo di questa sostanza comune?Una a cui, ad esempio, fa schifo allattare (perché la mamma è stata fredda e anaffettiva, ma anche perché teme che le caschino le tette), deve sentirsi una merda? Deve temere di non poter trovare UN MODO SUO per essere una madre decente?
Poi senti dire alla radio che il 70% dei manager italiani è sfavorevole al part-time e ti cascano alla grande. Part-time, asili ecc. sono queste le cose che servirebbero per sviluppare un modo leggermente diverso di stare al mondo, per chi lo vuole.
se il linguaggio è un sintomo, alcor è grave.
dott. maletto
“Vietare non serve. Solo la parola e la riflessione ci possono aiutare”.
Sante parole.
Brevemente, penso che più che di movimenti femministi ci sia bisogno di un “nuovo femminismo” – non inteso come “fondamentalismo”, ma come attenzione diffusa ai diritti delle donne -, che comunque conservi i contributi validi del movimento femminile (non pochi…).