Su Repubblica di sabato è uscito questo articolo, con chiacchierata fra Wu Ming 1 e la vostra eccetera. Posto.
Marzo, un anno fa: con tre parole, New Italian Epic, si avvia uno dei più importanti tentativi di sistematizzazione di quanto di nuovo è apparso nella narrativa italiana degli ultimi quindici anni. Quello che nasce dai Wu Ming non è in alcun modo un manifesto letterario, non somiglia alle antiche correnti o non si pone come frattura nei confronti della tradizione: non, almeno, nel senso canonico. E non nasce all’improvviso: da anni, nei siti e blog a carattere letterario si avvertivano le avvisaglie di un fenomeno che non aveva ancora un nome, ma che possedeva tratti comuni. Nascevano opere difficilmente identificabili nella struttura-romanzo. Si intensificava l’attenzione nei confronti della storia da parte di autori eterogenei. Tornavano narrazioni di ampio respiro e non concentrate esclusivamente sul quotidiano.
A raccogliere questi e altri stimoli è un memorandum pubblicato sul sito dei Wu Ming, a sua volta elaborazione dell’intervento di Wu Ming 1 ad un workshop sulla letteratura italiana presso la McGill University di Montréal. Il termine New Italian Epic viene usato per la prima volta in quella circostanza, viene ripreso nei giorni successivi in altre due università nordamericane e infine rilanciato on line. Il memorandum viene scaricato (quarantacinquemila i download complessivi al momento), commentato, arricchito di altri interventi (Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Valerio Evangelisti, Giancarlo De Cataldo, Antonio Scurati, Giuseppe Genna, Giovanni Maria Bellu e moltissimi altri), approda sulle pagine di quotidiani e nelle aule di altre università italiane e straniere. Conosce postille, aggiornamenti, polemiche. Diventa, infine, libro, con il titolo New Italian Epic- Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro (Einaudi Stile Libero, pagg. 203, euro 14,50), che include anche un intervento successivo, Noi dobbiamo essere i genitori, sul rapporto fra tradizione e ri-fondazione letteraria, e La salvezza di Euridice, di Wu Ming 2, su storie, mito, filosofia pop.
Ad essere presa in esame è appunto quella “nebulosa” di opere fitte di rimandi e di affinità provenienti da autori decisamente diversi fra loro: Roberto Saviano e Andrea Camilleri, Luigi Guarnieri e Alessandro Zaccuri, Enrico Brizzi e Letizia Muratori. Caratteristica comune, sia pur variamente declinata, è quella etica: che Wu Ming identifica in un “senso di responsabilità” che porta a rifiutare, soprattutto, l’uso postmoderno dell’ironia. No, dunque, al distacco, al gelo, a quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi”. “L’ironia – dice Wu Ming 1- è sempre esistita, come figura retorica e atteggiamento. A volte è molto utile e persino necessaria. Il problema è un ricorso all’ironia ininterrotto e sistematico. Se ogni volta che parli segnali che la tua parola non ha peso né valore, si allarga sempre più la distanza tra quel che dici e quel che provi. Questa iper-ironia è solo un’ipocrisia più furba”. Narratori etici, dunque, ancor prima che epici: “”Epos” in greco antico significa “racconto”, “storia”, ma anche “promessa”, “parola data”, “profezia”, “messaggio divino”, “contenuto di un discorso”, “significato”. L’epica di cui parlo è fatta di narrazione, assunzione di responsabilità, visione del futuro, comunicazione con altri mondi e messaggio alla comunità”.
A rappresentare con forza questo significato di epica sono, per esempio, quelli che Wu Ming chiama gli UNO, Unidentified Narrative Objects. I libri che non si saprebbe se collocare sullo scaffale della narrativa o quello della saggistica. Gomorra, su tutti. E ,dopo Gomorra, le cose sono cambiate: “Tanti libri che alla loro uscita non erano romanzi, oggi sono ritenuti tali. L’idea di romanzo si evolve, è mutagena e cangiante. Nel corpus del NIE ci sono tanti “oggetti non-identificati”, dallo statuto indecidibile. Domani saranno romanzi. Chiedersi perché oggi non lo siano può svelarci molte cose. Per Gomorra è quasi fatta, è un romanzo del futuro prossimo. Forse anche I fantasmi di Portopalo”.
Curiosamente, il New Italian Epic è stato interpretato dagli oppositori non come ponte fra opere diverse (e tempi diversi), ma come un ritorno al realismo letterario (ipotesi difficile, dal momento che nei testi citati appaiono lupi magici, televisori parlanti, lemuri telepatici, gatti pensatori e anche morti ritornanti) e ad una semplificazione del linguaggio. Nel saggio, invece, si parla addirittura di “sovversione linguistica”. Nascosta, però. “Pensiamo a Profondo rosso – spiega Wu Ming 1 – , allo specchio nel corridoio. La prima volta passi di corsa e non ci fai caso, ma un barlume rimane in coda all’occhio. Passi di nuovo, e capisci: era il volto dell’assassino. Stiamo tentando una lingua fruibile, perturbante e memorabile. Finita la lettura, resta un riverbero impigliato nei nervi, poi torni alle pagine e capisci: il testo è più complesso di quel che credevi”.
