LA SCUOLA DI CHI?

Giorni, anche, contrassegnati da una polemica fra Tullio De Mauro e Paola Mastrocola: a mio parere significativa di due diversissimi modi di concepire la scuola. Riporto gli articoli dal Corriere della Sera.
16 maggio: De Mauro al Salone del Libro
Sbaglia Paola Mastrocola, nel suo pamphlet Togliamo il disturbo, a criticare pesantemente la scuola pubblica, che per la verità viene attaccata anche da autorevoli ministri della Repubblica e dal presidente del Consiglio». All’incontro dedicato «Alle origini dell’identità italiana» che ieri mattina ha aperto la terza giornata di questo ventiquattresimo Salone del libro, Tullio De Mauro, storico della lingua e ministro della Pubblica istruzione nel governo Amato, non ha esitato a definire la scuola pubblica «primo baluardo» del nostro Paese. Un baluardo da difendere nonostante i limiti, perché il panorama generale è davvero desolante: «Il 5 per cento degli italiani adulti – ha detto De Mauro – ha difficoltà a riconoscere alcune lettere dell’alfabeto, un 33% le sa mettere assieme ma capisce a stento il senso delle parole, un altro 33% ha un livello di comprensione molto basso. Arriviamo a un 71%, secondo le stime più ottimistiche, di persone che hanno difficoltà a leggere e scrivere.
«Non è un caso che noi siamo il Paese con la maggiore diffusione di telefonini pro capite, perché c’è un evidente problema a misurarsi con la scrittura. E infatti soltanto il 38 per cento degli italiani naviga in Internet. Quando si parla dei limiti della scuola italiana, che pure esistono, bisogna tener presente questo dato di partenza».
De Mauro ha voluto commentare e completare così i dati riassunti da Carmela Palumbo del ministero dell’Istruzione, che si è rifatta ad alcune indagini condotte dall’Ocse Pisa («25% dei ragazzi alla fine del ciclo dell’obbligo si colloca al livello più basso di conoscenza») e dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo), secondo cui uno su due dei nostri maturandi è insufficiente. Nonostante questi risultati, De Mauro ha difeso di nuovo con Luciano Canfora nel pomeriggio, durante un happening allo stand Laterza, la funzione ancora fondamentale della scuola pubblica.
Risposta sul Corriere della Sera di Paola Mastrocola
Caro Direttore,
leggo sul «Corriere della Sera» di ieri, nell’articolo di Dino Messina, che Tullio De Mauro al Salone del libro mi attacca dicendo che sbaglio a criticare, nel mio ultimo libro, la scuola pubblica, ricordando che così fanno anche Berlusconi e alcuni ministri di questo governo. Che colpo basso!
Insegno in un liceo di Stato, e ho firmato l’appello per la scuola pubblica promosso da «Repubblica» proprio contro le parole di Berlusconi; ho scritto Togliamo il disturbo proprio perché tengo alla scuola pubblica e mi fa pena vederla ridotta così: criticarla, anche duramente, mi sembra il primo onesto e doveroso passo in sua difesa, per cambiarla, visto che non funziona. Difenderla invece a oltranza e in modo astratto, difenderla soltanto in quanto pubblica e come tale meritevole di per sé mi sembra il peggior servizio che le si possa fare. Che la difendano, poi, coloro che molto hanno contribuito al degrado culturale ora in atto mi pare veramente troppo.
Ricordo che negli anni Sessanta-Settanta De Mauro, e altri linguisti e pedagogisti, hanno molto favorito, in nome di un primato del presente, una forte svalutazione della letteratura in quanto cosa del passato, nonché residuo di un crocianesimo da combattere. Oggi, poi, un’idea per me deleteria di scuola ha vinto e ci governa da una dozzina d’anni, cioè proprio dagli anni della micidiale coppia di ministri Berlinguer-De Mauro. Sono loro che, secondo me e secondo tanti docenti, hanno inferto un ulteriore colpo all’insegnamento, dando il via a un’idea di scuola utilitaristica, subordinata al mondo della produzione e del consumo, a un’idea di sapere solo strumentale e piattamente, immediatamente «spendibile» sul mercato e nella vita di tutti i giorni. Sono state queste idee (non certo il mio libro!) a svalutare e mortificare la scuola pubblica, facendo trionfare il «saper fare» sul sapere astratto e disinteressato proprio di una formazione culturale. Peccato!
