LA CAPACITA' DI RESTARE SOLI

Lo so, qualcuno vorrebbe che si parlasse d’altro. In fondo è da una settimana che non si discute che di femminicidio, ma che noia. Non si potrebbe, per esempio, commentare le dichiarazioni di Jeff Bezos, oppure recensire un bel libro?
La risposta è no.
Si chiamava Alessandra, aveva 36 anni, una bambina di 6, un compagno di 59. Che l’ha scaraventata contro un comodino, e poi le ha preso la testa fra le mani e l’ha sbattuta a terra, una volta due volte tre volte. Finché non si è reso conto “di aver fatto un guaio”, e ha anche “cercato di rianimarla”, e insomma “era depresso”.
Così il Corriere della Sera. E’ morta, ma la vittima è lui, commenta Michela Murgia.
Che ci voglia un codice etico per i giornalisti che raccontano il femminicidio è cosa stradetta ma sempre più urgente: e, per favore, cerchiamo di essere unite nel chiederlo e almeno in questo caso non stiamo a salvaguardare gli orticelli.
Che ci vogliano molte, moltissime parole maschili è un altro fatto. Per questo, vi riposto l’articolo di Massimo Recalcati uscito il 5 maggio su Repubblica.
Con enorme tristezza.
“La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’ umiliazione dell’ insulto e dell’ aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta.
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, nonè una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l’ umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’ umano è l’ esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’ è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’ altro. Per questo la condizione che rende possibile l’ amore – come forma pienamente umana del legame – è – come teorizzava Winnicott – la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite. Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine.  Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’ esterno come luogo di minaccia. Il passaggio all’ atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell’ unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto – di vita e di morte – sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’ amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione.
Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per tee dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione). Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l’ incontro con l’ Altro, mentre riducendosia pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’ incontro viene rotto da un vandalismo osceno.
Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C’ è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l’ incarnazione del limite, ma è anche l’ incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente – simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine. Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’ avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’ appropriazione dell’ oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull’ “idiozia del fallo”, quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente “etero”; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’ incontro con questo godimento “infinito” dichiarandole “tutte puttane”. E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riesconoa governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’ illuminismo assimilavano la donna all’ ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.
E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E’ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza – anche quando viene esercitata da uomini potenti – non esprime solo l’ arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un veroe proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’ amore, quando c’ è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l’ altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’ impresa contro la sua natura fallica,è poter amare l’ etero, l’ Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola”.

88 pensieri su “LA CAPACITA' DI RESTARE SOLI

  1. Rob, l’argomentazione per quanto implicita è chiara:
    Un buon padre si prende cura dei figli.
    Portare a scuola i figli è un comportamento di cura verso di loro.
    Portare a scuola figli è indizio di essere un buon padre.
    .
    Cosa ci sarebbe di poco obiettivo?

  2. Sono sconcertata dal dibattito sulla psicologia, che rimanda a categorie ampiamente superate dalla pratica clinica. E, pur non essendo parte in causa, mi sembra poco serio non ammettere la propria ignoranza in un campo in ci sono state e ci sono evoluzioni continue. Non si diventa clinici leggendo i padri e le madri della psicoanalisi – anche se male non fa.
    Bisogna farsi una ragione – dal poco che ne capisco – che le relazioni pericolose sono innescate da due diversi assetti che si incastrano. Questo non assolve chi ammazza e non colpevolizza la vittima. Sarebbe utile, alle donne per esempio, sapere se sono vulnerabili da questo punto di vista, così come lo sarebbe agli uomini se potessero/volessero accedere a centri specializzati.
    Per quanto riguarda l’analisi dell’articolo, gran parte della cronaca nera è così concepita: infanticidi, delitti tra persone dello stesso sesso, violenze in famiglia. Non è un linguaggio dedicato specificamente all’uccisione di donne da parte del loro partner.

  3. Sono sconcertata un po’ anche io, anche se lo prevedevo.
    Vediamo se si riesce a rifare il punto con questo (che non riguarda la psicologia, ma l’informazione)
    Raccomandazioni della Federazione
    internazionale dei giornalisti – Ifj
    per l’informazione sulla violenza contro le donne
    1. Identificare la violenza inflitta alle donne in maniera esatta attraverso la definizione internazionale inclusa nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 circa l’eliminazione della violenza nei confronti delle donne.
    2. Utilizzare un linguaggio esatto e libero da pregiudi. Ad esempio, uno stupro o un tentato stupro non possono venire assimilati ad una normale relazione sessuale; inoltre il traffico di donne non va confuso con la prostituzione. I giornalisti dovranno riflettere sul grado di dettagli che desiderano rivelare. L’eccesso di dettagli rischia di far precipitare il reportage nel sensazionalismo. Così come l’assenza di dettagli rischia di ridurre o banalizzare la gravità della situazione. Evitare di colpevolizzare in qualche modo la persona sopravvissuta alla violenza (“se l’è cercata”) o di far intendere che è responsabile degli attacchi o degli atti di violenza subiti.
    3. Le persone colpite da questo genere di trauma non sempre desiderano venir definite “vittime”, a meno che non utilizzino esse stesse questa parola. Venir etichettati può infatti far molto male. Un termine più appropriato potrebbe essere “sopravvissuta”.
    4. Un reportage responsabile implica l’assunzione dei bisogni della sopravvissuta anche al di là dell’intervista. E’ opportuno che l’intervistatrice sia una donna. Il luogo dell’intervista dev’essere sicuro e riservato, nella consapevolezza che può innescare un dramma sociale. Sta ai media evitare di esporre la persona intervistata ad ulteriori abusi: certi comportamenti ne possono mettere a rischio la qualità della vita e la posizione in seno alla comunità d’appartenenza.
    5. Trattare la sopravvissuta con rispetto. Informandola cioè, in maniera completa e dettagliata, circa i soggetti citati nel corso dell’intervista e le modalità d’utilizzazione dell’intervista stessa. Le sopravvissute hanno il diritto di rifiutarsi sia di rispondere alle domande sia di divulgare informazioni ulteriori rispetto a quelle che desiderano rivelare. Il giornalista deve lasciare alla persona intervistata le proprie coordinate, per permetterle di ritornare in contatto se lo desidera o ne ha necessità.
    6. L’uso di statistiche e informazioni sull’ambito sociale permette di collocare la violenza nel proprio contesto, entro una comunità o un conflitto. I lettori e gli spettatori hanno bisogno di un’informazione su larga scala. Utilizzare l’opinione di esperti, come quelli dei DART (Centri post-traumatici), amplifica la comprensione del pubblico e fornisce informazioni precise ed utili, contribuendo a sconfiggere l’idea che la violenza contro le donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile.
    7. Raccontare la vicenda per intero: spesso i media isolano degli incidenti specifici e si concentrano sul loro aspetto tragico. Sarebbe invece conveniente mostrare anche come la violenza s’iscriva in un problema sociale ricorrente, proprio d’una guerra o della storia d’una comunità.
    8. Difendere la riservatezza: fra i doveri etici dei giornalisti c’è la responsabilità di non citare i nomi o identificare i luoghi la cui identificazione potrebbe mettere a rischio la sicurezza e l serenità dei sopravvissuti e dei loro testimoni. Una posta particolarmente importante allorché i responsabili della violenza sono forze dell’ordine, forze armate impegnate in un conflitto, funzionari di uno stato o d’un governo o infine membri di organizzazioni potenti.
    9. Utilizzare le fonti locali: i media che assumono informazioni da esperti, organizzazioni di donne o territoriali su quali possano essere le migliori tecniche d’intervista, le domande opportune e le regole del posto otterranno buoni risultati ed eviteranno situazioni imbarazzanti o ostili; come ad esempio che un cameraman o un giornalista s’introducano in spazi appartati. Da qui l’utilità d’informarsi precedentemente su costumi e contesti culturali locali.
    10. Fornire informazioni utili: un reportage che citi recapiti e coordinate degli intermediari, delle organizzazioni e dei servizi d’assistenza svolge una funzione utile e spesso vitale nei confronti dei sopravvissuti, di testimoni e loro familiari, ma anche di tutte le altre persone che potranno venire colpite da un’analoga violenza.