Il lavoro di analisi sui testi non si ferma con la pubblicazione del saggio cartaceo: che è, semmai, un tassello ulteriore per allargare la ricezione di contenuti già noti on line. E proseguirà anche su testi del passato, a dimostrazione che il New Italian Epic non intende essere l’omicidio del vecchio, ma semmai il suo riconoscimento nel nuovo. “A Marinetti preferisco Coltrane – conclude Wu Ming 1 – Coltrane fu oltranzista e futuribile, e al tempo stesso un figlio della tradizione, anche di un passato ancestrale. Si inarcava all’indietro, prendeva antichi canti yoruba e li usava per innovazioni sbalorditive. L’avanguardia afro-americana non volle mai uccidere il chiaro di luna, e non voglio farlo nemmeno io”.
Sì, ma anche il New Australian Epic di Naz Luhrmann non scherza.
Brava Lippa, ormai megafono ufficiale della wumingfoundation s.p.a.
Meet the New Trolls.
Same as the Old Trolls.
Gomorra non è un romanzo e New Italian Epic non può essere il nome di una corrente letteraria italiana perchè è un nome inglese (vi prego, almeno quando si parla di libri, scrittura ecc. usiamo la nostra lingua, vi prego, ve lo dice uno che sta facendo i workshop di scrittura e ogni volta che senta la parola workshop ha una fitta allo stomaco). Riguardo a Gomorra, se fosse romanzo ne conseguirebbe che la Camorra di cui parla non è la Camorra della realtà, una Camorra simile ma diversa da quella reale quantomeno, e se fosse un romanzo l’autore avrebbe potuto far accadere così, da un momento all’altro qualsiasi cosa, se fosse un romanzo il suo autore avrebbe dovuto avere una considerazione diversa dei camorristi, nel senso, “Delitto e Castigo” è un romanzo che voleva essere un atto d’accusa verso i nichilisti e un po’ di compassione, in tutte le accezioni che ha questo termine, verso il nichilista Raskolnikov c’è, noi siamo Raskolnikov, Dostoevskij è Raskolnikov, il mondo è Raskolnikov (potrei andare così all’infinito, ma mi fermo per senso del pudore).
In definitiva, è più simile a un romanzo questo mio commento che Gomorra (spero che questa frase non venga fraintesa). Poi, se vogliamo chiamarlo lo stesso romanzo pace, nessuno se la prende, ma un utilizzo più responsabile delle parole mostrerebbe, questo sì, un ritrovato senso etico della narrativa. L’etica nella scrittura (ma forse dappertutto) sta nel fare bene il proprio lavoro, non nel scegliere un argomento piuttosto che un altro: è il nostro occhio, il nostro punto di vista che può influenzare, o meglio stimolare, il pensiero di chi ci legge. Almeno così la penso io, magari sbaglio. Un caro saluto al blog e alla signora Lipperini.
Allora dato che si parla di narrazioni, a me piacerebbe sapere cosa ne pensa WM1 di ‘Valzer con Bashir’ (do per scontato che prima o poi lo vada a vedere). A me pare un racconto bellissimo e perfetto.
Scusami Loredana, ma considerare Brizzi come qualcosa di singificativo mi pare un po’ eccessivo… 🙂
A Coltrane non sarebbe mai passato per la testa di intercettare il sarto di Duke Ellington per copiarne l’abbigliamento, né di tagliarsi i capelli come Duke. Marinetti lo faceva nei confronti di D’Annunzio (invano: come notava il Vate, il cranio di Marinetti era gibboso, il proprio disegnava una curva perfetta).
Qualcuno saprebbe dirmi quando esce il libro?
Regà, francamente non riesco a capire.
Si stesse parlando di un brevetto, potrei capire gelosie, invidie, complotti.
Si stesse parlando, ancora di più, di un giudizio su un autore, un’opera, potrei capire le tifoserie da stadio.
Ma si sta parlando di un lavoro, saggistico peraltro, che riunisce gli sforzi di uno scrittore di aiutarsi\ci a capire cos’è successo a parte della letteratura italiana negli ultimi 10-15 anni…
Come ci si fa ad incazzare per un saggio, condotto comunque con intelligenza (non si tratta di negare la Shoah), questo sfugge ai miei limitati confini mentali.
Uno può non essere d’accordo e tacere.
Uno può non essere d’accordo e criticare, aggiungere commenti, proposte (non sempre si è in disaccordo al 100%), capire l’assoluto “buon fine” di questo lavoro e dare una mano…
Ma scrivere minchiate così, boh, cui prodest?
Detto ciò, mi fa piacere la citazione de “I fantasmi di Portopalo”.
Peraltro sarebbe interessante confrontare dal punto di vista del linguaggio, la versione televisiva che Lucarelli fece a “Blu notte” della vicenda facendo sua buona parte della ricostruzione del giornalista di Repubblica.
Secondo me è un piccolo capolavoro.
@ Andrea.
Hai ragione riguardo a “Valzer con Bashir”. I dialoghi di quel film mi hanno colpito molto e l’incipit (ma non solo quello) è strepitoso. Unica nota dolente: ero seduta accanto a due persone (Cinema Saffi di Forlì, cinema d’essai) che per 10 minuti non hanno fatto che parlare male di Gomorra concludendo con la frase: “per fortuna che la programmazione è finita, quella pellicola danneggia l’immagine dell’Italia nel mondo, che figura ci facciamo!”
Che tristezza.
Mi è caduto l’occhio e mi si è fermata l’attenzione su questa affermazione relativa all’ironia, di Wu Ming 1: “Se ogni volta che parli segnali che la tua parola non ha peso né valore…”
In generale, che l’uso ininterrotto dell’ironia sia cosa non raccomandabile, sì… ma che con l’uso dell’ironia si voglia segnalare che la propria parola non ha peso né valore, fatico a comprenderlo. Mi pare anzi il contrario: il distacco apparente dalle cose, veicolato dall’ironia, nasce da uno sguardo che su quelle cose indugia a lungo perché se ne occupa e preoccupa particolarmente.