Letteratura vuol dire lettura di libri, trasmissione dei grandi classici che hanno fatto la nostra storia e ci hanno per millenni arricchito delle loro idee: era lo strumento più alto che avevamo, noi insegnanti di lettere, per alzare il livello culturale dei nostri ragazzi! Era lo strumento più democratico del mondo perché, proprio arrivando a quell’altezza, potevamo con la scuola ancora dare una chance di crescita a chi veniva da famiglie senza libri e tradizione di studio. Invece De Mauro ha spazzato via la scrittura del tema, dicendoci di insegnare ai ragazzi a scrivere un verbale!
Se oggi i nostri ragazzi non sanno più leggere e scrivere, se non sanno organizzare i loro pensieri, è anche perché abbiamo creduto più ai verbali che ai grandi libri della letteratura. De Mauro è il primo che dovrebbe interrogarsi sul degrado degli ultimi dieci anni, a partire ad esempio dall’idea berlingueriana del «diritto al successo formativo»: è in nome di questa malintesa democraticità del sapere che la scuola ha abbassato così tanto l’asticella; voleva alzare i numeri degli istruiti, e così ha abbassato l’istruzione, a un livello tale che adesso moltissimi ragazzi che s’iscrivono al liceo e poi all’università sono costretti ad abbandonare gli studi perché la loro preparazione è drammaticamente inadeguata. Abbiamo oggi una dispersione post-obbligo altissima, che non è più dovuta alla povertà economica delle famiglie, ma ai danni cognitivi che noi abbiamo provocato alle menti dei giovani con una scuola dell’obbligo che non prepara più a niente, e con una scuola superiore che su quelle fragili basi è costretta a lavorare.
Tullio De Mauro d’altronde pensa che l’idea classica di insegnamento – quella cioè che si fonda sull’insegnante che fa lezione e l’allievo che ascolta la lezione, prende appunti, studia a casa e poi viene interrogato – sia un mero e ignobile riversare nozioni in un imbuto: l’allievo sarebbe un imbuto, e il suo insegnante un miserabile «depositario di sapere» (così dalle parole che riserva al mio libro prendendone in esame, peraltro, una sola frase, su «Internazionale» del 29 aprile). Ma che cos’altro dovrebbe essere un insegnante se non un depositario del sapere, cioè una persona che ha studiato e umilmente ogni giorno cerca con passione, e contro tutto il mondo esterno che lo ostacola!, di passare quel che ha studiato e ama ai suoi allievi, e che molto si dispiace se questi poi non studiano? Anche ripetere la lezione, anche studiare a memoria serve, anzi, aiuterebbe a ripristinare quelle capacità di organizzazione logica che i nostri ragazzi oggi – dopo una scuola tanto democratica! – sembrano aver perso.
Mi chiedo quale scuola stia difendendo oggi il professor De Mauro. Ma di una cosa sono certa: la scuola che difende lui non è quella che voglio io, è una scuola che lascia desolatamente massa la massa, non la innalza e non la promuove (per di più dicendo, invece, di volerlo fare…). Su questo, forse sarebbe il caso che la sinistra cominciasse a riflettere.
Paola Mastrocola
17 maggio. Risposta di Tullio De Mauro sul Corriere
Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio», al «fallimento». E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda.
Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo » a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi. E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola?
Una prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010. La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro ».
Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa.
L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95% della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38% della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33% è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70% di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura.
Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso.
Tullio De Mauro
Archivi. Girolamo De Michele, 2006, Parte prima e seconda

54 pensieri su “LA SCUOLA DI CHI?