  4. Barbara scrive:
    “Bisogna farsi una ragione – dal poco che ne capisco – che le relazioni pericolose sono innescate da due diversi assetti che si incastrano. Questo non assolve chi ammazza e non colpevolizza la vittima. Sarebbe utile, alle donne per esempio, sapere se sono vulnerabili da questo punto di vista …”
    .
    Secondo me si fa una confusione che non è utile tra ruolo dello psichiatra/psicologo.
    Un conto è dare il potere al professionista di applicare delle categorie discutibili e proteiformi come i disturbi della personalità (e molto discusse nell’ambito psichiatrico) con una forza normativa essendo patologizzanti.
    Un altro conto è un professionista che fa attività di supporto psicologico. Aiutare a riconoscere degli aspetti di vulnerabilità, è un’attività del secondo tipo, non normativa né colpevolizzante per la vittima.

  5. Le raccomandazioni della Federazione internazionale dei giornalisti, appena postate, sono fatte molto bene. Utili anche per impostare razionalmente un giudizio su un testo giornalistico. Grazie, a me piacciono queste cose.

  6. @ Michela Murgia
    in merito alla tua risposta al mio commento credo che sei nuovamente in errore. azzardare un’ipotesi per il movente non nasconde per forza di cose un sottotesto, e in particolare il sottotesto di cui tu sei certa. ancor meno consente di escludere le opzioni odio e desiderio di sopraffazione, che sarebbero comunque ipotesi equivalenti. nel sottotesto che proponi tra l’altro si nasconde invece l’inconsistenza della tua tesi. dichiarare che il movente è unicamente l’odio e la sopraffazione, mette queste due cause nella casella patologia, quindi avremmo articoli che azzardano ipotesi di concausa di tipo “patologico-culturale”, solo più esatte, a voler seguire la tua tesi. quindi direi che azzardare ipotesi di qualsiasi tipo non sottende alcuna volontà assolutoria.

  7. Anche a me sembra che la lista di raccomandazioni della Ifj faccia il punto in modo chiaro e utile. Apprezzo soprattutto il fatto che sia propositiva e non categorica, e per l´appunto aggiunge e non toglie.

  8. secondo me, dire che l’assassino aveva dei problemi psicologici non è come dire “la vittima portava la minigonna”, piuttosto è come dire “l’accusato era stato licenziato perché guardava you porn sul lavoro e aveva molestato alcune colleghe.” Narrativamente, serve a inquadrare il personaggio.

  9. parto da una domanda: il carcere serve? e soprattutto, serve a chi si è reso colpevole di violenza verso le donne?
    Fatta questa premessa, aggiungo allora una raccomandazione ai giornalisti e lo faccio a ragion veduta, per esperienza.
    Ci sono giornalisti – io ne ho conosciuto uno ad esempio – che, spinti dal desiderio di vedere “finalmente” in galera uomini che reiteratamente si sono resi colpevoli di atti di violenza o tentata violenza verso donne e che sono sempre riusciti a cavarsela con poco, scrivono articoli tirando in ballo non solo le vittime principali ma anche altre persone, non direttamente colpite da quel tipo di violenza ma che ugualmente hanno avuto a che fare con quell’uomo e alle quali quello stesso uomo ha comunque arrecato dolore e guai e che magari quello stesso uomo hanno querelato.
    Potrebbe trattarsi anche di buona fede e di comportamento motivato dalle migliori intenzioni, ma non si fa.

  10. Michela mettiamola così sorvolando sulla solfa della narrazione scientifica come forma di narrazione, assunto su cui la riflessione in tema è andata parecchio oltre da un bel po’ anche perchè se no, non si potrebbe combinare una minchia e non ci si capirebbe tra clinici e operatori, per cui esiste una narrazione maggioritaria che scavalca i relativismi e che fa affidamento sui numeri della ricerca sperimentale, a parte questo – ma non troppo. Prendo atto della divergenza di opinioni, capisco il tuo punto e l’approccio e lo condivido parzialmente. Dietro mi rimane la sensazione di una logica che non riguarda le strutture narrative ma gli approcci mentali con cui si affronta la questione, in virtù dei quali ciò che è prioritario per te, non lo è per me. Ma capita insomma non è sicuramente grave per entrambe 🙂