Mi viene in mente Manzoni, d’acchito… con la sua ironia diffusa a manciate in tutto il suo romanzo illustre.
Concordo con Ekerot; non capisco l’astio con cui spesso si affronta l’argomento NIE. Non capisco perchè non si debba riconoscere a priori alcun genere di validità ad una analisi che ha spunti interessanti.
Sui quali si può concordare o meno, ma accidenti, non è una boiata!
E magari accorgersi che il dibattito sul NIE avvicina a questi temi anche persone (lettori..) che si scoprono incuriositi?
Insomma, se ne può parlare senza dire fa schifo/è oro colato?
@ Arturo.
1) Qui mi sembra che consegni il termine “romanzo” unicamente al regime della “finzione”, ma il romanzo è una modalità del raccontare, raccontare ricorrendo a certe tecniche e non ad altre, usando la lingua e il montaggio in certi modi e non in altri, rapportandosi al mondo intorno in certi modi e non in altri. Esiste ad esempio il romanzo autobiografico. E’ una definizione molto comune e accettata di Se questo è un uomo. Forse per questo consideriamo Primo Levi un ballista? E Un anno sull’altipiano di Lussu? L’uso di retoriche e stratagemmi prettamente narrativi e letterari è forse messo al servizio della menzogna? E’ forse “falsa” la prima guerra mondiale com’è descritta in quel libro? E la ritirata di Russia in Rigoni Stern? Non è un romanzo Il sergente nella neve? Ed esiste il “non-fiction novel”: In Cold Blood di Capote, Plata Quemada di Piglia etc.
Detto questo, mi pare superficiale e ingenuo credere che Gomorra non contenga forzature letterarie del reale e non ricorra a figure retoriche atte a “tornire” la narrazione per renderla aerodinamica. Ma su questo ho già scritto molto, fin troppo. Ad nauseam. E per fortuna adesso ci sono altri che stanno lavorando su Gomorra, gli UNO e la forma-romanzo.
Segnalo ad esempio quest’intervento di Dimitri Chimenti:
http://tinyurl.com/czoah7
2) Sul nome inglese: si è liberi di tradurlo, ci mancherebbe altro. Io lo uso in inglese per motivi che ho spiegato: il memorandum è il risultato di uno sguardo alla scena italiana da fuori, il primo resoconto l’ho fatto in inglese, vorrei mantenere questa parziale esternità perché la ritengo proficua. Non vedo perché arrabbiarsi. “Film” non è una parola italiana; si potrebbe dire “pellicola”, che è la sua perfetta traduzione ed è un termine in uso anche con quell’accezione, ma si parla senza problemi di “film italiani”, nessuno si scandalizza.
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@ Fabioletterario.
Hai letto L’inattesa piega degli eventi?
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@ The Daxman.
Il libro esce domani, cioè martedì.
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@ Ekerot.
Ci sono in rete alcuni miei GRANDISSIMI fans, che però non si rendono conto di esserlo 🙂
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@Andrea.
Non l’ho ancora visto, ci ho provato una sera ma per contrattempi sono arrivato in ritardo. Rimedierò perché mi intriga molto.
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@ Anita.
Il tuo commento contiene già la risposta alla tua perplessità. Anche tu dici di trovare problematico un ricorso eccessivo e ininterrotto all’ironia. E’ precisamente quando l’ironia si estende a ogni enunciato che essa perde la sua incisività ed efficacia, e si estingue la funzione che hai descritto molto bene. Quando l’ironia diviene un “ambiente”, non si è più in grado di distinguere quale enunciato è ironico e quale invece no. E’ precisamente la situazione in cui ci troviamo, basta seguire i palinsesti televisivi (ogni scelta trash e mentecatta viene difesa ricorrendo alla retorica dell’ironia), il dibattito politico quotidiano (ogni affermazione, anche la più pesante, è subito ridimensionata in quanto “ironica”) e direi anche una larga porzione di blogosfera e social network. Questa generalizzazione dell’ironia è un fall-out del postmoderno, cosa descritta molto bene da Foster Wallace nel suo saggio sulla TV e in una celebre, lunghissima intervista del ‘93. Ne ho parlato più diffusamente nella seconda parte di quest’intervento:
http://www.carmillaonline.com/archives/2008/10/002804.html#002804
L’ironia è importante continuare a usarla, purché non serva come schermo per difendersi preventivamente dai morsi del reale. Anche io, anche noi WM, usiamo molto l’ironia nei nostri libri.
L’ironia di Manzoni, poi, ha ben poco a che vedere con l’ironia che descrivo sopra. Direi anzi che siamo agli opposti.
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@ Tutti quanti.
Grazie. Se possibile, mi piacerebbe che nel futuro prossimo le discussioni partissero dal libro. Lì io e WM2 abbiamo cercato di fissare qualche punto per portare il confronto a un livello più alto, senza restare all’ABC.
@ Arturo
L’altra sera ho sentito Eliana Bouchard spiegare così la differenza tra il suo romanzo Louise (scritto simulando il memoriale di una donna del XVI-XVII secolo realmente esistita) e un ipotetico “vero” memoriale: la differenza è nell’esattezza di cui è capace il romanzo “di finzione” che si basa sulla ricerca storica di una scrittrice del XXI secolo, rispetto all’inesattezza di cui, complici i tranelli della memoria, è piena tutta la memorialistica (lei citava le autobiografie di Ingrao e Rossanda come esempi), e di cui sarebbe stato pieno anche l’ipotetico memoriale di Louise de Coligny, se l’avesse mai scritto. La realtà, così come la storia, così come quello che chiamiamo “mondo”, sono oggetto di una costruzione, non sono “cose” che stanno lì, immobili e immutabili. Per questo la finzione riesce spesso a costruire il reale molto più accuratamente della rappresentazione ingenua.