  1. Ho appena finito di leggere il primo libro della Mastracola sulla scuola. Il problema è che costei ha ragione da vendere quando critica lo spirito imprenditoriale di questa specie di multi-tasking schizoide che sta diventando la scuola.
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    Si sbaglia invece, e pesantemente, quando a questa superficialità oppone la superiorità di un sapere millenario che deve rimanere in essenza identico a se stesso. Mi ha molto colpito l’episodio nel quale l’autrice racconta come introduceva lo studio della letteratura nei primi giorni dell’anno ai neo-ginnasiali. E cioè leggendo un canto intero dell’Eneide. In latino.
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    Ora, chi scrive ha anche letto poesie in lingue sconosciute ai suoi studenti per fargli apprezzare la bellezza del suono; perché il mistero e la bellezza della poesia sono tali che hanno effetto su di noi anche se non ne capiamo il senso, proprio come la musica.
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    Da questo però a leggere un poema epico in una lingua ignota a studenti digiuni di qualsiasi strumento per capire che cosa gli si sta proponendo, ce n’è. Soprattutto perché il motivo del gesto, per la Mastracola, era quello di mostrare il punto di arrivo ai suoi timidi neoliceali. Ovvero: questi anni saranno duri, ma alla fine del liceo voi sarete in grado di capire il grande Virgilio. Ma chi è Virgilio per questi studenti? L’autore di quei maestosi suoni senza senso che la prof ha letto il primo giorno di scuola.
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    Concludendo: quello che mi ripugna, mi disgusta, mi avvilisce è l’uso che lei fa del principio di autorità. Virgilio sarà il tuo punto di arrivo perché è un gigante; ed è un gigante perché te lo dico io.
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    Triste. Ma anche una grande occasione mancata direi. Personalmente quello che mi piace di più dell’insegnamento agli adolescenti, è che la purezza del loro sguardo mi costringe a mettere tutto il mio sapere in discussione. E’ come se l’Odissea o La coscienza di Zeno o Madame Bovary (o l’Eneide) nascessero ogni volta daccapo. Insomma, noi professori siamo “la loro prima volta”. La loro meraviglia, il loro stupore, le loro domande, la loro curiosità, sono impagabili. E questa mi sembra una grande opportunità. Non solo per loro: anche e soprattutto per noi.

  2. Concludendo: quello che mi ripugna, mi disgusta, mi avvilisce è l’uso che lei fa del principio di autorità. Virgilio sarà il tuo punto di arrivo perché è un gigante; ed è un gigante perché te lo dico io.
    E’ vero.
    Ripugna e disgusta forse sono termini forti, ma dà parecchio sui nervi.

  3. Informazione di servizio: la Mastrocola non ha MAI scritto che Virgilio è un grande “perchè te lo dico io”. La glossa arbitraria è di Melmoth con cui peraltro sono d’accordo sul resto. Sono certa che anche la nostra scrittrice si mette in discussione tutti i giorni e due libri dedicati alla scuola ne siano la testimonianza.
    “Ma chi è Virgilio per questi studenti? L’autore di quei maestosi suoni senza senso che la prof ha letto il primo giorno di scuola”.
    Senza dubbio gli studenti – rassicurati dalla loro prof – avranno avuto modo negli anni successivi di sapere per bene chi è Virgilio e si ricorderanno di quello “strano” episodio dell’inizio.
    Ma che sarà mai sentire un esametro!
    A me sembra che venga fuori l’amore dell’autrice per l’autore per eccellenza in modo molto chiaro e per niente arcigno.
    Si può trovare barocca questa sua idea ma ricordiamoci che si rivolge a ragazzi che PER SCELTA si sono iscritti in una scuola dove si fa latino e si farà Virgilio!

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