  11. “esiste una narrazione maggioritaria che scavalca i relativismi e che fa affidamento sui numeri della ricerca sperimentale” [Zauberei]
    .
    I maschi risultano più bravi delle femmine nei test matematici. Dunque è insensato spendere soldi per far studiare materie scientifiche alle femmine. Questo è un esempio di affidamento sui numeri della ricerca sperimentale. Continuo a ripetere che purtroppo il campo del genere sta dentro un cono d’ombra scientifico, molto più che altri campi di ricerca.
    .
    Chiaramente qui nessuno sostiene che non sia possibile produrre delle teorie che riescono a spiegare i fatti, teorie che servono per agire. Questa posizione corrisponderebbe a un nihilismo incondivisibile.
    Un conto è riconoscere il valore dello scetticismo e anche di certi metodi ‘anarchici’ nel progresso scientifico. Un altro conto è essere nihilisti. Quindi benvengano discorsi di scetticismo sul sapere psichiatrico.
    .
    Quanto agli “approcci mentali” diversi, a differenza del tuo personaggio di paglia, sono convinto che sia possibile costruire un discorso condiviso, condividendo prima alcune regole di ragionevolezza. Chiaramente non si può fare qui, è troppo complesso. Qui al massimo si lascia un’opinione.

  12. ” … sorvolando sulla solfa della narrazione scientifica come forma di narrazione, assunto su cui la riflessione in tema è andata parecchio oltre da un bel po’ anche perché se no, non si potrebbe combinare una minchia e non ci si capirebbe tra clinici e operatori …” [Zauberei]
    .
    Da un discorso come questo potrebbe sembrare che tra i clinici ci sia condivisione nel modo di trattare i cosiddetti disturbi della personalità. Chiaramente non è così, le idee sul modo di trattarli sono ancora più proteiformi dell’individuazione dei disturbi stessi. Ognuno ha le sue convinzioni, tutti meno il paziente che essendo per definizione privo di sguardo sopra di sé, può solo subire le convinzioni di altri. Immagino una donna maltrattata invitata a prendere consapevolezza del proprio ‘disturbo’, simmetrico a quello del maltrattante, inviatata da Tizio a fare questo, da Caio a fare quell’altro avendo individuato una sfumatura del comportamento sfuggita a Tizio, invitata da Sempronio a prendere dei famaci perché la terapia di Tizio non lo convince, e comunque rinvenendo un criterio diagnostico che nelle nosografie di Tizio e Caio non compare. Cosa condividono davvero Tizio, Caio e Sempronio? Forse qualche dato sulla frequenza.

  13. Andrea, perdona. Il mio mestiere è un altro ma ho avuto la ventura di avere amici con parenti afflitti da serie patologie psichiatriche (mi scuso se il termine non è corretto) e sono state – per fortuna, avendo le famiglie le risorse in prima istanza culturali per chiedere aiuto – ottimamente curate. Si tratta, da quanto ho visto, di processi lunghi e integrati. La pratica clinica ha fatto enormi passi avanti. Possiamo tirarcela con la teoria ma attenzione a non lanciare messaggi fuorvianti che lasciano la gente disarmata. Il tuo discorso, come ricaduta pratica, mi ricorda quelli che rifiutano la chemio e vanno dal santone.

  14. Barbara sulle patologie serie, sono d’accordo. Il mio dubbio riguarda appunto non lasciare disarmate persone cui vengono attribuite patologie di discutibile serietà, ed entrano in un vortice di psicoterapie e farmaci.
    L’argomento che la pratica clinica ha fatto dei progessi è anche buono, ma molto dipende dalle persone che applicano concretamente quella pratica clinica.
    Inoltre, se la pratica clinica fa dei progressi è esercitando il dubbio sulla pratica clinica. Non bisogna smettere lo scetticismo, come se tutto fosse acquisito.

  15. Un’altra cosa: “Il tuo discorso, come ricaduta pratica, mi ricorda quelli che rifiutano la chemio e vanno dal santone.”
    .
    E’ curioso che tu dica questo, perché chi fa appello a criteri di verifica scientifica sono proprio io. Anche a me stanno sulle scatole i ‘santoni’.
    A ogni modo trovo giusto che tu dica che il mio discorso può essere frainteso. Sicuramente si è un po’ polarizzato come estremo opposto a ciò che dice Zauberei, questo non contribuisce a far passare il mio punto di vista che è molto meno antagonista di quel che sembra.

  16. Cerco di rispondere alle obbiezioni mosse da andrea barbieri rimanendo nel topic – dal quale mi sa ci siamo un po’ allontanati.
    Andrea mi riesce difficile non avere un tono antipatico e supponente ti chiedo scusa in anticipo, ma un po’ è un mio difetto congenito ma un po’ è che si legge da quello che scrivi che ignori molte cose, parli per luoghi comuni e sfondi porte aperte, non hai esperienze e conoscenze da rivendicare e questo salta all’occhio. Alcune cose per punti.
    Intanto, non è che le critiche di ordine epistemologico provenienti dagli studi di genere siano ignorate dalla ricerca psicodinamica, queste critiche popolano le riviste psicologiche da diversi decenni – e ci sono periodici dedicati esclusivamente a questo, o quasi queste critiche sono tesaurizzate e sono un ottimo grimaldello per controllare la validità psicometrica degli strumenti di ricerca. Anche l’epochè foucoultiana è roba che si somministra agli studenti del primo anno. Dopo di che si deve necessariamente procedere all’elaborazione di un contratto sociale, a un linguaggio comune per cui ci si capisca tra colleghi. E non so in base a quale esperienza concreta tu pensi che la sintassi del DSM IV non produca una comprensione reciproca. Perchè invece tra colleghi ci si capisce a perfezione e si lavora ormai in sinergia molto bene. Io sono Junghiana e lavoro su tre fronti con una collega post freudiana per la depressione post partum, con uno psichiatra cognitivista in uno studio privato, con dei familiaristi in un centro di psicoterapia integrata. Nè c’è mai nei CIM o nei reparti psichiatrici il minimo problema su questo punto, ossia le diagnosi – oramai si creano convergenze anche sulle cure e sulle prevenzioni.
    I disturbi di personalità sono un asse del DSM manco una patologia quindi ma una classe piuttosto ampia di patologie, sui quali nella mia esperienza di lavoro mi pare c’è largo accordo. Ci sono dei parametri di massima ampiamente condivisi da diverso tempo, e sulla gravità di alcune di quelle diagnosi e sulla immane sofferenza a cui si accompagnano c’è accordo assoluto. Un disturbo borderline di personalità, un disturbo istrionico, un disturbo paranoideo sono degli assetti molto molto complicati da sostenere e ahimè da contenere. Quindi in ultima analisi, trovo che dire che la diagnosi sia una categoria stregonesca, che non ci sia accordo tra clinici nel farla, sono asserzioni che possono essere prodotte solo da chi manca di dati concreti.
    Tornando al topic il problema è piuttosto come utilizzare in modo produttivo queste competenze, e sopportare l’attrito emotivo che comporta sapere che una persona si è resa colpevole di reato e il fatto che può essere con grande probabilità responsabile di quel reato in virtù di una psicopatologia significativa. Si teme che citare l’eventualità di una psicopatologia significativa equivalga a eliminare la responsabilità penale, e ci si accorge che – sulla stampa – spesso una psicologia spicciola viene utilizzata proprio in questo modo. O si teme. Io non ho letto l’articolo di Recalcati per esempio in questo modo. Altri interventi certamente si.
    Questa questione si interseca con un problema che riguarda la nostra mentalità in merito alla psichiatria forense. Noi pensiamo che la psicopatologia sia concepibile in termini di depresso si e depresso no, oppure psicotico si e psicotico no. Cioè noi concepiamo la psicopatologia o come un disturbo dell’umore, o come un eventuale deficit cognitivo. I disturbi di personalità sono però quelli costantemente dietro a questa classe di episodi criminali – come altri a sfondo per esempio razzista – ma rappresentano un campo di malessere diverso dal pensare comune completamente scotomizzato, e per quanto ne so io anche dal pensare giuridico. Sono patologie delle emozioni e dello stare nelle relazioni per cui si fa fatica a vedere il problema risultando queste persone relativamente congrue nelle reazioni e nell’adattabilità sociale. A me pare un’occasione mancata non utilizzare questa griglia teorica soprattutto nella prevenzione, e nell’eventuale lavoro con maschi adolescenti. Il discorso senza questo aspetto continua a sembrarmi monco.