La risposta di Wu Ming1 mi chiama in causa, dunque voglio aggiungere un paio di parole.
Il suo Memorandum , almeno per me, non è stato una corrente a cui aderire, quanto un tentativo di descrizione e sintesi di determinati fenomeni letterari. Credo dunque che un atteggiamento apologetico o denigratorio verso il suo lavoro sia poco fruttuoso. Per quanto mi riguarda ho voluto “verificare” alcuni aspetti del suo discorso, ma una verifica, oltre a non avere necessariamente un esito positivo, richiede tempo. Queste sono però solo avvertenze per chi avesse troppa fretta di saltare alle conclusioni e determinare oggi ciò che potremo sapere solo domani
L’Affaire Gomorra. Affrontare Gomorra come se non si trattasse di un romanzo, ci costringe ad applicargli un criterio di referenzialità strettamente evenemenziale. In altre parole dovremmo ritenere falso, o inappropriato al regime narrativo adottato, tutto ciò che non è verificabile sui documenti. La forza letteraria di quest’opera è, a mio parere, proprio di consentire una mediazione tra il piano della realtà e quello letterario. Una mediazione che è capace di installare significati testuali su eventi reali. In soldoni, ci sono alcuni personaggi la cui testimonianza parte dal testo, interseca i territori del reale e torna di nuovo al testo. E’ questo dispositivo di cattura di eventi ed esistenti ad essere messo in scena nella famosa sequenza del vestito bianco di Angelina Jolie.
Vi invito a “verificare” con i vostri occhi quante volte Gomorra ricorre a questo scivolamento dei significati da un piano all’altro.
PS: Senza il lavoro di Wu Ming 1, non ci sarei mai arrivato.
Ringrazio innanzitutto Wu Ming 1 e Girolamo per le risposte.
@Wu Ming 1.
Credo che la nostra divergenza di opinioni parta da una concezione differente del romanzo. Se la sua posizione è più che legittima, non credo che la mia non abbia un minimo di fondatezza. Premesso che il significato delle parole è in continua evoluzione e che le voci dei dizionari sono spesso sbrigative e inesatte, riporto (non per pedanteria ma per argomentare la fondatezza che attribuisco alla mia tesi) due definizioni della parola romanzo, la prima tratta da sapere.it e la seconda dal Dizionario sinonimi e contrari garzanti.
romànzo (sostantìvo): narrazione in prosa di vicende umane più o meno complesse, che riproducono la vita concreta nei suoi caratteri generali o in qualche aspetto particolare, ma che sono per la maggior parte frutto della fantasia di chi scrive.
romanzo: 1(storia inventata, fantastica) SIN. fantasticheria, invenzione, fandonia, frottola.
Ora, io non sono d’accordo con queste definizioni nè desidero arrivare agli eccessi di Borges che in un intervista (ad Arbasino, credo) diceva che tutta la narrativa è fantastica, che il realismo russo è un’eccezione (N.d.A. e nemmeno tanto considerato che le storie dei due più grandi realisti sono popolate da una quantità enorme di fantasmi) e che tutto il resto è giornalismo. Tutt’altro. Voglio avallare le sue parole quando dice che “il romanzo è una modalità del raccontare, raccontare ricorrendo a certe tecniche e non ad altre, usando la lingua e il montaggio in certi modi e non in altri, rapportandosi al mondo intorno in certi modi e non in altri”. Partendo da questa premessa ritengo che se si vuole individuare una tecnica che più di tutte distingue il romanzo dalla scrittura saggistica, questa tecnica è senz’altro quella dell’evocazione. Potremmo quindi ricominciare il discorso distinguendo tra scrittura evocativa e scrittura informativa. Non esistono, naturalmente, forme pure di una o dell’altra scrittura, ma semplificando credo che si possa sostenere che i libri in cui l’elemento evocativo prevale su quello informativo sono libri di narrativa mentre quelli in cui accade il contrario sono libri di saggistica. Ripeto, è una mia definizione di romanzo, che penso sia parziale, come ogni definizione, ma non ingenua o superficiale: le “figure retoriche che torniscono la narrazione” si trovano in tanti reportage o libri intervista o articoli di giornale che non ambiscono ad essere altro, – e qui rispondo a Girolamo – quindi non è la costruzione, il mettere ordine, il porgere tramite un artificio tecnico che trasforma il giornalismo in romanzo. Questi accorgimenti, come dice bene Girolamo stesso, distinguono l’ingenuo (il dilettante) da chi scrive con consapevolezza. Per concludere riporto una citazione dello storico, filosofo e critico letterario Sigfrid Zickler.
“Ciò che caratterizza il romanziere è il ricercare ogni cosa (il bene e il male) dentro di sè ancor prima che fuori. Il mondo esteriore e quello interiore devono arrivare a coincidere: questa è la magia della letteratura, è questo che rende i romanzi autentici. Quando il romanziere scrive, non solo deve essere ogni suo personaggio, ma financo la luce del sole, il vento tra le foglie, le mura di cinta del castello. Necessitano di fondersi in uno la materia trattata, lo stile della penna e l’atteggiamento morale: è tale il sentiero che conduce alle essenze primigenie”.
@ tutti
Ho voluto solo precisare quello che dicevo nell’intervento precedente, non è mia intenzione alimentare una polemica dato che, dopo aver letto la risposta di Wu Ming 1, il suo approccio alla questione mi appare chiaro e perfettamente coerente.
