L'ACCHITO

Detto che i gamers, e in particolare quelli frequentati sabato e domenica a Lucca, sono un toccasana per l’umore, torno su Pietro Grossi, in dettaglio. Questo è quel che penso de L’acchito.
L’acchito è l’alfa, il punto da cui tutto parte, lo spazio mentale e fisico che separa disordine e armonia. L’acchito è il momento in cui la palla, poggiata sul panno verde del tavolo, riceve il primo colpo della stecca. E’ l’istante  in cui l’immobilità si trasforma in moto ed entra nel regno del possibile: aprendosi, dunque, ai mutamenti. Per Dino, il protagonista del primo romanzo di Pietro Grossi che si chiama, appunto, L’acchito (Sellerio, pagg.199, euro 12,00), la mossa di partenza del biliardo è  il simbolo della propria filosofia di vita. Dino, infatti, ha imparato il gioco e compreso il significato stesso dell’universo nello stesso momento: ovvero quando, ancora ragazzino, è riuscito nell’impresa a cui lo ha spinto Cirillo,  il suo demone personale.  Cirillo è colui che maneggia la stecca “come un filo di cristallo”, facendole accarezzare le sfere come se fossero “guance di neonato”. Dino desidera imparare a giocare come lui: ma questo avverrà, lo sfida il maestro, ad una condizione: “Torna qui quando dall’acchito, tirando dritto, riesci a far tornare la palla esattamente da dove è partita, né un millimetro più, né un millimetro meno, né più a destra né più a sinistra”.

   Sembra un esercizio zen, e in parte lo è. Perché quanto Dino porta a termine il compito, l’illuminazione lo abbaglia, il mondo acquista una ragion d’essere e si riconduce ad una geometria perfetta. La stessa che, a partire da quel momento, si rifletterà anche sulla sua vita adulta. Dino fa il ciottolaio: come suo padre, pavimenta le strade, incastrando pietre secondo una simmetria invisibile ma efficace, dove un ordine di partenza non viene prefigurato ma si realizza comunque, permettendogli di individuare senza errori il ciottolo storto.  Inoltre, Dino continua a giocare a biliardo: sapendo che nei centimetri quadrati del tavolo coperto di panno è possibile annientare la sfortuna e “tenere gli dei sotto controllo”. Infine, Dino vive tranquillamente il matrimonio con Sofia: la loro vita è scandita da una regolarità implicita, secondo la quale rientrare a casa prima del solito “non è una cosa buona”, e dove le parole sono poche, e molti i rumori della quotidianità: coltelli che frusciano sbucciando mele, bicchieri che vengono posati sul tavolo, cucchiai che affondano nei piatti. Unica, lieve anomalia, un “quaderno dei viaggi”: dove Sofia annota i resoconti immaginari di luoghi che progettano soltanto di vedere, soffermandosi su dettagli solo orecchiati,  sui palazzi bianchi come la neve che racchiudono il corpo di una sposa defunta, o sui meravigliosi personaggi esotici che vestono d’argento, come nelle favole.

  Ma un giorno Sofia, contro ogni previsione, rimane incinta. Di lì a poco, il Comune presso cui lavora Dino decide di sostituire i ciottoli con l’asfalto: una mazzetta, si scoprirà. L’asfalto è nero, “necrotico”, sporco. Un figlio è un tuffo nel vuoto. La vita viene catapultata nell’imprevedibile. Dino lascia il lavoro e decide di partecipare ad un torneo di biliardo: stravincendo e diventando, suo malgrado, famoso. Alla svolta positiva corrisponde quella, terribile, della vedovanza. A quest’ultima segue l’incognita, stavolta meravigliosa, della paternità: come quando, a biliardo, si tira un rinquarto, e la palla colpisce, in successione, le tre sponde prima di arrivare ai birilli. A fine partita, Dino entra in una nuova dimensione dell’esistenza: non senza aver capito, dal suo vecchio maestro Cirillo, che nessun giocatore, mai, può davvero far tornare la palla nel punto dell’acchito. E  che nessun essere umano può dunque predeterminare la propria strada in un percorso esatto.

  Romanzo ammaliante, quello del non ancora trentenne Pietro Grossi, già nella cinquina finale del premio Strega 2006 per il suo libro d’esordio, Pugni. In quei tre racconti era già contenuta la sua estetica: raccontare i punti d’impatto di piccole esistenze, il momento esatto in cui la vita di pugili, domatori di cavallo, ciottolai appunto, prende una direzione imprevista. Sono eroi minimi, quelli di Grossi, e senza tempo: nulla sappiamo della geografia e dell’epoca in cui si muove Dino. Sappiamo, però, che è narrato come un eroe epico. E che epica, in fondo, è la sua battaglia: quella, antica come gli esseri umani, che contrappone l’Ordine al Caos.

 

4 pensieri su “L'ACCHITO

  1. ‘Detto che i gamers, e in particolare quelli frequentati sabato e domenica a Lucca, sono un toccasana per l’umore…’
    Sono d’accordo e credo che tutta Luccacomics sia un toccasana, personalmente ho il picco di buon umore per i cosplayer. E naturalmente un’ammirazione infinita per la vivacità e i grandi risultati che il fumetto registra continuamente: questo è un periodo da paragonare alla Parigi di inizio novecento per l’arte visiva. Speriamo che il mondo del fumetto rimanga sempre per questo aspetto un po’ eccentrico rispetto alla letteratura, che spesso è una tonsillite per l’umore 🙂

  2. siamo corpi immersi nella luce(parafrasando Zichichi-Crozza) e il biliardo risponde alla prima legge dell’ottica:”l’angolo d’incidenza è uguale all’angolo di riflessione”.Le palline e i pedoni servono per renderci la vita più interessante(le stecche fanno parte del gioco)

  3. davvero gran bella recensione. io ho pensato, durante la lettura, che l’acchito fosse lo stato verso cui ogni vita umana tende. una magnifica illusione irraggiungibile, come questa favola di grossi.

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