  17. Intervengo anche qui per segnalare un articolo letto per caso (al bar) su “Donna moderna”, che parla proprio della presa di coscienza degli uomini in merito alla violenza. Si riportavano le testimonianze di alcuni uomini che stanno curando la loro aggressività in questo centro a Firenze: http://www.centrouominimaltrattanti.org .Che ve ne pare? Segno di un cambiamento possibile?

  18. Zauberei, allora le tesi sono due.
    La tua tesi – mi permetto di riassumerla – è questa: la categoria dei disturbi della personalità del DSM-IV è consolidata e univoca. Le terapie sono grandemente condivise, finanche per il cosiddetto ‘disturbo borderline della personalità’. Sono lo strumento giusto per affrontare la violenza di genere.
    Ti appoggi su due argomenti:
    – l’esperienza del tuo ambito lavorativo
    – la supposizione che io non so nulla (questo secondo me non è un buon argomento per dimostrare una tua tesi).
    .
    La mia tesi è questa: I disturbi di personalità sono una categoria controversa per la complessità dei sintomi e perché risulterebbero prodotti da cause multifattoriali difficili da distinguere e valutare.
    Le terapie non sono affatto univoche. Forse addirittura impossibili da trattare.
    Oltre a essere patologie controverse, hanno una forte portata pragmatica, giustificazionista nel caso dell’aggressore e stigmatizzante nel caso della vittima. Mi pare ragionevole avere dei dubbi nell’utilizzarli come strumenti in caso di violenza di genere.
    Non ho pezze pronte su cui appoggiarmi per discorsi così tecnici, ho soltanto la fiducia che riuscirei a trovare materiale che conferma la mia critica. Mi rendo conto, non è una prova ma una credenza.
    .
    Detto questo mi fa piacere che tu possa trovare riviste di settore dove c’è l”epoché foucaultiana” di cui si rendono edotti gli studenti, e addirittura la “critica epistemologica”, e persino che tutto ciò, tesaurizzato a dovere, sia il “grimaldello della validità psicometrica”. Anche se leggere frasi come “non so in base a quale esperienza concreta tu pensi che la sintassi del DSM IV non produca una comprensione reciproca” mi fa un po’ dubitare della profondità della critica epistemologica, perché chiaramente il problema non è la sintassi, ma come si arriva alla sintassi.
    A ogni modo davvero mi fa piacere che in quarant’anni qualcosa sia penetrato. Purtroppo temo che i passi avanti della psichiatria siano merito di altri campi del sapere.
    Poi, sarà un mio limite, ma quando sento dell’invidia del pene o dell’utero, mi viene da pensare a stregoni privati dell’eleganza fantastica dei loro copricapi.

  19. Laura V., sarebbe interessante un centro in cui gli psichiatri e gli psicanalisti parlino della loro aggressività, anche se una presa di coscienza non significa necessariamente una messa in discussione del problema. ;))
    La differenza fondamentale dei centri di ascolto per le donne e quelli per gli uomini è, credo, che quelli per le donne nascono da una necessità condivisa e un riconoscimento atavico di certi problemi, cosa che non si trova che occasionalmente tra gli uomini, si tratta quindi di forme sollecitate da iniziative politiche, culturali o cliniche.
    Non dico che non possano servire a certi uomini, a dar loro gli strumenti per frenare l’aggressività e imparare modi più umani di relazione, ma questo sucede anche al di fuori di queste iniziative, solo che non è monitorabile, non sappiamo quanti sono gli uomini con tendenze violente che vincono la loro furia, e in più chi si rivolge a questi centri ha già in se un germe, riconosce la sua violenza come sbagliata e non come espressione del fatto che ha sempre ragione.
    I miei stessi pensieri violenti d’altronde a volte mi atterriscono, anche se non sono indirizzati alle donne, e grazie al cielo rimangono pensieri e non si traducono in atti, “ogni uomo è un abisso, fa paura guardarci dentro” ha scritto Buchner.
    Le sfumature della violenza sono tante e spesso chi la esprime abitualmente è meno pericoloso di chi la reprime, nel senso che è prevedibile, quindi se c’è la volontà, prevenibile.
    Quello che è difficile da capire è perchè la violenza esiste, noi camminiamo sul sangue versato da millenni, in guerre, uccisioni, sopraffazioni, schiavitù, persecuzioni e frustrazioni.
    Non c’è una sola data sui libri di storia che non sia collegata ad una carneficina, e gli uomini e le donne che si rifiutano di cedere a questa endemica follia, sono sempre nel mezzo di un limite, mai su un terreno bonificato, mai in una terra promessa.
    Ma c’è una follia buona nell’essere umano, che non lo fa arrendere neanche davanti all’evidenza più negativa, e spera sempre, in faccia ai numeri e alle statistiche degli specialisti e dei tecnici.