P.S. Contraddicendomi, devo riconoscere in me stesso una certa propensione all’ingenuità e alla superficialità, ma vi chiedo di perdonarla come si perdonano gli errori di gioventù.
Anna Luisa, l’abbiamo visto nello stesso cinema! 🙂
Arturo, apprezzo sia il tono sia lo sforzo di sintesi. Anche la tua posizione è coerente e fondata. Tuttavia, quel che secondo me manca – a parte il vago accenno iniziale sulle parole che cambiano significato nel tempo * – è proprio il senso dell’evoluzione storica della forma-romanzo.
[Qui c’è un problema ulteriore, perché in italiano usiamo solo questa parola, connotandola volta per volta, mentre l’inglese distingue tra “novel” e “romance”.]
Le opere di Hunter S. Thompson, alla loro uscita, furono considerate reportages e basta. Selvaggi, folli, ma reportages. Oggi Thompson non è ricordato come giornalista, ma come scrittore, e libri come Hell’s Angels o Fear and Loathing in Las Vegas sono considerati romanzi a tutti gli effetti. Ripeto, A sangue freddo di Capote non è un’opera di giornalismo, è universalmente ritenuto un romanzo. “Romanzo di non-fiction”. Eppure, per usare il criterio proposto sopra, l’evocazione non prevarica affatto l’informazione. La potenzia, la mette in risonanza, ma non la prevarica.
E’ vero che certe retoriche e certi stratagemmi si trovano anche nel giornalismo narrativo. Ma c’è un limine, una soglia che non possiamo definire con esattezza, oltre la quale ci ritroviamo tra le mani e nelle orecchie non più giornalismo, ma letteratura. Il criterio credo sia il lavoro sulla lingua, sulle sue risonanze, sull’ambivalenza delle parole, sulla connotazione (il senso figurato che per accumulo e scarto produce l’allegoria) più che sulla denotazione (tagliando con l’accetta: sui significati più ovvii di parole e frasi). Anzi, ricorro a un anagramma: non denotazione, ma detonazione.
E’ precisamente su quale sia, in Gomorra, la ratio tra evocazione/connotazione e informazione/denotazione l’apparente vexata quaestio.
E il primo a definire “letterario” il proprio lavoro è proprio Saviano, che già due anni fa disse: “Nel mio scrivere, tutto è coro e materia”.
* l’italiano sotto questo aspetto fa impressione, nuove connotazioni diventano in men che non si dica il significato principale, e alcune parole mutano drasticamente di senso nel giro di poche decadi. Il verbo “crollare” entra nel XX secolo con un significato (scuotere) e ne esce con un altro (quello oggi corrente).
Prima o poi ci si incontra in giro per Forlì e ci si riconosce… come in una trasmissione della Carrà. Me lo sento! ;-))
… il mio commento era per Andrea B., ovviamente.
Pare curioso che si debba tornare, comunque, all’ABC. Stiamo ancora qui a parlare di “corrente letteraria”? Ma allora davvero non s’è capito nulla! Sottoscrivo in toto Ekerot.
Poi, su Gomorra, si ha, per capirci, la prova del nove: confrontate due testi molto belli e molto importanti: quello di Saviano e “L’oro della camorra” di Rosaria Capacchione. Per chi non la conosce Rosaria è una giornalista “in prima linea”, sul suo lavoro (non solo su quello, ovviamente) Saviano ha attinto per scrivere Gomorra, e come Saviano Rosaria vive sotto scorta perché minacciata dalla camorra.
Il libro di Rosaria e quello di Roberto “trattano” dello stesso materiale economico-antropologico. Eppure sono due libri diversissimi. Non certo perché uno è “migliore” dell’altro, ma perché sono impostati in modo assolutamente differente.
Quella di Saviano, per quanto ibrida, è un’opera sostanzialmente letteraria nella forma, nella costruzione, nella “retorica” (non c’è accezione negativa in questa definizione), quella della Capacchione è indiscutibilmente giornalistica, nel modo di porsi. Non che Rosaria sappia scrivere “peggio”, non che manchi di trucchi da scrittrice, di tecniche del racconto. E’ che la modalità che ha usato è volutamente giornalistica. Sono certo che se avesse voluto avrebbe potuto cercare una forma differente, più “narrativa”, ma è nel suo rivendicare il ruolo sociale, lì in quella terra, la sua scelta formale.
Capacchione è più “vera”? Saviano è più “falso”? No. Sono veri entrambi, entrambi in modo diverso.
Gianni, Roberto Saviano vuole ‘parlare al cuore’, un giornalista invece informa sui fatti e lì si ferma. Questa è la differenza.
Quindi i due libri si possono confrontare solo sulla parte che riguarda i fatti: per entrambi i libri c’è certamente un piano ‘fattuale’.
Comunque ci si risente post lettura saggio, ok?
Altrimenti non ha senso e si resta davvero all’abc.
Infatti. Quella sopra è una foto del dibattito com’era due anni e mezzo fa. E’ sfibrante tornarci sopra. La conversazione è progredita di parecchio.
Corrente o non corrente, non mi sembra questo il vero problema. Il nocciolo del buon dibattitto è nella ricerca, abbozzata, delineata, costruita, del significato del romanzo quale narrazione letteraria, quindi con la forza di letteratura. Il rapporto evocazione/informazione è molto interessante e in alcuni passaggi del dibattito s’individua soprattutto nella prima la familiarità con il romanzo. Anche se, come sostiene Wu Ming1, il romanzo è spesso evocazione dell’informazione. Qualcuno ha citato “A sangue freddo” di Capote avvicinandolo a Gomorra di Saviano, soprattutto per sostanziare la tesi di Gomorra opera letteraria. Di seguito riporto due parti a confronto tratte dal libro di Capote e da Gomorra.
