Sul quotidiano di oggi c’è un’intervista della sottoscritta ad Antonio Scurati. Posto qui sotto l’integrale (su carta c’è qualche piccolo taglio) e vado, per l’ennesima volta, a fare la valigia. State bene.
Nel corso dell’ultima edizione
della Fiera del Libro, Antonio Scurati (Campiello 2005 per Il sopravvissuto)
ha fatto parlare di sé per l’invettiva contro Federico Moccia, “nemico della
civiltà letteraria”. Ma la sua provocazione più forte proviene da un libro: per
esattezza, dalle ultime pagine de Il rumore sordo della battaglia,
appena ripubblicato da Bompiani con “sanguinose modifiche” dello stesso autore,
che ha eliminato uno dei due piani narrativi (quello contemporaneo), aggiunto
un capitolo e, soprattutto, una postfazione. La quale parte da quanto scrisse
Italo Calvino nel 1964 per la nuova edizione de Il sentiero dei nidi di
ragno, e arriva a delineare un pensoso panorama del narrare oggi. Il punto
saliente: la relazione fra letteratura ed esperienza è perduta a causa
dell’impossibilità di distinguere fra realtà e finzione.
Il problema dello scrittore,
dunque, è “come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi è
l’assenza di un mondo”? Ovvero, di cosa scrivere?
Il problema dell’inesperienza
ci riguarda tutti come condizione privativa del concetto di esperienza vissuta.
Laddove l’esperienza è irreversibilità e continuità, l’esperienza mediata non
ha nulla di tutto questo: in un videogioco o in televisione uccido e muoio
all’infinito. Oggi, anche i libri più ingenuamente autobiografici affondano le
radici non nel vissuto, ma nei materiali dell’immaginario, da altri libri o
dalla messe di simboli offerti dal cinema e dalla tv. Questo cambia
profondamente la condizione dello scrivere.
Ammettiamolo: ma la differenza
non è fra chi è in grado di utilizzare e reinventare l’immaginario, quello
televisivo incluso, e chi ne viene invece schiacciato?
Ne siamo tutti schiacciati nel
momento in cui eleggiamo a linguaggio privilegiato quello, marginale, della
letteratura.. In America scrittori come Foster Wallace e altri lo fanno
consapevolmente: sanno, cioè, di essere ai bordi dell’arena dove si combatte.
Però è una debolezza che può essere cambiata in una posizione di forza: gli
scrittori hanno comunque il privilegio,
come sosteneva Pasolini, di poter dire parole di verità.
Ma la marginalità non dipende
anche dal fatto che ci si mette volontariamente nell’angolo? Quando lei cita
Calvino, sostenendo che l’immediatezza fra scrittori e pubblico dei suoi tempi
è irrimediabilmente perduta, attribuisce le responsabilità soltanto al lettore?
Dico che se viene meno un
terreno di esperienza comune, la comunicazione diviene aleatoria. Gli scrittori
dell’epoca di Calvino avevano la guerra come esperienza condivisa. Noi abbiamo
l’immaginario. E questo porta a muoversi alla cieca: gli autori come gli
editori. Oggi lo scrittore italiano si è confinato nella posizione di narratore
di storie. La retorica dello story telling ha indubbiamente avuto la
funzione di correttivo al romanzo italiano dopo l’ubriacatura ideologica degli
anni Settanta: ma ha portato lo scrittore in posizione di minorità
intellettuale. In altre parole: oggi, l’unica cosa che può fare chi scrive è
dimostrare la sua abilità nell’intreccio. Non gli è richiesto di essere un
intellettuale e di avere una visione del mondo.
Questo, però, dipende dallo scrittore.
Per esempio, Carlo Lucarelli
ultimamente si limita a fare il narratore. In Nord-Est di Massimo
Carlotto, lo story telling è un alibi per nascondere la vacuità. Romanzo
criminale di Giancarlo De Cataldo è sopravvalutato: nel senso che, come Io
non ho paura di Ammaniti, è transmediale, sembra una sceneggiatura in
attesa di diventare film.