  20. Comunque diciamo anche che quei centri offrono un servizio di sostegno psicologico, che è ben diverso da ciò che abbiamo discusso. A mio parere il professionista nel ruolo di aiuto, sostegno, counseller può essere davvero prezioso. Quindi non butterei via gli psicologi, anzi…
    Le mie perplessità sono sullo psichiatra (e può farlo lo psichiatra non il semplice psicologo) che dsm alla mano diagnostica disturbi mentali dalle definizioni proteiformi (ciascuno può constatarlo leggendosi le definizioni del dsm sui disturbi della personalità). Lo dico soprattutto pensando alla vittima.

  21. Che senso ha discutere Andrea con uno che dice che si fa le opinioni in base a delle credenze! De sto passo dissertiamo pure sull’asini che volano! E sinceramente, a me la scotomizzazione dell’aggressività mi fa un po’ ridere. Ma perchè Prandiani chi fa un lavoro di alta specializzazione, con un impegno di formazione altissimo e un dispendio emotivo molto grande, deve rispondere serafico e conciliante a uno che dice che è dedito alla stregoneria sulla base, per sua stessa ammissione, di pregiudizi? me lo dovete spiegare. Non capisco se secondo questo pensiero non ci si debba arrabbiare mai, o se ci sono argomenti che hanno un diritto che altri invece non hanno. Per me è importante non oltrepassare il limite, ma se qualcuno si muove animato da ignoranza e tracotanza, beh mi spiace non sono madre teresa di calcutta.
    A me il DSM pare molto chiaro in merito ai disturbi di personalità. E’ un vocabolario un indice e null’altro, sulla quale ho trovato posto anche io come paziente in passato e toh non ne sono morta. Si confonde l’uso malaccorto di uno strumento con lo strumento medesimo, e all’uopo si decide che un’intera categoria professionale lo usi in quel certo modo. Un errore logico che si applica in molti campi del resto, ma sempre ignorando in nome della libertà di opinione disinformata, lo scacco e la necessità in cui mette il malessere altrui. In questi termini per quanto mi riguarda temo di non avere molto da aggiungere. Oltre tutto ci siamo allontanati dal topic veramente troppo.

  22. “Che senso ha discutere Andrea con uno che dice che si fa le opinioni in base a delle credenze! De sto passo dissertiamo pure sull’asini che volano!”
    .
    Ho delle intuizioni, credo siano sensate, quindi credo sia sensato parlarne. Comunque, per esempio, qui
    http://www.neurolinguistic.com/proxima/articoli/art-53.htm
    trovi un articolo scientifico sui disturbi della personalità in cui si legge:
    “Senza dubbio, ancor oggi [l’articolo è del 1999], l’inquadramento diagnostico dei disturbi di personalità offre notevoli difficoltà, tanto che rimane ancora valida l’osservazione di Prins (1988), secondo cui tale gruppo nosologico rappresenta il tallone d’Achille della psichiatria.”
    E leggendo tutto l’articolo, che è molto tecnico ma insomma ci si può riuscire, capiamo a cosa si riferisce la parola ‘difficoltà’.
    Ritengo che esista altro materiale di questo tipo, del resto se ci pensi sei proprio tu a confermarmelo, perché continuamente ribadisci che c’è parecchio controllo, interno ma con strumenti multidisciplinari, sul sapere psichiatrico. Insomma ciò che tu comunichi a me “è tutto chiaro”, all’interno della psichiatria è insostenibile (del resto ritengo basterebbe leggere i lavori delle varie commissioni che producono il dsm per avere una dimensione della mediazione). Insomma sullo stesso oggetto esistono due discorsi diversi, quello per gli ‘adepti’ orientato alla verità; quello per il pubblico orientato alla pragmatica. Vorrei che non fosse così.
    .
    Sulla psicanalisi, psicodinamica, eccetera ammetto di avere un forte pregiudizio perché continua a sembrarmi un discorso inverificabile. Non che tutti i discorsi debbano per forza essere prima legittimati dalla verificabilità, però come osservi tu, c’è il rischio di far volare gli asini. Quindi quando ti leggo divido in due. Ciò che riguarda le spiegazioni simboliche non mi convince, invece trovo interessanti certi strumenti più concreti che tu possiedi, utili per liberare il campo da certi trabocchetti mentali.
    Quanto a tutto quello che sostengo, non tocca il tuo lavoro. Cioè non ho motivo di dubitare che tu riesca a fare qualcosa per la sofferenza psichica degli individui. Quindi non sto dicendo che tu hai speso male il tuo tempo dedicandoti a quello che fai.

  23. Barbieri, si legga “L’infezione psicanalitica” di Evola, raccolta di scritti appena ripubblicati dalla Fondazione Julius Evola (Quaderni n47, Controcorrente, 2012): ci troverà le radici fasciste dell’attuale scetticismo ideologico-reazionario nei confronti della psicoanalisi. Da notarsi il titolo “infezione” che è il titolo di uno degli articoli (1970) e che rimane uno slogan propagandistico del quale evidentemente si sente il bisogno oggi come appunto negli anni Settanta.

  24. Mah Barbieri, a parte l’eccesso di stima verso le tue intuizioni, se vuoi ti trovo pure un po’ di bibliografia sugli asini che volano. All’atto pratico, la diagnosi in questione ha una sua funzionalità, relativa perchè poi si lavora con ben altro, ma almeno per capirsi serve. Di poi, il controllo psicometrico non è prova di mancanza di chiarezza, ma di sorveglianza nel reperire parametri di intervento e accuratezza nell’applicarli. Ma tu ragioni non per conoscenze per pregiudizi, ai quali cerchi argomentazioni funzionali – se questi controlli non ci fossero – diresti che la chiarezza è indebita perchè non comprovata.
    Infine – da almeno 30/40 anni a questa parte esiste una ricerca standardizzata sulla validazione dei costrutti analitici, è in atto ancora e sta andando avanti. Ha cassato dei costrutti – ma te che ne poi sapè sei fermo a checco e nino – e promosso altri. E’ che sei rimasto agli anni 50 – un problema non solo tuo ma di tutti quelli che si fanno un’idea solo in base ai media italiani va detto – e te pensi di parlare di contemporaneità.