“Il muso tatuato di un gatto, blu e sogghignante, copriva la sua mano destra; su una spalla gli fioriva una rosa azzurra. Altre figure, da lui stesso disegnate ed eseguite, adornavano le braccia e il torso: la testa di un drago con un teschio umano tra le mascelle spalancate; donnine nude dal seno ricolmo; un demonietto che brandiva un forcone; la parola Pace accompagnata da una croce da cui si irradiavano, sotto forma di linee grossolane, raggi di luce divina…”
“Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccotiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l’architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello”. (Gomorra)
Solo per amor di precisione: ritengo In Cold Blood distantissimo da Gomorra, per stile, poetica, tono, intenti e contesto.
Del resto, l’idea di scrittore che ha Saviano è diversissima da quella che aveva Capote, e questo si vede bene anche nei comportamenti, nel profilo pubblico adottato.
Ho menzionato il libro di Capote, insieme ad altri esempi, per sostenere che il concetto di “romanzo” è molto inclusivo e ingloba anche opere che non sono di fiction.
xAB:Io penso che la grande differenza tra un articolo di giornale e un romanzo, o un “oggetto da identificare”, sia sostanzialmente nelle intenzioni e nella testa dell’autore.
Il che spesso e volentieri, al 99% dei casi, finisce per comportare che dalle prime intenzioni scaturisca un editoriale, dalle seconde un’opera letteraria.
Insomma, è difficile che se decido di scrivere un pezzo sulle olimpiadi mi venga fuori un racconto.
Può capitare, ma è raro. E, forse si tratta di cattivo giornalismo, ma talvolta se Dio vuole, un articolo arriva al cuore, e come se ci arriva!
Arriva al cuore il pezzo di giornalismo, ma con gli strumenti della letteraura.
Anche i reportage televisivi di Iacona sono molto belli e emozionano profondamente, però lui utilizza strumenti del cinema: colonna sonora, fotografia ecc. e strumenti narrativi della letteratura. O almeno io ho questa impressione.
Ma invece il New Italian Gheipic? Che ne dite del New Italian Gheipic?
x Wu Ming 1
Seguo con molto interesse questo ‘dibattito’ dentro e fuori la rete, e sono del tutto convinto non solo della bontà, ma anche della necessità di una svolta neonarrativa nella letteratura italiana (che troppo oscillava fra esperimenti stilistici autoreferenziali e ‘piccoli drammi della vita quotidiana’). Raccomanderei però di evitare anche in luoghi così informali come blog, chat e forum l’atteggiamento dell’Oddio questo lo sanno tutti e del Ma questo lo abbiamo già detto mille volte. Sono reazioni stramotivate, ma paradossalmente assai tipiche del post-moderno, l’èra del già detto e del già fatto. In quanto docente universitario, ancorché in erba e senza stipendio, ho già imparato che le cose banali son quelle che si devono ripetere di più, più a lungo, e probabilmente per sempre. Non tutti, anzi pochi, sono aggiornati su qualsivoglia dibattito sul NIE, soprattutto in un momento di scoperta o riscoperta come quello che stiamo vivendo in questi mesi.
Ripeterle le ripeto senza problemi (notare l’anacoluto). E’ vero, all’ABC si ritorna sempre. Però mi piacerebbe anche andare oltre, almeno qui, per non costringere Lipperatura all’eterno ritorno del medesimo dibattito su Gomorra romanzo o reportage… Poi, certo, cambiando il contesto cambia anche la discussione, ma in questo contesto, dopo un po’, che potremmo mai aggiungere?
Refuso: il corsivo doveva chiudersi dopo Gomorra 🙂
WU MING, ATTENTI A NON PRENDERE LA SCOSSA…
Riccardo Chiaberge sul “Domenicale” de “Il Sole 24 Ore”, domenica 1 febbraio 2009
Dopo un secolo, i Futuristi hanno trovato i loro degni eredi. Le scintille di *Marinetti *e di *Boccioni *si sono propagate fino a noi e nel firmamento della letteratura italiana è esplosa una meteora, una nebulosa, anzi un «campo elettrostatico»: la New Italian Epic di *Wu Ming *(Einaudi Stile Libero). Che roba è? Lo spiega la galvanizzata quarta di copertina, redatta presumibilmente da *Paolo Repetti*, responsabile della collana: «Nella narrativa italiana sta accadendo qualcosa. Qualcosa di grosso». Per le carlinghe di mille biplani! E noi che non ce n’eravamo accorti! «In meno di sei mesi un “memorandum” di teoria letteraria, pubblicato on-line, viene scaricato da più di trentamila persone. Il dibattito s’accende».
*Wu **Ming*, per chi non lo sapesse, per chi ancora brancola nelle tenebre di un mondo pre-tecnologico, è «un collettivo di scrittori» (il sito ufficiale si chiama wumingfoundation.com) che ha già al suo attivo alcuni «oggetti narrativi» (meglio noti come U. F.O.: Unidentified Fiction Objects).
Tra le sue missioni, quella di «esplorare la dimensione sociale e politica di questo nuovo approccio al mestiere di raccontare». Mestiere descritto come «pratica di resistenza», perché «l’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative». Resta da capire che alternativa rimanga ai poveri lettori terrestri, che agli Ufo continuano a preferire i buoni romanzi.