Quindi? Bisogna tornare al
formalismo?
La frontiera della letteratura
passa anche attraverso la ripresa dell’intreccio come risorsa strategica: ma
non deve far venir meno altre dimensioni della forma romanzo come
onnicomprensiva e inclusiva. Il romanzo deve invaginare ogni altra forma del
sapere. Se non lo fa, è povero.
E chi lo fa?
Bret Easton Ellis, in American
Psycho e Lunar Park. James Ellroy, in Jungletown Jihad. Un uso felice dell’intreccio, fra gli italiani, è in Q
degli attuali Wu Ming.
Fatti salvi questi requisiti, però, di quale realtà deve parlare il
romanzo, visto che la realtà, lei sostiene, si confonde con la finzione?
Io sostengo che qualsiasi romanzo si
scriva oggi è in realtà un romanzo storico: nessuno di noi è più contemporaneo
a se stesso, proprio perché è dell’immaginario, e dunque di una ricostruzione,
che ci si occupa. Sto scrivendo un libro ambientato nell’Ottocento anche per
raccontare l’impossibilità della condizione amorosa oggi attraverso una storia
di amore di allora. E perché sento l’esigenza di tornare ad ingaggiare una
battaglia per la cultura popolare attraverso l’arte popolare.
Quella da cui in molti sembrano
fuggire.
Già. A Torino Goffredo Fofi sosteneva
che i mezzi di comunicazione di massa
vanno abbandonati e che bisogna tornare a comunicare viso a viso. Io credo nell’arte popolare come espressione della
tradizione italiana. Penso al melodramma verdiano come genere romanzesco
popolare. Ad un uso artistico del sentimentalismo, che agitato in tv è
deleterio: ma il sentimentale è politico, commuove e dunque muove le masse.
Il problema è che quando si muovono le masse non
tutti la prendono bene: non ce l’aveva con Federico Moccia?
Il successo di Moccia mi
preoccupa come educatore, perché è esempio di quel tipo di scrittura
profondamente consolatoria e complice del suo lettore. Il libro che lo consente
è un cattivo libro. Ma, a parte questo, non ho nulla contro i
libri che vendono.
trovo spesso interessanti e parzialmente condivisibili gli argomenti di Scurati, ma il suo tono perennemente grave mi lascia altrettanto spesso perplesso. esempio: “Sto scrivendo un libro ambientato nell’Ottocento (…)perché sento l’esigenza di tornare ad ingaggiare una battaglia per la cultura popolare attraverso l’arte popolare” Mi sembra troppo. Il da lui citato Bret Ellis invece è proprio il classico esempio di moralista serio ma non serioso, che dice e scrive cose dall’intenso contenuto morale senza per forza dare l’impressione di “fare” la morale a qualcuno.
cito:
“la relazione fra letteratura ed esperienza è perduta a causa dell’impossibilità di distinguere fra realtà e finzione”.
“Il problema dell’inesperienza ci riguarda tutti come condizione privativa del concetto di esperienza vissuta”
“Laddove l’esperienza è irreversibilità e continuità, l’esperienza mediata non ha nulla di tutto questo”
Dobbiamo quindi dedurne che quando Omero, figura già di per sé non storica, narra di rapporti tra uomini e dei dell’Olimpo, egli avesse a che fare con elementi di realtà, e non con meri giochi dell’immaginario? 🙂
(naturalmente aveva a che fare con entrambi, dato che il rapporto cui tale ingenua contrapposizione allude è almeno a doppio senso).
Nell’immaginario di Scurati, pare, vive e prospera l’idea di un rapporto irrigidito tra un “reale” e una “finzione spettacolare” (pare di riascoltare le suggestive – ma teoreticamente fragilissime – riflessioni debordiane di 30 anni fa). Ma tale rapporto assume nell’intervista immediatamente la forma, incongrua con questa stessa premessa, di un rapporto tra “esperienza vissuta” ed “esperienza mediata”, cioè tra immediatismo esperienziale e mediazione finzionale. Purtroppo, che sia un po’ complicato – per non dire che è IL problema – far coincidere “immediatamente” l’esperienza di realtà con la realtà tout court, è faccenda che in filosofia è nota almeno dal IV secolo a. C.
Opporre reale e finzione e subito dopo chiamare questo reale “esperienza” vuol dire avere un amore smodato per l’ossimoro e qualche problema di sviluppo logico del pensiero.
Quanto all’adesione ingenua a un’idea di immediatismo esperienziale, e all’altrettanto ingenua subordinazione della mediazione a tale primum, forse l’ultimo secolo e mezzo di riflessione in filosofia (almeno da Peirce, passando per l’ermeneutica continentale fino a filosofi come il nostro Sini) nelle scienze (dalla psicologia della percezione alla neurobiologia) e in sociologia e storia della cultura (Ong, per non scomodare il sempre citato e mai letto McLuhan) avrebbe qualcosa da obiettare.
Scurati rivendica per lo scrittore il ruolo di intellettuale: tale ruolo richiede una certa dose di assunzione di responsabilità, che non sta però nel dire “parole di verità”, questione che lascerei volentieri a paparatzinger, ma nell’informarsi prima di dire e nel “provare” (nel senso pratico del termine) la sostenibilità di ciò che si dice.
Sul giudizio su Wallace mi astengo, essendone un sostenitore non sarei imparziale (ovviamente ritenendo del tutto scentrata la premessa del discorso di Scurati, cosa pensi del resto viene da sé)
Sul sentimentalismo, Scurati sfonda porte aperte: nel pendolo che vede a un estremo l’esperienza della “mitopoietica” wuminghiana in funzione di egemonia dell’immaginario neopopolare (che si fonda su una lettura ugualmente prefilosofica del nesso materiale-immateriale, stavolta alla luce di un negrismo carente di suo e di suggestioni che vengono parte dalla sociologia del postfordismo, parte dai francesi) e all’altro estremo lo pseudocinismo uelbecchiano (una variante del mito della caduta, che non definirei tragica, ma correttamente patetica, nel senso letterale del termine, cioè sentimentale), in tale pendolo il “sentimento” vive senz’altro una fase di grande spolvero. Che poi produca buone cose, è tutto da vedere.
Come diceva qualcuno, con terminologia un po’ desueta, si ricorre al sentimento non quando la ragione è debole, ma quando pur essendo acuta è impedita, e quindi preferisce assopirsi sopra un letto di autoindulgenza.
b.georg, non ho capito niente, ma proprio niente. Niente. Siamo sicuri che queste discussioni abbiano un minimo senso e, soprattutto, servano a qualcosa, servano a scrivere e leggere buoni libri? Secondo me no. Sono discussioni sul sesso degli angeli, fatte da persone che volevano essere filosofi e non ci sono riuscite.
Qualcosa di comprensibile?Un intervento sul mito e il racconto di Wu Ming 1, in mp3 , dalla loro Audioteca su wumingfoundation.
domando scusa, non avevo inserito il traduttore universale di star trek italiano-klingon
:))
(resta il fatto: non è che “non ho capito=non ha senso=non serve”. Magari “non ho capito=non ho capito”. Poi per carità, servire servo poco, lo so)
proverò a darne una versione light, che oggi tutto dev’essere light: ciò che scurati intende come reale non mediato o esperienza vissuta immediata, che sarebbe oggi impossbile perché siamo tutti e in tutto trapassati dall’esperienza mediata, cioè dall’immaginario, cioè dalla finzione mediatica, come fa a chiamarlo tale, reale non mediato? Guarda caso, attraverso una mediazione, cioè il suo linguaggio e l’esperienza dello stesso (e tutta l’infinita trafila di mediazioni – di esperienze – cui ciò allude).
Non serve essere il filosofo fallito che gentilmente dici che io sono (sono molto meno, in realtà), per vedere che questa premessa del suo discorso è un cattivo pensare.
Che pensare (male o bene), poi, aiuti a scrivere o a leggere, questo è naturamente opinabile.
Va bene, ma rimane, intatto, il mio chissenefrega. C’era davvero necessità di cominciare questa discussione? Perché tutto questo spazio a questa pseudo-polemica di Scurati?
io dico che bisogna cibare i gentiluomini com perplex, perché sono una razza in via d’estinzione, senza la cui presenza la blogsfera sarebbe e sarà di tal noia (dico sul serio).
Quando a b.goerg, dica la verità: lei McLuhan l’ha letto per davvero (certe cose lasciano il segno).
Sono peraltro d’accordo che l’espressione “esperienza inmmediata” nel senso di non mediata, così espressa, non ha cittadinanza né esistenza.
Ma perché vi sfogate sulla letteratura, che palesemente non c’entra con quello di cui vorreste parlare? Perché sfruttate la letteratura in questo modo? Non potreste partire dalla Formula 1, o dall’agricoltura?
non esistono libri cattivi e non credo nel proibizionismo pseudo intelletto-culturale. Gli intrecci perfetti mi annoiano.
perplex, quel che frega a te forse non frega a me, e viceversa, no? c’è spazio per entrambi, credo
🙂
., e di cosa vorremmo palesemente parlare, secondo te, che ci leggi nel pensiero?
@Guglielmo Pispisa. Io non sopporto le pose. Non sopporto, quindi, gli scrittori perennemente ironici, con la posa della leggerezza, quelli che quando li incontri ti devono per forza dare l’impressione di essere simpatici, come non sopporto gli scrittori seriosi. Ma a me Scurati sembra che sia autentico nella sua seriosità. Più che serioso mi sembra serio. Non condivido tutto quello che dice però rispetto il suo modo di essere.
@b.georg. Volevo precisare che “.” non sono io.
Resto convinto che l’arte debba essere il ferro che batte sull’incudine della realtà al fine di limarla, più che un mero specchio che si limiti a rifletterla.
[Ste]
Triangolate quel che dice Scurati via Calvino, quello che sostiene Benjamin (non ricordo dove ma di sicuro raccolto in Angelus Novus) sulla fine dell’esperienza – correggimi, Girolamo! – e quello che scrive Angelo Sartori in Anatomia della battaglia…
E ci ritroviamo con il crudele nesso guerra-letteratura-vita, che dall’Iliade non abbandona mai l’occidente!
per Nicolò. abbasso le pose, sono d’accordo. ridanciani per piacioneria e incazzati per convenienza lungi da noi, niente da dire. mi limitavo a riflettere sul fatto che i migliori moralisti sono quelli che non lo sembrano o non danno l’impressione di esserlo (Ellis, Wilde ecc.) Non discuto sulla sincerità del corrucciamento di Scurati (nomen omen) ma sulla sua efficacia.
Benjamin distingueva tra la mera esperienza vissuta (Erlebnis), che è ciò che Scurati chiama esperienza, e l’esperienza potenziale (Erfahrung): chiedo scusa del bisticcio, ma in tedesco sono due parole distinte, in italiano dobbiamo aggrovigliare la lingua. Una delle pre-cognizioni foucaultiane del vecchio Walter è la scoperta della riduzione ad esperienza vissuta (Erlebniss) dell’esperienza (Erfahrung) nelle forme di dominio moderne, e la ricerca nella sfera della memoria involontaria (da Proust al suo Infanzia Berlinese) come resistenza contro «l’armatura della vita metropolitana».
Quindi quello che Scurati disprezza come mero residuo dell’esperienza è proprio quel *di più* di esperienza che evita di ridurre ciò che siamo al mero dato di ciò che abbiamo esperito. Da un punto di vista benjaminiano (che è il mio, senza riserve) il discorso di Scurati è totalmente *retrovisore*, nel senso dello specchietto in cui costantemente guarda perdendosi la possibilità di chiedersi dove mai potrebbe andare. Come culturalmente regressivo è il suo *Sopravvissuto*, al di là delle sue posizioni pubbliche e delle antipatie per Moccia e Bruno Vespa. Ciò che mi consola è che è talmente reazionario – sto parlando dei suoi presupposti antropologici, dei suoi strumenti di analisi, della sua fenomenologia agonica del mondo – da andare per una strada sulla quale io non camminerò, così non devo chiedermi se lo accetterei mai come compagno di strada.
@Paolo S.: la bibliografia in privato
Mi permettete un discorso terra terra?
Io sono, fondamentalmente, una prof. figlia di molte ambizioni e poco coraggio.
Ma un vantaggio il ruolo ce l’ha: sei ogni giorno a contatto con l’ultima generazione. E’ come viaggiare sempre col vento in poppa. A volte dà fastidio, ma ti fa andare avanti e, soprattutto, senti l’odore dell’aria.
Bene: io questo sconosciuto Moccia, l’ho conosciuto in una terza superiore, negli occhi sognanti di una serie di ragzzine che avevano imparato a volare tre metri sopra il cielo. Oggi i ragazzi non leggono, ma se cominciano a farlo dopo non si tirano più indietro neppure davanti a letture più corpose. Lo dico per lunga esperienza, mi sono servita del best seller come di leve poco ortodosse per fare capire che come loro amavano certe letture, io ne amavo altre. ma che anch’io avevo letto “Love Story” in terza liceo, mangiando mele e versando lacrime come una qualsiasi Jo da piccola donna. Sono fenomeni passeggeri? probabilemnte come è passeggera una generazione, oggi più di ieri, molto più di ieri, ma il fatto rimane. E’ una tendenza, magari Moccia ha nel DNA la televisione e sa come catturare l’attenzione dei giovani. Ma i giovani imparano qualcosa che con “Metamorfosi” provoca crisi irrimediabili di rigetto. Non lo so, non me la sento di condannare, al contrario penso che se è questa l’aria che tira siamo in un bel reflusso ( e ci siamo) per cui da piccoli dovoratori di Henry Potter a giovani divoratori di metrate di cielo dentro e fuori di loro potranno diventare lettori attenti. Un po’ alla cieca io sento che domani è sempre e comunque meglio di oggi. E poi una sedicenne con un libro in mano – sia pure vista da lontano – è un bel vedere.
Marketing? Non ne sarei così matematicamente sicura, a volte è voglia di riappropriarsi del sè.
Basta così, che la tentazione di salire in cattedra è una robaccia sempre in agguato:-)
@roswita. Per mia esperienza chi legge certi libri continuerà a leggere certi libri. Raramente (diciamo nella misura dell’1 per cento) allargherà la propria esperienza di lettore.
@girolamo. Credo che non ci siano strade in questa realtà, ma solo una grande, sterminata piazza.
@ Nicolò
no, è come Venezia: tutti i cartelli ti portano sulle stesse strade verso la stessa piazza, ma in realtà tutt’intorno c’è una miriade di vicoletti in cui puoi anche startene da solo, basta volerli cercare
Io dico che nessuno di questi criticoni ha avuto Scurati come prof. Peccato per loro e certo che poi faticano a capire un uso della lingua italiana forse più complesso del solito ma, in definitiva, dolce per le orecchie (o gli occhi).
Sì che esistono i libri cattivi, perché la carta si lascia scrivere. Ma esistono con uno scopo, che è quello di farsi sbugiardare in quanto cattivi libri.
Sto leggendo ora “Il sopravvissuto” di Scurati: è la prima volta che leggo questo autore ma dal modo di scrivere, le sue risposte non mi sorprendono.
Grazie per questa bella intervista, ora metto in conto di leggere Ellis.