  25. Quindi anch’io che sono uno scettico nei confronti della psicanalisi sarei un fascista ideologico razionario?
    Di tutti icoglioni a cui non vorrei mai essere associato, Evola sta vicino alla vetta, ma fa in fretta ad essere superato.
    D’altronde è abbastanza tipico degli ideologi di razza neutralizzare il punto di vista diverso e il dissenso altrui, associandoli a casi estremi di farneticazione politico spiritualistica.
    C’è stato un tempo in cui se qualcuno esprimeva un pensiero appena appena strutturato gli si rispondeva; non sarei così talebano.
    Mi avete fatto diventare simpatico andrea barbieri.

  26. “Quindi anch’io che…” etc.
    Ma pensi un po’ quel che le pare, mio caro Pandiani. Ho segnalato un dato storico e culturale, un dato oggettivo che riguarda un certo pensiero reazionario che ha influito pesantemente sulla nostra cultura; peraltro, al di là della Sua (di Pandiani) spiccia demagogia in forma di replica, pensiero assolutamente diffuso anche nella cosiddetta “sinistra” oltre che tra i cosiddetti “cattolici”.

  27. Zauberei, ti ripeto: l’immagine di uno psichiatra che attende dentro il centro antiviolenza una donna maltrattata per attribuirle la patente di normalità mi risulta difficile da digerire. Preferisco degli psicologi che fanno supporto, come del resto è ovunque.
    Così come mi risulta difficile da digerire lo psichiatra che attribuisce una patente di anormalità patologica a un comportamento di abuso da parte di un uomo, che istantaneamente si trasforma da carnefice, in vittima della propria presunta ‘malattia’ pur essendo perfettamente in grado di intendere e volere.
    Questo è il cuore di quello che vorrei dire:
    A maggior ragione se tu ritieni le mie argomentazioni “funzionali a”, insomma strumentali, dovresti non buttarti lancia in resta contro quelle e contro di me, per cogliere il cuore di quello che dico.
    Un’altra cosa poi chiudo, sopra ho usato il termine ‘stregone’. E’ un termine che non ho inventato io in questo uso particolare. Però tieni presente che non si riferisce in generale ai professionisti, ma a quelle relazioni gerarchiche il cui il professionista si trova a esercitare un potere sul ‘paziente’. Come ho scritto alcune volte sopra, é lontana da me l’idea che la psicologia debba essere buttata, penso esattamente l’opposto.

  28. Luziferszorn, è un po’ forte dipingermi implicitamente come fascista perché ho delle perplessità sulle spiegazioni simboliche di psicoanalisi e affini.
    Alcuni anni fa una mia collega, psicologa di un centro antiviolenza, iniziò la terapia biennale richiesta dalla SPI. Io le dissi che non riuscivo a capire i discorsi simbolici della psicoanalisi. Lei rispose che bisogna fidarsi, che allora vengono alla luce le cose, che nelle sedute venivano fuori un sacco di “macerie interiori”.
    Lo ripeto, è un mio limite, ma non riesco a fidarmi. Avevo stimo di questa collega, obiettivamente molto brava nel suo lavoro. Se anche, per quel che valgono, ho delle perplessità su qualcosa, non significa che sto pensando che una persona non possa fare delle buone cose, e che la psicanalisi non serve a niente.
    Una cosa curiosa, non ho mai letto niente di Evola, per me lui è un pittore. Evola infatti aveva talento per le immagini, anche se poi è passato alla storia per la scrittura.

  29. In verità Evola è noto soprattutto come un teorico della razza, definita in senso spirituale. Ti segnalo che ha lavorato – uscendone penalmente indenne – nella sezione Razza del Ministero della cultura Popolare. Questo per i lettori che possono non conoscerlo.
    Per quanto riguarda le terapie analitiche e psichiatriche ho l’impressione che Andrea non ne conosca il funzionamento pratico e fondi la sua critica su pregiudizi o teorie ampiamente storicizzate.
    Lo psichiatra e lo psicologo nei centri antiviolenza o in altri presidi territoriali non hanno la funzione di “dare patenti” ma di ascoltare prima e vedere, poi, se e come è possibile impostare un lavoro di cura.
    E scusa se ripeto il mantra – ma poniamo io avessi una certa diffidenza verso la cardiologia, non dovrei procurarmi tutti gli strumenti (annessa laurea e specializzazione) per poter portare una critica valida?
    Ultimissima: il vero problema è il rapporto tra diritto e psichiatria/psicologia un po’ tanto datato. Ma per questo sarebbe bene parlassero gli esperti.

  30. “Lo psichiatra e lo psicologo nei centri antiviolenza o in altri presidi territoriali non hanno la funzione di “dare patenti” ma di ascoltare prima e vedere, poi, se e come è possibile impostare un lavoro di cura.” [Barbara]
    .
    Dove ero io, non c’è mai stato uno psichiatra. C’erano delle psicologhe e alcune educatrici. E un servizio di orientamento legale di avvocatesse. Poi è chiaro che essendo i servizi sociali integrati, si può ricorrere a uno psichiatra.
    .
    .
    “poniamo io avessi una certa diffidenza verso la cardiologia, non dovrei procurarmi tutti gli strumenti (annessa laurea e specializzazione) per poter portare una critica valida?”
    .
    Un protocollo medico ha degli aspetti tecnici per i quali sicuramente hai ragione; ma può avere anche aspetti che toccano la dignità umana, in questo caso la tua non sarebbe una conclusione ragionevole (pensa per esempio alla questione del fine-vita).
    Nella psichiatria la questione della dignità umana è centrale perché si incide sulla libertà dell’individuo. Non sarebbe ragionevole legittimare soltanto le critiche prodotte dagli addetti ai lavori. Infatti la psichiatria stessa si è dotata di strumenti per raccogliere le critiche ‘esterne’ in relazione per esempio alla formazione del dsm.
    .
    .
    “Ultimissima: il vero problema è il rapporto tra diritto e psichiatria/psicologia un po’ tanto datato. Ma per questo sarebbe bene parlassero gli esperti.”
    .
    Beh se non erro l’ho introdotto io in una recente discussione (anzi mi sa che eri intervenuta subito dopo proprio tu con un messaggio simile a questo), perché tra le mie fisse c’è il diritto penale (ho una laurea orientata su quello). Quindi dai, non mi rimproverare soltanto.
    Comunque anche nel campo del diritto, occhio a fidarsi dell”esperto’. Perché il diritto non è mai una o un gruppo di norme, ma un sistema, che al vertice pone dei principi su cosa è ‘giusto’. Può darsi per esempio che l’iter logico di un provvedimento trovi la chiave in un’intuizione prodotta da chi è sprovveduto nel diritto, ma non nell’idea di cosa è bene. Non sempre l”esperto’ ci arriva, magari sa solo portare avanti una cattiva prassi giuridica.