Campo elettrostatico, resistenza, dibattiti che si accendono: siamo in piena temperie futurista. Mancano solo turbine, dinamo, contatori, interruttori e fusibili, e l’impianto è completo. L’essenziale è non prendere la scossa.
Per recensire un libro di *Wu Ming *ci vorrebbe un ingegnere dell’Enel. Altro che critici letterari: quelli hanno tutti le pile scariche. Come diceva *Ernesto Calindri *in un celebre *Carosello *anni Sessanta: «Dura Ming! Non dura, non può durare…».
secondo me uno che nel 2009 scrive compiaciuto, su un giornale, “chi ancora brancola nelle tenebre di un mondo pre-tecnologico” andrebbe cosparso di pece e piume e fatto sfilare per la main street.
Al di là di qualunque idea abbia del NIE.
Va bèh, la vespa Chiaberge scrive una cialtronata, errori compresi. Alla faccia del rispetto verso il lettore, alla faccia di chi lavora seriamente per cambiare le cose o almeno ci prova.
A me sembra, semplicemente, che non abbia capito gran ché. Per fare della buona ironia occorre essere molto, ma mooolto informati.
Ma ragazzi, la vespa del Sole24Ore è una consacrazione, non lo sapete? C’è da festeggiare! (comunque, cari WM, voi ne avete avuta una e siete in 4. Io da solo, m’ha punto già due volte. Quando si dice che la classe non è acqua…)
😉 😉 😉
Un recensore che scrive una cosa come quella sopra non ha nemmeno letto il libro dall’inizio alla fine.
Concordo con Gianni. Pagherei di tasca per farmi pungere dalla vespa del Sole 24 ore, ma non sono abbastanza noto e non mi cagano.
Brindate.
Andrea: non ha nemmeno tolto il cellophane! 🙂
I virgolettati son tutti dalla quarta di copertina.
Ma perché, ora i libri bisogna pure leggerli? Che pretese…
Chi ha detto che per criticare un libro bisogna averlo letto da cima a fondo? Siamo mica a scuola. I libri, più saggi degli uomini o forse solo più scaltri, cedono prima l’anima del corpo. Tanto quella, si sa, è immortale. A volte la esalano così in fretta che non si fa in tempo neppure a toccarli. Non è difficile. Lo spirito di un libro lo si coglie subito: basta sfogliarlo, leggerne qualche brano, talvolta anche solo l’incipit o la quarta di copertina 🙂
p.s. il trafiletto delle vespe non è una recensione, è un titolo di merito, come dice gianni. difatti secondo me questa volta chiaberge ha cannato.
Non sempre è un titolo di merito per il “recensito”: a volte è un esorcismo da parte di Chiaberge quando si trova spiazzato. Le due frasi rivelatrici mi sembrano
“E noi che non ce n’eravamo accorti!”
(meno ironica di quanto vorrebbe essere?)
e l’autoconsolazione finale
“Non può durare…”
(rivelatori come un lapsus anche i tre puntini, sintomo di scarsa certezza di quel che si è appena detto).
Ci sento un ridere a denti stretti per farsi coraggio.
Forse Chiaberge ha letto questo e si è convinto:
http://snipurl.com/baenb
WM1, a me viene in mente una cosa.
In un’altra discussione qualcuno ha scritto:
“A mio avviso è più logico non criticare l’opera, ma i meccanismi di creazione, che mi spiace, ma il più delle volte, toccano corde personali dell’autore.”
E’ esattamente quello che ha fatto il giornalista/critico col vostro libro. Si è focalizzato sui ‘meccanismi di creazione’ (facendolo passare per una imitazione aggionata del futurismo rivolta a lettori gonzi). Così gli è sfuggito il senso del tuo lavoro.
Perché quel giornalista/critico lo fa?
Secondo me crede di essere nel giusto, crede di rivendicare un primato dell’etica sulla creazione. Dilata la sua prima impressione di lettura, il primo impatto con certe tue espressioni, fino a farle inglobare il senso del libro. E davvero pensa: ecco uno che ci vuole prendere in giro!
In realtà tu usi semplicemente un linguaggio chiamiamolo ‘antiaccademico’ (preso dal tuo mondo poetico tra l’altro) per rendere vivace un testo di critica letteraria che potrebbe risultare noioso per il lettore, in modo da arrivare a persone che normalmente non si accosterebbero a testi teorici di quel tipo.
Vedi che casino è utilizzare le categorie etiche, come è facile sbagliarsi…
Oggetti non identificati? Mi sembra che da sempre ci siano stati questo tipo di oggetti. Persino uno come George Steiner considera l’opera di Joseph Needham un’opera narrativa
“In realtà tu usi semplicemente un linguaggio chiamiamolo ‘antiaccademico’ (preso dal tuo mondo poetico tra l’altro) per rendere vivace un testo di critica letteraria che potrebbe risultare noioso per il lettore, in modo da arrivare a persone che normalmente non si accosterebbero a testi teorici di quel tipo.”
Hai ragione Andrea, ma direi che questa è una costante nella produzione saggistica del collettivo. E’ la prima cosa che mi colpì quando cominciai a leggere “Nemici dello stato” e quello era un testo anche più ostico. Un altro scrittore che riusciva a praticare questa forma di “bilinguismo” era Valerio Marchi (cfr. archivio di Carmilla). Era bravissimo. Mi manca molto.
Luminamenti: appunto. E’ quello che stiamo dicendo un po’ tutti. Segui una discussione, ogni tanto, e leggi i libri, prima di intervenire a gamba tesa sfondando le solite porte aperte.
La forma-romanzo si evolve inglobando oggetti narrativi che all’inizio non erano considerati romanzi, e a volte nemmeno letteratura. Ho fatto alcuni esempi in questo stesso thread.
Detto questo, i “romanzi del futuro prossimo” di ciascuna epoca sono diversi da quelli delle epoche precedenti. Mi vergogno quasi a ribadire un’ovvietà del genere, che dovrebbe essere implicita. Sappiano le mie parole di sangue, Il contagio e Italia De Profundis, per fare tre esempi, hanno peculiarità di approccio e di rapporto col contesto che li distinguono da oggetti narrativi precedenti o scritti ad altre latitudini. Lo stesso Gomorra è stato accolto dai recensori di tutto il mondo come un oggetto perturbante (nel dibattito degli scorsi mesi è stata più volte citata la recensione del “New York Times”, e anche altri interventi di area anglofona).
Però qui dobbiamo intenderci: o diciamo che “nihil novi sub sole” e tutto è sempre la stessa cosa (e allora è normale non dire niente di nuovo) che si ripete, oppure rimproveriamo agli altri di non dire niente di nuovo (sottintendendo quindi che andrebbe detto qualcosa di nuovo). Tertium non datur. Finché la polemica nei confronti di questo discorso continuerà a tenere il piede in entrambe queste staffe, non caverà un ragno dal buco.
Mannò, mannò, WuMing… Lui voleva solo far sapere al mondo che ha letto Steiner.
Dopo la Vespa di Chiaberge voglio un Fulmine di Nico Orengo (tanto per restare elettrici)!
Li fa ancor, i fulmini, o si è scaricato?
Andrea, tu scrivi: “Dilata la sua prima impressione di lettura…”
Lettura sì, ma della quarta di copertina. Ripeto: i virgolettati vengono tutti da lì, e il resto è orecchiato male (“Unidentified Fiction Objects”).
Però ripeto anche un’altra cosa, detta non solo da me:
va benissimo così. Queste accoglienze sono sintomatiche.
Scusa Wu Ming la presunta discussione l’ho seguita, il libro che è proprio in stile libera fantasia l’ho letto e ho preso tanti appunti e se tu permetti capita che a qualcuno possa non piacere, non condividere senza per questo pensare sempre fuori luogo di avere subìto un’attentato alla propria integrità di scrittore. Detto questo ritengo che il romanzo contemporaneo italiano ha subìto un’involuzione (sopratutto per la prospettiva diciamo politica). Cerco altrove.
Ti auguro di rimanere alla Storia, di ritrovarti in qualcuna delle Storie delle Letteratura Italiana. Non mi cambia nulla personalmente, non ho alcun motivo di entrare a gamba tesa.
Quello che intendevo dire sottilmente e molto sinteticamente – e che hai perfettamente inteso da persona intelligente e sottile quale sei, se no non si spiegherebbe la tua reazione – è che non sono i nomi degli scrittori che citi a determinare ciò che dici, piuttosto questi autori sono l’effetto di un processo che è altrove e che nel libro non emerge per nulla. E, non credo che questa mia affermazione sia una diminuizione autoriale degli scrittori che citi, che meritano rispetto per il loro lavoro.
Insomma, non credo alla causazione così come la costruisci. Spero tu non ci trovi nulla di grave se sono sospettoso. Del resto Einaudi diventata per necessità molto più duttile ha inaugurato già dal 1973 la sua nuova (doppia?) strada, la sua critica contro il mito (pseudo)regressivo. Il caso Gottfried Benn è emblematico. Altro che gamba tesa, so esattamente di cosa parlo. Naturalmente questo non significa che io abbia ragione sebbene lo pensi fintantoché non trovi argomenti che mi persuadano. Voler far credere che arrivi qui senza aver letto e compreso è un’ingenuità. Un’ingenuita? o altro?
A me però poco importa avere risposte a questi ultimi interrogativi.
Stammi bene.
Luminamenti: sul fatto che tu sappia esattamente di cosa parli, lasciami avere i miei dubbi, almeno in questo caso.
Hai scritto una cosa che era già stata specificata, anzi, era una delle premesse di tutto il discorso. Ma l’hai detta come se fosse in contrapposizione a quanto assunto finora, e come se fosse chiara soltanto a te. Io mi sono limitato a farlo notare, poi tu prendila come vuoi.
Vedo dalla tua confusa ribattuta che continui a pensarti in antagonismo a qualcosa. Non capisco bene a cosa, ma è un tuo diritto. Dici che non trovo argomenti per persuaderti, e nemmeno qui capisco bene persuaderti di che: hai detto una cosa che penso anch’io. Forse hai opinioni che non condividi. Del resto, fai domande poi dici che non vuoi risposte. Mettetevi d’accordo, tu e te, e possibilmente senza tirarmi in mezzo. Tra vampa e svampito non mettere il dito.
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Se “cerchi altrove” e non frequenti il romanzo italiano, perché partecipare a discussioni su romanzi che dichiaratamente non hai letto? Per fare un po’ di name-dropping? Sappilo: si può essere rovinati anche dalle buone letture.
E se hai seguito il dibattito, come affermi, perché metti le mani avanti su una questione come la “diminuzione autoriale” che è stata data come ininfluente fin dalle primissime battute? Focus sulle opere, non sugli autori. E’ quasi un mantra, da una buona decina di mesi.
Quanto a tutto l’arzigogolo finale su Gottfried Benn etc., molto ovviamente è lì solo “per bellezza”, come suol dirsi, priva com’è di appigli a qualunque cosa si sia detta qui.
Starò bene.