  31. Per chi si volesse fare un’idea di come vengono diagnosticati i DP (disturbi dlla personalità), qui
    http://www.psychiatryonline.it/ital/scale/cap22-3.htm
    c’è un articolo [2008] molto puntuale in cui si espongono problemi e tipologie di test per la diagnosi.
    Nell’articolo si legge tra l’altro:
    “La valutazione standardizzata dei DP, per quanto abbia avuto un significativo sviluppo positivo, presenta ancora alcuni problemi in diversi settori.”
    .
    “Nonostante gli innegabili progressi compiuti nel campo della valutazione standardizzata dei DP, siamo ancora ben lontani dall’avere raggiunto un generale consenso tanto sui metodi di valutazione quanto, soprattutto, sul tipo e sul numero delle dimensioni necessarie a descrivere i DP.”
    .
    “L’affidabilità diagnostica dei DP sarebbe pertanto correlata con la prototipicità dei pazienti: quanto più un paziente soddisfa, su base clinica, i criteri diagnostici, tanto più i suoi punteggi saranno al di sopra della soglia diagnostica alle valutazioni standardizzare.”
    .
    Dall’articolo imparo che per alcuni test-intervista diagnostici si può ricorrere a un ‘informant’, una persona vicina al paziente che faccia da informatore per verificare l’intervista. Se ritenuto più attendibile, prevale l’informant sul paziente.

  32. Nella diagnosi dei disturbi della personalità viene utilizzato anche il discusso test di Rorschach.
    .
    Qui un articolo e un saggio fortemente critici su questo test proiettivo:
    http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010429.htm (di Roberto Casati)
    http://www.psychologicalscience.org/journals/pspi/pdf/pspi1_2.pdf (questo saggio, di Scott O. Lilienfeld, James M. Wood e Howard N. Garb, pubblicato nel 2000 sulla rivista “Psychological Science in the Public Interest” prende in esame anche altri test proiettivi, “TAT” e “Human figure drawing”).
    .
    Sul test di Rorschach, lo psicologo Robyn Mason Dawes si è espresso così:
    « Ora che non sono più un membro del comitato etico dell’American Psychological Association, posso esprimere la mia opinione personale sul fatto che l’uso delle interpretazioni del [test di] Rorschach per stabilire lo stato legale di un individuo e la custodia di un bambino è la singola pratica più non-etica effettuata dai miei colleghi. È messa in atto e diffusamente. Perdere dei diritti come effetto dell’aver risposto a quello che viene presentato come un “test di immaginazione”, spesso in un contesto relativo all'”aiutare”, viola quello che io credo sia il principio etico di base nella società – il fatto che le persone sono giudicate sulla base di quello che fanno, non sulla base di come si sentono, pensano o possano avere una propensione a fare. Ed essere giudicati in base ad una valutazione errata di questi pensieri, sensazioni e propensioni, significa perdere i propri diritti civili su una base essenzialmente casuale. » [fonte wikipedia]
    .
    Qui la scheda del saggio intitolato “Scenari forensi e disturbi di personalità” di Franco Freilone, in cui tratta anche della psicodiagnosi dei disturbi di personalità in ambito forense attraverso il Rorschach.
    http://www.espressedizioni.it/catalogo/id/36
    .
    Qui un articolo di Romeo Lucioni in cui si legge tra l’altro: “bisogna per lo meno essere sicuri che il ‘valore simbolico’ risulti sufficientemente affidabile. Questo principio non è ancora del tutto assolto proprio perché ci sono profonde differenze tra le attribuzioni simbolico-funzionali adottate dai diversi autori.”
    http://www.promefit.net/lettura.pdf

  33. Così per forza di inerzia – consapevole di una certa inutilità del gesto.
    1. Il sapere psichiatrico diverge da quello psicologico per quel che concerne la parte biologica del comportamento, quindi per quel che concerne la competenza farmacologica. Donde, il dsm è manuale per entrambe le competenze e importante da conoscersi. La competenza psicologica per parte sua si fonda in buona parte sul sapere psicoanalitico. Alla fine, Barbieri tu pensi di parlare della realtà quando parli di macchiette. Psicologi senza scuola di specializzazione che lavorino presso i pubblici servizi non esistono, o sono in formazione, o sono già specializzati. La stragrande maggioranza ha una formazione analitica e te non te ne sai chiaramente accorgere. Che va bene, se dopo non si parla a casaccio.
    2. Non si deve confondere una pratica con la sua caricatura. Una persona che distribuisce patenti di qualsiasi cosa è in genere un cattivo professionista e punto. In psichiatria ce ne è a mazzi di cattivi professionisti, ma la distribuzione di cretini non varia in maniera sensibile a quella di altri ordini professionali. Ogni sistema categoriale ha un limite strutturale che è nel concetto di categoria, ivi compresi i criteri per soddisfarla. Sta all’intelligenza del clinico il modo in cui viene usata, il problema non è della categoria stessa. Ivi compreso il range di variabilità intorno al concetto di prototipo. La diagnosi serve solo per capirsi tra clinici, e certamente quando indica un’area problematica, di indicare una riflessioni di massima per quell’area di comportamenti somiglianti da quella diagnosi richiamati. Quando si pensa a progetti di prevenzione su larga scala, che sarebbero cosa buona e giusta in una democrazia sana, ha la sua grande utilità.
    A me Barbieri del cuore di quello che dici, scusami mi frega relativamente. Perchè arriva dopo un pregiudizio e una mancanza di conoscenza di cui è la conseguenza. E mo giuro che chiudo.

  34. Zauberei, tu hai sostenuto che rispetto alle diagnosi e alla psicometria non esistono più problemi. Ti ho dimostrato – a questo punto non è una credenza, è una dimostrazione – che quello che dici è inesatto, problemi ce ne sono parecchi.
    La frase “la diagnosi serve solo per capirsi tra clinici e certamente quando indica un’area problematica, di indicare una riflessioni di massima per quell’area di comportamenti somiglianti da quella diagnosi richiamati” sembra dimenticare che le diagnosi devono essere differenziali, altrimenti non è una diagnosi, è un discorso da bar.
    La frase ” il problema non è della categoria stessa. Ivi compreso il range di variabilità intorno al concetto di prototipo.” mi pare bizzarra: quando c’è un abissale range di variabilità, come nelle descrizioni dei DP, significa semplicemente che ci si capisce poco. Inoltre c’è la questione psicometria. Basta tagliare diversamente i valori psicometrici per ottenere l’incremento delle diagnosi, e va ricordato che i valori in base ai quali tagliare sono oggetto di discussione. Questo vale soprattutto per ‘disturbi’ di difficile valutazione come i DP, che possono produrre parecchi ‘falsi positivi’.
    .
    Tra l’altro un’altra tua affermazione inesatta è che gli studi di genere hanno risolto i problemi del dsm. Il dsm adotta un’antropologia basata sul binarismo sessuale, per cui ancora oggi patologizza i comportamenti che sfuggono all’ottica binaria. Questo è parecchio imbarazzante per la psichiatria.
    Sono fatti purtroppo.

  35. “Alla fine, Barbieri tu pensi di parlare della realtà quando parli di macchiette. Psicologi senza scuola di specializzazione che lavorino presso i pubblici servizi non esistono, o sono in formazione, o sono già specializzati.”
    .
    Forse sei tu che parli di macchiette al posto della realtà. Se non avessi letto frettolosamente, ti saresti accorta che ho parlato di persone in formazione, in particolare ho ricordato una mia collega che stava seguendo il percorso della SPI. C’erano anche persone già specializzate ovviamente.
    Sul punto ripeto: avere delle perplessità sulla psicanalisi (meglio: su discorsi che utilizzano il simbolico), non significa ritenere che un professionista non possa fare nulla di buono con quel sapere.
    Sarei un po’ troppo sciocco se la pensassi così, del resto sono perplesso anche sulla religione, ma vedo che molte persone credenti producono ottime cose dal punto di vista intellettuale (e umano e pratico).

  36. Qui un articolo di Massimo Ammaniti sulla revisione dei DP nell’imminete DSM V (uscirà nel 2013):
    http://forumecavolate.forum3.info/t662-il-narcisismo-non-e-piu-malattia
    .
    In qualche post sopra da ignorante – come mi definisce Zauberei – avevo fatto notare che le patologizzazioni cambiano, che un comportamento oggi ritenuto patologico potrebbe non esserlo in un futuro anche molto vicino. L’ho sostenuto anche pensando che i DP riguardano comportamenti che si discostano in modo significativo dallo standard sociale, e lo standard sociale si evolve.
    Beh, non devo essere così ignorante se nell’articolo Ammaniti scrive della futura esclusione del ‘disturbo narcisistico di personalità’ dal prossimo DSM.
    Articolo molto interessante tra l’altro.

  37. Beh Andrea, tutti i saperi progrediscono, è normale. Quante cose sono oggi superate in medicina, forse per questo se ti ammali non ti rivolgi a un medico?
    D’altronde Ammanniti non mi pare metta in discussione il Dsm in sé.
    Alla fine, tornando all’origine di questa discussione, il punto secondo me è decidere se si deve tener conto solo del politico o anche dello psichico.
    Si può decidere che quello che importa è solo la dimensione politica (e, in questa accezione, culturale). Che quel che succede negli assetti psicologici individuali non sposta nulla a livello politico. In quel caso, che un femminicida soffra di un disturbo o no, per noi sarà uguale – la lotta si svolge su un altro piano.
    Oppure, se si ammette che la dimensione psichica è una delle leve su cui poter fare prevenzione mentre parallelamente si lavora sul sistema culturale e politico, forse è meglio non aver paura di certe cose.
    Ovvero smettere per primi di usare termini quali “normalità”, “patenti”, e lavorare per cambiare nel senso comune l’accezione punitiva della psicodiagnostica.

  38. Fare prevenzione con la psicodiagnostica dici?
    Prendiamo il testo di Recalcati che Loredana giudica tanto utile e emblematico. Forse non te ne accorgi, ma è la costruzione di uno stereotipo di differenza sessuale. Se facessimo prevenzione utilizzando quello stereotipo, le persone non riuscirebbero a capire come mai oggi una donna ha ucciso il marito evirandolo: lo stereotipo fallisce addirittura ribaltandosi.
    Cosa facciamo, chiamiamo ancora l’esperto in psicoanalisi /psicodinamica a arzigogolare lo stereotipo per far tornare i conti?
    Credo sia meglio iniziare a pensare che lo stereotipo (quello come tanti altri) alla prova dei fatti non regge..
    La realtà è che si è ancora tutti più o meno imbevuti di un modo di pensare i generi che è indietro trent’anni cioè il tempo in cui gli studi di genere hanno tardato ad arrivare in Italia.
    Qualche giorno fa ho cercato nel colonnino dei link di Lipperatura l’associazione Maschile Plurale. Non c’è! Ero sbalordito, si bavarda tanto che “Gli i maschi dovrebbero parlare, dovrebbero criticarsi, prendere le distanze”, e poi quando c’è un’associazione che fa un bellissimo lavoro, un lavoro che è davvero una delle poche realtà avanzate in Italia, niente, zero, non ci si connette con loro, giusto fanno capolino casualmente in qualche articolo.
    .
    E sai secondo me perché? Perché lo stereotipo sul comportamento maschile è talmente forte, che quelli di Maschile Plurale sembrano un po’ ‘strani’, e in fondo gli strani si preferisce lasciarli a casa loro.
    Li linko io allora:
    http://maschileplurale.it/cms/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto