Ha il suo lato comico, ammesso che la comicità non rientri nella cupa brama di degradazione evocata da Ferroni (vedi post sotto), scoprire come, via via, una discussione ingigantisca come una palla di neve e i contorni originali sfumino e si perdano.
Si era partiti, occorre a questo punto ricordarlo, dal possibile avvento di una monocultura del bestseller denunciato da Carla Benedetti. Si era replicato che no, questo rischio non sembrava così reale (che l’editoria di progetto esiste e produce, sia pure con fatica) e che un’affermazione del genere, eleggendo Faletti a simbolo del degrado, risentiva di un certo antico sospetto intellettuale verso il genere e in assoluto verso tutto ciò che rientra nella categoria di “popolare” (Faletti, in questo caso, e prima, per esempio, Tolkien, letteralmente e ingiustamente regalato alla cultura di destra).
Poi, via Sanguineti, si son tirate in ballo le Lecciso, chiedendosi perché gli intellettuali non cercano di capire i fenomeni di massa (intellettuali degni di questo nome, non Stefano Zecchi). Tra l’altro, ci si sofferma sulle sventurate sorelle, ma Sanguineti aveva citato anche Matrix. Che, a dispetto della posticcia etichetta di Intellectual Action Movie, concilia effettivamente, e bene, filosofia e pop.
Adesso, con Ferroni, siamo al cupio dissolvi. Una scena culturale dominata (dove?) da una setta di biechi intellettuali che fanno falò di Balzac e Mahler sostituendoli con manga giapponesi e dischi di Tiziano Ferro. Mi chiedo: quando mai si è parlato di antagonismo fra ciò che è sofferto e impegnato e il facile consumo? Semmai si è detta un’altra cosa: che sarebbe opportuno farla finita con la mistica della lettura.che fa coincidere che è buono con ciò che fa soffrire. Come se l’impegno richiesto da Joyce (o da Wallace, che non fa sconti in questo senso) non fosse comunque più vicino al piacere che allo spasimo. E’ questo che profuma di elitismo lontano un miglio: è il sostenere, fra le righe, che oltre una certa soglia possono entrare soltanto pochi privilegiati.
Ma il punto è un altro. E qui mi rifaccio a quel che sostiene nell’intervista di ieri a Repubblica Franco Moretti. In base a quali canoni la critica letteraria decide quale scrittore è degno,
elevato e nobile e quale non lo è? Ferroni ammette a denti molto stretti che qualche autore di genere raggiunge risultati di alta qualità. In base a quali criteri si decide chi la raggiunge? La vendibilità? No, perché allora Faletti sarebbe nel Pantheon accanto a Sartre. La critica letteraria, soprattutto quella italiana, dovrebbe forse rivedere i canoni con cui da troppo tempo stabilisce cosa è immondizia e cosa no: questo sosteneva ieri, con garbo e intelligenza, Moretti. Vale per Manzoni, vale per i contemporanei. Questo, se non ricordo male, sostenevano anche le vituperate neoavanguardie.
Quanto alla cultura di massa e alle merci: fanno parte del nostro mondo, parlano del nostro mondo. Scegliere di ignorarle, caspita, si può. Si può anche sostenere, come fa Ferroni, che il popolo non esiste più (e certo, Pellizza da Volpedo era un conto, ma i ragazzi di Amici sono molto meno presentabili). Ma misurarcisi, e attraverso di esse raccontare, è scelta altrettanto valida.
Poi, a proposito di Amici, ieri ho visto Aldo Busi che ha preso due dei suddetti esemplari e li ha messi a leggere Le illusioni perdute di Balzac. Certo, con costumacci avanzati da Elisa di Rivombrosa, dizione raccapricciante, facce attonite e tutto quel che disturba le persone perbene. Punto, però, per Maria De Filippi, mi duole molto dirlo.
io lo sapevo che avresti letto erroneamente l’intervista a moretti. ci avrei scommesso, è tipico di certa gente. siccome sono un tipo ottimista, preferisco crederti in mala fede piuttotosto che incapace di leggere. se pure questo è ottimismo. in realtà moretti diceva: la critica ha il vizio di stabilire solo cosa è bello e cosa no. così si ignora così il 99% delle cose scritte, che sono pur sempre il 99%. non ha mai detto, quindi, che quel 99% è bello, ma solo che esiste ed è possibile studiarlo, magari con i criteri quantitativi delle scienze esatte. tu subito hai stravolto l’idea, trasformando una giusta ovvietà (ignoriamo il 99% di quel che si scrive) in una falsa ideologia (la critica è cattiva, snob, ignora il felice popolare).
Per amor di chiarezza. Aggiungo alla frase citata da Carlo un paio di cose a proposito dell’intervista a Franco Moretti, con la quale si presentava il libro “La letteratura vista da lontano”, appena uscito presso Einaudi. Libro, sottolineava l’intervistatore Francesco Erbani, che “si candida a sparigliare le carte della critica e della storia letteraria, a mettere a soqquadro schemi e canoni consolidati”. Moretti sostiene che la critica si concentra quasi esclusivamente su pochi testi per sottolinearne l’unicità, secondo il metodo del close reading. E che soprattutto in Italia questo metodo non ha sostanzialmente subito modifiche: si studiano, sostanzialmente, sempre gli stessi autori, escludendone la maggior parte. Lo sguardo scientifico, o appunto della distanza, viene tralasciato a favore di uno sguardo normativo, che stabilisce cosa è bello e cosa no.
Non mi sembra una forzatura, onestamente, sostenere che questa sia una delle problematiche che spingono, per esempio, Ferroni, a dividere il mondo della cultura in ciò che è degno e ciò che è indegno.
Poi, Dahlgren, leggo sul tuo blog, artifiziale, che è in realtà altro che vorresti contestare alla sottoscritta, “femmina” e per di più “sguaiata”: ovvero il catalogo di falsità e furberia che traspare dalla mia recensione su Costantino.
Son qui, chiedi pure.
Davvero? E ignorare non significa esprimere già in partenza un giudizio di qualità?
A me pare ci sia un equivoco di fondo, in tutta questa discussione (tralascio la parte sui meccanismo editoriali, ché non ne so niente, e saperne qualcosa non rientra tra le mie priorità). Scriveva Covacich, a proposito dei personaggi del suo libro: “mi sono venuti fuori, proprio così, perché ne sono imbevuto fino all’osso, perché non penso e non sento altro”. E’ da qui che bisogna partire. Scriveva Bataille nella prefazione del ’57 a L’azzurro del cielo: “Come si può perdere tempo su libri alla cui creazione l’autore non sia stato manifestamente costretto?”. Ciò che rende un libro grande (o vivo, nel linguaggio della Benedetti) è l’urgenza interiore che lo percorre, che lo sostiene, che gli dà corpo. E’ una questione di tensioni, di linee di forza che traversano un soggetto. Che traversano un corpo, il corpo che scrive. Dopodiché possiamo dare sistemazione teorica a ciò che è stato messo in figura, possiamo comprenderne la funzione storica. Ma solo dopo. Una poetica, a mio parere, viene sempre elaborata a posteriori. Come la filosofia, che è nottola di Minerva. E’ una questione di voce, anzitutto. E la voce si elabora, viene elaborandosi. Prende corpo. Ed è voce che dice qualcosa se è essa stessa corpo. Forse, si potrà scrivere il mondo ‘escrivendo’ un corpo – e trovare qui il ‘fuori’ dalla rappresentazione spettacolare. Il corpo nudo, il corpo muto, il corpo singolare e irrarpresentabile, ricondotto a ciò che lo agita, ai sensi e ai sentimenti primari, elementari. Una sorta di ‘iporealismo’, direi per celia. Ma anche questa, non sarebbe che un’altra poetica a posteriori. In realtà si tratta solo di andare a fondo nelle proprie ossessioni, nei propri fantasmi, nei propri demoni. E scrivere solo ‘ultime parole’, come mi aveva scritto anni fa in una lettera un amico che scriveva, e continua a scrivere, vendendo tanto, e fregandosene delle vendite.
Alderano ha ragione.
Ferroni non ha completamente torto quando se la prende con le neoavanguardie.
detto questo, a beneficio di Dahlgren, riporto la frase di Moretti a cui immagino faccia riferimento la Lipperini:
“La critica e la storiografia letteraria continuano a svolgere una funzione normativa. Detto in altri termini: persistono nel definire cosa sia bello e cosa non lo sia. E questo a dispetto di un’attitudine esplicativa. Di chi dovrebbe dire: provo a spiegare cose complicate a capirsi”.
Da bravo nichilista, passo, passo la mano.
Saludos
Iannox
E allora guardiamoli là, uno – Moretti – sommerso da “close reading” e “cultural studies”, e “atlanti”, e “elenchi”, e “canone sì, o canone no?” intento a “tracciare percorsi in cui accompagnare lo studioso”, e mai il “lettore”, l’altro, amareggiato, – Ferroni – con la bocca all’ingù che si chiede”Ma che senso ha tutto questo che senso ha?”, magari la solita “lettrice accanita” si chiede: “Ma non sarà che l’unica forma di critica che abbia ancora un senso sia quello – alla Testori, per dirla tutta, alla Ripellino, alla Bassani, alla Barocchi – che valga come “personalissimo tracciato intellettuale” – che quindi ogni lettore accorto può tracciare da sè? – che ti trascina per via di passione, e non manca di competenza? Perchè, di nuovo, a vederli là, la solita “lettrice accanita” si chiede se non ci sia un po’ di accanimento autogiustificatorio in certi atteggiamenti. E non va bene, no. Perchè a pensarci bene, come già detto, la solita “lettrice accanita” è un po’ di autoconsapevolezza che cerca. Quella che fa “grande” uno scrittore, ma anche un “critico”, come una “regista”, un “politico” o un “operaia della Breda” o una co.co.co. La stessa – autoconsapeloezza – che da più parti, si grida, “il mercato che gira a vuoto cerca di toglierci”. Sì, ma per ripendercela, non ci serve un “autogiusticazionismo” di casta. Anzi. E’ come quando identificato “un problema” pur di non affrontarlo, si parli sempre di altro. E magari ” pure a macchinetta”.
Bellissimo l’intervento di Alderano.
Bellissima l’intervista a Moretti, l’ho letta anche io.
Non ho letto Costantino, ma a questo punto, grazie a Dahlgren, domani vado a comprarlo.
“Pronto soccorso”, d’accordo. Ma se a una poi a pensare a certe descrizioni di Roberto Longhi le piglia la malinconia? Se una semplicemente si chiede: “Vorrei leggere un po’ di critica ‘contemporanea’”
che fa? Che fa, Genna? O ci si deve rassegnare a vivere solo di ‘supense’? (Highsmith, Come si scrive un giallo, Minimum Fax 1998)
Davvero non riesco a comprendere questo delirio sulla critica, come se la critica fosse il termometro che necessariamente, segnalando la temperatura di un corpo, testimonia se il corpo è vivo o meno. La critica è un’idea moderna, che astrae completamente una funzione implicita nell’autonomia dello scrittore: leggere una tradizione e farsi dentro e fuori quella tradizione. La critica contemporanea è andata solidificando questo processo di etichettatura del passato e del presente. Essa appare televisiva nel suo messaggio catecumenale, con cui pretenderebbe di parlarci del presente. La critica residualmente autentica, come è chiaro, prescinde dall’epoca e si mette al servizio della lettura. Chi se ne frega se mette o meno in mostra l’esistenza o la vita del presente? Devo aspettare il giudizio di Cantù per avere certezza dell’illegittimità dell’esistenza dei testi leopardiani? La critica versa in questa crisi, secondo me: da un lato la sociologia la sta attraendo; dall’altro viene erosa sempre più la minoranza dei critici che forniscono, a chi vuole informarsene, di prospettive notevoli e di sguardi fuggevolmente strabici sul corpus della tradizione.
Tutto ciò non ha a che vedere con la letteratura del presente.
Ammesso e non concesso (io, per esempio, non lo concedo) che la selezione editoriale sia un atto critico, resta da vedere in futuro quali testi si saranno depositati nella memorabilità attraverso una sedimentazione storica, che per me rimane popolare. Non vedo un critico che, nel momento in cui si fa l’Odissea, sta lì a dirci che si tratta di un testo vivo. Mi attendo da un critico un giudizio diverso: perché Pavese, distrutto dal critico Mengaldo quanto alla sua produzione poetica, è un grande poeta del Novecento? Se arriva un critico e stravolge il giudizio di Mengaldo, offre a tutti nuovi strumenti di lettura e di scrittura. Questa “tecnica” a cui fa riferimento la critica, non è la “tecnica” della scienza, e mi paiono perdite di tempo gli esercizi filosofici sulla questione della tecnica in letteratura – questione che esiste, ma in altro senso.
L’altro giorno, a un amico poeta, chiedevo quale manuale di retorica ricordi che si occupa della retorica della domanda? “Forse Quintiliano” mi risponde. Ciò a me basta per delineare lo stato della critica, che è da pronto soccorso. E, come la retorica della domanda, mi chiedo: in un’epoca (epoca… semmai, pochi anni) di glorificazione del giallo/nero, dove sta un testo che si occupi di come si struttura la suspence? O che la discuta, per esempio dicendoci se la suspence è questione di trama o no?
La critica, al momento è morta, come del resto è accaduto in passato, mentre non si è mai dato il caso che la letteratura sia morta, anche se si tratta di letteratura che può non piacere.
Quanto a tutto ciò che dice Ferroni: trattasi di autentica misinterpretazione totale – del mondo, della critica, della letteratura. Peggio: si tratta del solito inveramento delle leggi politiche che l’accademico vorrebbe contestare.
(PS per Dhalgren: quando tu insisti sulla combinatoria, cosa stai facendo? Critica? Filosofia? Auspicio? Aruspicinio? Non è una domanda provocatoria. E’ soltanto un chiarimento rispetto al fatto che, secondo me, tutto ciò che si sta facendo in questi anni, in Rete, non è assolutamente la critica. E’ un’altra cosa).
La risposta per Alberto: manco lontanamente la discussione è partita dal libro su Costantino. E’ semmai partita dalla risposta di Lipperini all’articolo di Carla Benedetti.
Ciò detto, la questione esiste. Se un intellettuale come Ferroni viene a dare per scontato che “il popolo non esiste più”, sul piano della discussione intellettuale risulta che ci sono grosse questioni irrisolte. A moltissimi non frega niente, di questo fatto. Devo dire che nemmeno a me frega molto. Io desidero soltanto leggere libri che mi piacciono e libri che non mi piacciono. Il discuterne, poi, lo scazzare e il concordare: questa è socialità, non critica. Per me questa socialità è un valore, sono contento se accade.
Ma allora lo scrittore compie o non compie un gesto critico quando scrive? Secondo me sì, ma se mi ‘allungo’ in questo senso vado fuori tema, no, Loredana? Comunque, caro Genna, ti stavo suggerendo un bel testo sulla ‘suspense’ di una che oltre a descrivere cos’è, notoriamente sa anche fartela provare quando leggi i suoi romanzi.
Ilpostodeilibri ha fatto bene a usare la parola “casta”. Oggi la difesa di casta porta ad affermazioni radicali o a geremiadi inutili come quelle di Ferroni.
Una domanda a Genna, dal momento che non è inconsueto trovarlo qui, od anche al sodale Monina: avevate preventivato di suscitare tutto questo? La domanda è retorica.
La Highsmith non è una critica. E, quanto a Longhi, mentre scrivevo di Mengaldo su Pavese avevo in mente Mengaldo su Longhi, nel saggio sul Meridiano!
Sulla questione Ferroni non intervengo. Lui è fatto così, all’antica. Probabilmente giocava alle bilie insieme al buon Raffaele Simone Raffaele (non ricordo l’ordine esatto), e di lì non si è mosso. Invece rispondo in volata, e con colpevole ritardo a due interventi di qualche tempo fa (intendo qualche minuto, invero). Al tipo di artifiziale non so che dire. Questo è il mio intervento. Ad Albertog invece rispondo (e questo vale anche per il tipo di artifiziale, sempre invero) che no, Giuseppe prima ha detto una menzogna. In realtà noi, oltre che scrittori affermati (oh, ieri ci recensivano pure su Repubblica…), siamo in realtà e più che altro dei geni della comunicazione. Per dire, adesso postiamo un po’ meno qui perché siamo impegnati a postare sui blog dei recensori di Tuttolibri della Stampa, di Alias del Manifesto e del Corriere Adriatico (sai, un po’ di sano provincialimso e campanilismo non guasta mai…). Se anzi ti interessa una folgorante carriera nel mondo dello spettacolo, facci sapere, nel giro di poco riusciremo a farti guadagnare copertine e passaggi a Verissimo e da Cucuzza. Per il compenso poi ci mettiamo d’accordo.
PS
Oggi è cominciato il giro degli Ipermercati (anche qui, la nostra padrona di casa si è presa una bella mazzetta dal tipo degli Iper per il titolo di ieri su Repubblica, c’è da scommetterci…). Poi ve ne daremo conto. Attendiamo, ovviamente, offerte economiche per l’esclusiva
Michele
🙂
Monina, tutto questo spirito acrimonioso mi mette in sospetto. Non mi sovviene di aver scritto di complotti fra voi due e la signora titolare. Ti ho invece chiesto se pensavate di suscitare il pandemonio che si sta verificando intorno al libro.
Cortesemente, non associatemi nelle vostre risposte al signor artifiziale, che mi pare militare in schiere politiche e mentali molto lontane dalle mie.
AlbertoG, non era acrimonia e non si tratta di sospetti, ma fatti. A domanda rispondo. Lungi da me la volontà di farla impermalosire. Per quel che riguarda artifiziale non so che dire. Lo ripeto.
abbracci e pan di stelle
Michele
E anche qui, su quale sia l’esperienza “culturale” migliore per il popolo: sarà meglio dare origine a una bella “canzone popolare” – che la generazione dopo magari ti dice pure che fa cagare – dopo aver fatto dodici ore di lavoro sotto caporale, o sarà meglio non produrla la canzone, e starsene spaparanzati davanti alla TV? Chi lo dice che cosa è meglio per “sto popolo”? Tutto sommato la Tv qualche vantaggio l’avrà pure, no? Certo, magari chi ha la cattedra di “canzoni popolari”, toccherà che si adegui.
In mezzo al botta e risposta Ferroni-Moretti posso provare a buttare una terza intervista a un critico letterario, una conversazione che alla faccia della Vespa domenicale del Sole 24 ore è tanto lunga quanto nutriente? Roberto Andreotti e Mario Lavagetto sull’ultimo Alias. In cui si articola, tra le tantissime altre cose, il concetto – che è forse il caso di applicare in questa discussione – di “antropologia spontanea dei critici letterari”, un’espressione, dice Lavagetto, “rielaborata da Althusser che vuole indicare quel determinato fenomeno per cui a un certo momento succede che il critico letterario, torvandosi a malpartito, si rifugia in una serie di antropologemi, cioè di riflessioni di carattere generale sul “noi uomini”, sull’essere uomini e via dicendo”.
Quanto alle merci, ho il sospetto che l’ubriacatura di strutturalismo, linguistica, semiologia ecc. ecc. che la critica s’è fatta nel corso degli affluent sixties non sia affatto passata, e che il modello strutturalistico-semiologico – dopo un parziale periodo di rielaborazione attenuativa – sia tornato in tutta la sua virulenza a muovere le penne (le tastiere) dei critici. La pervasività del Testo, la sua centralità indiscussa e indiscutibile ha messo fuori gioco qualsiasi altro modello basato su una ipotesi di eteronomia letteraria o artistica. Se si privilegia l’ottica del testo si relega nella soffitta della sovrastruttura tutta la portata simbolica della Merce, il potente flusso di immaginario che convoglia. Quante stroncature di Aldo Nove avete letto che puntassero SOLO sulla presenza martellante di marche e merci nelle sue pagine? Io tantissime. Raccontare la merce è una delle poche opzioni radicalmente rivoluzionarie che sono rimaste agli scrittori contemporanei, e spesso le migliori riuscite nascono proprio da lì (penso agli “album commerciali” e alle “scene dal supermercato” di Tommaso Ottonieri, tanto per dirne uno). Ferroni andrà al supermercato?
Una nota in margine a Ferroni. Il popolo non esiste, afferma. messa così, parrebbe nostalgica (e in parte lo è). Ma credo che questa affermazione vada letta alla luce di quanto viene detto immediatamente dopo. Ovvero che è venuta meno l’autonomia della cultura popolare. E questo è evidente nella musica, più che altrove: laddove prima proliferavano canti popolari, immediata espressione di un'”anima” popolare, di una sua creatività autonoma, di un suo linguaggio – oggi la musica popolare, semplicemente, non esiste più. E non esiste più nella misura in cui sono mutate radicalmente le forme di trasmissione della cultura, che impediscono a qualcosa che potremmo chiamare ‘popolo’ (ma prima di tutto occorrerebbe porsi l’obiettivo minimo di definirlo, questo ‘popolo’) – gli impediscono, dicevo, di articolare un suo linguaggio, ma gliene impongono uno. Alla radice di tutto, insomma, o a chiudere il cerchio (e Ferroni lo dice) c’è la perdita dell’esperienza. Mi pare che questo sarebbe un elemento degno di riflessione, e non di essere liquidato in fretta.
tu hai scritto in modo tale da far intendere che moretti ha proposto una nuova scala di _valore_, mentre lui di valore non ha parlato affatto. non ha neppure messo in dubbio la scala di “buoni e cattivi” della critica, limitandosi a dire che esiste un altro modo di fare critica e di vedere la letteratura, diciamo così come puro fenomeno, come si osservano gli insetti e le reazioni chimiche. che è giusto, anche se personalmente poco mi attira, ma non ha nulla a che fare, nè pro nè contro, col discorso che apparentemente vuoi fare sulla letteratura di consumo eccetera. la forzatura che fai del testo mi pare evidente, e basata su un pregiudizio non dissimile da quello che, a tuo dire, anima tanti critici. quanto al tuo articolo su repubblica, pubblicalo qui e ne parliamo.
Hai ragione, Alderano. Ma io davo per scontato che esistesse ancora, “il popolo”. Se no sarebbe serio chiedersi quando è nato e perchè dovrebbe essere morto. Se non lo facciamo adesso è perchè mi pare che andremmo fuori tema. Sei d’accordo?
Mi è piaciuto biondillo.
Mi occorre però una precisazione.
Nella mia vita ho conosciuto ciarlatani che non avevano pubblicato neppure uno straccio di libro, che non avevano letto neppure un autore italiano (e non solo) vivente, che si erano rifocillati di tritume sottogenererico e sottofumettistico e, bellamente, tenevano (e tengono) corsi di scrittura creativa. Mai come in questa categoria siamo nella truffa più assoluta. Solo quelli che insegnano arraedamenti d’interni e astrologia forse li battono.
Ma… dato che ho conosciuto anche scrittori di bella levatura che questi corsi li tengono, mi viene da dire (non ne ho la minima idea di come siano strutturati, non ne ho mai frequentati né come studente né come relatore) che oggi, forse, proprio chi sta facendo un bel lavoro sull’analisi del testo, sulle strutture, sulle tipologie di scrittura (e dico tipologie, non generi), cioè quello che dovrebbe fare la “critica” ufficiale, forse chi la sta facendo oggi la cosa più vicina alla critica (cioè capire perché un testo è valido e vivo, rispetto ad un altro) sono proprio quegli scrittori, che fanno “critica operativa”.
Oggi la “critica laureata”, superato strutturalismo, sociologismo, e “ismi” vari (anche se, “peccato” mi viene da dire, molti “universi analitici” erano, oltre che comodi, precisi) si arrocca per non perdere posizione. E la perde. Perché non ha peso né per la letteratura ”antagonista” (passatemela, dai) né per il il dorato mondo di premiopoli. Perché nessuno mi toglie dalla testa che è vera vergogna che lo Strega nel 1950 andava Pavese e 50 anni dopo va alla Mazzantini. E’ l’abbruttimento del mondo letterario ufficiale.
Pare assurdo che ancora si debba difendere “il genere”, ha ragione Genna, che lo dice da mesi. Ancora questo discorso? Ma quando lo superiamo?
D’altronde, se un “critico laureato”, nel 2005, parla di paraletteratura per indicare il “genere” (la “tipologia”, io dico, che è ben altra cosa) ti cascano le braccia. Altro che avanguardia (posso dire, en passant, che anche l’avanguardia storica, quei simpaticoni del gruppo ’63 ad es., mi ha un po’ rotto le palle con il suo voler stupire a tutti i costi?), altro che Latoguardia, qui si combatte una faticosa, estenuante guerra di retroguardia, di trincea, infinita. Basta, per Dio!
Se fosse per questa patetica pozza che tutti scambiamo per un lago dorato, mi passerebbe la voglia di scrivere, giuro (e chi se ne frega, potreste dire, a ragione).
Io, ad esempio, ho sempre reputato Luzi un poeta di secondo livello, un minore, che ha avuto la fortuna-sfortuna di sopravvivere alla sua epoca e, solo per questo, di essere scambiato per un maestro indiscusso (qualcosa di simile è Monicelli nel cinema). Poi ne frattempo a Stoccolma decidono che Dario Fo è da Nobel. Al di là del suo effettivo valore, mi viene da pensare: ma i vecchietti dell’Accademia di Stoccolma sono molto più vivi, arzilli e attenti a ciò che è “vivo” nella letteratura italiana che gli omologhi colleghi italici? Siamo messi bene!
Molto interessante e pieno di perle, il blog di Dhalgren. Eccone una:
“è innegabile che la sinistra degli anni settanta aveva desideri e idee immorali e anche criminali. oggi stupidamente li rinnega.
un ricchione può essere fastidioso, ma un ricchione a modo è intollerabile.
tanto peggio, tanto peggio.”
La Lipperini, Lei perde tempo a disquisire con questo?
ilpostodeilibri, la questione
non è sapere che cosa è
meglio per il popolo. o almeno
non era di questo che stavo
parlando. la questione che
pongo sta a monte: visto che
si parla di popolare,
occorrerebbe definire la
nozione di popolo. e ancora
prima capire se il ‘popolo’
esiste. (e ancora, se sia lo
stesso di un secolo fa: e se
non lo è, come sarà possibile
usare ancora la categoria di
nazionalpopolare?) Insomma,
se il ‘popolo’ (in quanto
soggetto culturale) non esiste
più, ha senso parlare di
‘popolare’?
OT, scusate ma non resisto a quest’altra perla di dhalgren:
“accanirsi o no contro la fanucci per le sue edizioni? sicuramente potevano trovare una postfatrice meno femmina, per questo follia per sette clan; una che, dopo aver diligentemente contato le parole di dick, non se la pigliasse con lui perchè era un tipo che guardava le zizze”.
Alderano ha centrato il bersaglio, talmente bene che neppur io mi sento di liquidare la questione di cosa sia il popolo e cosa il popolare nello spazio di un commento.
Vi chiedo se quanto segue è critica: si parla di allegoria, morte, intervento delle forze di polizia, di suspence, di carnacialesco, di comico, di morte:
DALLE NEWS DEL CORRIERE DELLA SERA
06 feb 21:34 Cuneo: muore schiacciata da un carro allegorico
MONDOVI’ (Cuneo) – Muore travolta da un carro allegorico dopo una sfilata del carnevale di Mondovi’. La vittima e’ una donna di 48 anni di Murazzano, nel cuneese. Era salita sul carro ed e’ morta dopo essere caduta sotto le ruote. Soccorsa dal 118 e’ morta dopo poche ore. (Agr)
Serena, così per curiosità, ma poi hai letto anche il resto del suo post?
Che se non l’hai letto, e giudichi così per tre righe, la tua credibilità scende rasoterra, evabbè. Ma se davvero l’hai letto, e poi lo stesso ti sei sentita di scrivere questo commento, allora la cosa è davvero grave
“Poi, a proposito di Amici, ieri ho visto Aldo Busi che ha preso due dei suddetti esemplari e li ha messi a leggere Le illusioni perdute di Balzac. Certo, con costumacci avanzati da Elisa di Rivombrosa, dizione raccapricciante, facce attonite e tutto quel che disturba le persone perbene. Punto, però, per Maria De Filippi, mi duole molto dirlo.”
_____________________
Aggiorna il tuo pallottoliere.
Qualche giorno prima il Busi rivolgendosi alle ragazze di Amici ha pronosticato per loro una splendita carriera da prostitute visto che non sanno parlare, non sanno leggere, non sanno recitare e soprattutto non hanno voglia di studiare.
Punto a favore o contro fai tu.
Continuiamo pure a parlare di Busi e dei suoi consigli per gli acquisti (libri)
http://www.mariadefilippi.it/amici/articoli/articolo_42.shtml
Niente di male. Ci mette la sua faccia e consiglia delle letture.
Ma poi viene il bello, dal sito di jumpy:
____________________ http://www.jumpy.it/Canali_J/Maria_De_Filippi/
“LA PAGINA CULTURALE DI ALDO BUSI
Se hai letto i libri che Aldo Busi ha consigliato e hai voglia di parlarne con lui chiama al telefono 199.11.88.33”
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Numero di telefono a pagamento. Ma il Busi lavora pure in un callcenter?
Punto a favore o contro?
P.S.
Scusate la mia scrittura poco elegante ma io sono ignorante.
Se tutto questo letamaio che ci circonda viene spacciato per cultura io preferisco rimanere…..
IGNORANTE.
Cara LaLipperini, spero di avere il tempo di leggere per bene stanotte tutta la sfilza dei commenti: sono fermo ai primi e quindi mi astengo dal dire la mia (che poi mia tanto non è). Però mi domando: perché non cambi nome ai commento? Anziché: scrivi quel che pensi, pensa quel che scrivi!
(Ho paura che appaia troppo normativo. Facciamo: scrivi pure, ma pensa a quel che scrivi).
(A Ferroni direi solo: perché critici e intellettuali – e filosofi – non la smettono di usare a spiovere la parola nichilismo?)
Buongiorno. Sono debitrice di molte risposte, vedo.
Comincio da Massimo: d’accordissimo sull’uso improprio della parola nichilismo. Quello che maggiormente mi turba dell’intervento di Ferroni, pero’, e’ la parte sulla ex paraletteratura, sul popolo e sul popolare. Ovvero:”questi prodotti non si appoggiano su quella che un tempo era la morale «popolare», ma su modelli artificiali, su manipolazioni di schemi e simulacri ricavati dai media e non da concrete esperienze”.
E qui vengo anche all’intervento di Alderano: che, si’, non puo’ essere liquidato in fretta. Ma alla sua richiesta di definizione di popolo (ed eventualmente della sua certificazione in vita) unisco una seconda richiesta: con quali canoni e’ possibile definire cosa sia il popolo oggi? Dobbiamo tenere ancora per valida la distinzione fra “naturale” e “artificiale” che si deve alla primissima antropologia? Il fatto che, chiamiamola cosi’, la massa faccia propri costumi, culture, linguaggi “calati dall’alto” impedisce la creazione di una cultura, appunto, popolare, o questa nasce comunque, dopo e contemporaneamente all’intervento del presunto artificiale, sotto altre forme e con altri criteri?
Come vedi, e forse grazie al cielo, ho domande, e non risposte.
Null. Anch’io sono ignorante: e infatti ignoravo i pregressi di Busi ad Amici e il callcenter. Mi sono limitata a notare che portare Balzac dentro un programma che e’ il simbolo stesso di cio’ che molti (ma anch’io) chiamerebbero il degrado, e’ un gesto notevole.
Dalhgren, liberissimo di vedere in quanto ho scritto tutti i pregiudizi che credi. Penso di averti gia’ risposto per quanto riguarda la segnalazione di Moretti. Se ritieni il contrario, pazienza.
Refusi e errori ogni tre-quattro righe, portate pazienza! 🙂
Gianni, non lo so se quello che si fa nei corsi di scrittura può essere consiederato come un brillante sostitutivo della critica. I testi smontati e rimontati dagli scrittori nei corsi vengono sezionati con fini e spinte assai diverse, se non opposte, da quelle che muovono – o dovrebbero muovere – il lavoro dei critici. Lo sguardo dello scrittore su un testo è uno sguardo interessato, ammirato, complice, o al contrario idiosincratico, infastidito, ironico; il critico lo affronta (dovrebe affrontarlo) con accensione intellettuale, curiosità libera da tecnicismi o “trucchi del mestiere”, passione disinteressata. Scrittore e critico sono due cose che non andrebbero confuse (non lo stai facendo, eh!). Che poi, attingendo agli strumenti che gli sono propri (memorie autobiografiche, filologia, retorica…) il critico applichi sui testi uno sguarda COME SE fosse uno scrittore, be’, tanto, ma proprio tanto, di guadagnato: per fare un nome, a me vengono in mente i saggi di Cesare Garboli.
In effetti, Piero, la mia può sembrare una forzatura, quello che voglio dire è che oggi qualcun altro sta facendo il mestiere che dovrebbe essere del critico. (lo scrittore, per sé, lo ha sempre fatto, è che sono una novità, per noi in Italia, i corsi di scrittura creativa, mi chiedevo quale fosse il loro effettivo scopo e quello che tratteggio mi pare ottimo)
Però, ti chiedo, sei così certo che “il critico laureato” non abbia (come dici tu dello scrittore) “uno sguardo interessato, ammirato, complice, o al contrario idiosincratico, infastidito, ironico” del testo scritto?
Gianni, hai ragione, qualcun altro sta facendo il mestiere del critico. Mi viene dunque da chiedermi il motivo del ruolo ancor centrale della critica nel nostro pensiero…
Non è esattamente un OT. Andatevelo a leggere perché è strepitoso: http://www.carmillaonline.com/archives/2005/02/001211.html#001211
Loredana, non essendo le mie domande retoriche, nemmeno io ho delle risposte. Non credo alla distinzione tra ‘naturale’ e ‘artificiale’, come se vi fosse un popolo puro, incorrotto, e uno che è ‘decaduto’. Credo che il ‘popolo’ sia un concetto storico legato alla costruzione della nazione, e che oggi non sia molto utile. Il ‘popolo-gente’ che ci troviamo di fronte è molto differente, a cominciare appunto dal fatto che non produce più una propria epica (e una propria etica). Non si racconta più (come faceva, ad esempio, nella narrazione musicale), non produce più un linguaggio autonomo. E’ raccontato, piuttosto. Gli si manda la sua immagine rovesciata, e lui la fa propria. Ma senza appropriarsene, temo. Agisce in maniera del tutto inconsapevole. Mancano gli spazi, per farlo. (Forse la rete è uno dei luoghi che consentono di sfuggire all’imperialismo dello sguardo spettacolare, uno dei luoghi dove si può reinventare un linguaggio). Parlare di ‘popolare’ può implicare l’illusione che vi sia un soggetto compatto, che sa quel che vuole e dice quel che sa. E allora ci sarebbe solo da ascoltarlo, quel soggetto. Ma se quel soggetto è muto, e se poi scopriamo che il suo mutismo è dovuto al fatto che nemmeno esiste più? Non sarà, paradossalmente, che nell’inseguire il suo linguaggio operi una nostalgia, e una riproposizione, dell’intellettuale organico?
Non esiste il nichilismo letterario? c’è poi il nichilismo di Vattimo e poi il Nichilismo di Severino. Siamo o non siamo in un’epoca compiutamente nichilista? E’ uscito recentemente per la Laterza pure un testo sul Nichilismo giuridico.
Non mi risulta che esista un libro di critica letteraria che parli compiutamente del Nichilismo in Letteratura.
Secondo me potrebbe benissimo starci, ma non penso a Ferroni.
Non e’ affatto un OT! Gianni, mi hai preceduta di poco: ed e’ davvero strepitoso…
ilpostodeilibri (ma insomma un nick un po’ più maneggevole potresti offrirlo…;)) – lo sapevo che era difficile. Ma bisogna discutere solo di ciò che è già scontato? Forse parlare di che cos’è il popolo può indurre a sciogliere il discorso nei suoi elementi atomici – o forse a farne emergere un altro che lo sorregge, e che è il Rimosso. E insomma, tutti gli interrogativi che poni (ad alcuni avrei delle risposte) non fanno che evidenziare la pericolosità nel usare termini di cui non si sia sciolta a priori l’ambiguità. Parlare di Spettacolo, invece i popolo, mi sembra di gran lunga preferibile. Bisogna confrontarsi con il linguaggio spettacolare? Benissimo, chi vuole può farlo, e non per questo vale di meno, per dir così, da un punto di vista letterario. Se è questo che vuoi dire, Loredana, d’accordissimo. Mi pare peraltro che talvolta si rischi l’eccesso opposto (come è proprio delle polemiche dove ognuno spinge sulle polarità). Ovvero dire che c’è una poetica sola, che è oggi adeguata a confrontarsi con lo spettacolo. Insomma, non vorrei che si lavorasse per stabilire nuovi canoni. Fuori e contro l’accademia, ma pur sempre dentro la medesima logica.
Forse, e forse no. Ma e’ sul fatto che sia muto che ho qualche dubbio, Marco. Forse bisogna cercare e cercare con attenzione, ma l’idea che qualcosa (vabbe’, lo scrivo) dal basso sia possibile e forse ci sia gia’ non mi abbandona. Il punto su cui insisto e’ che bisogna almeno guardare a quel che succede nel regno del nazionalpopolare-massa o comunque vogliamo chiamarlo. E’ questo sguardo che Sanguineti, giustamente, chiedeva: non l’uniformarsi verso il basso di un linguaggio. Poi: il rap scritto da Sanguineti medesimo non regge, evidentemente, il confronto con il rap “spontaneo” (lo virgoletto perche’ dovremmo discutere molto anche su questo: piu’ tu, che sei piu’ competente di me in materia). E’ altrettanto evidente che i rap di Arbasino sono divertimenti estetici. Tutto quel che vuoi. Ma e’ sempre qualcosa rispetto a quel che invece mi sembra accadere nella maggior parte dei casi: e cioe’ che dopo anni di ubriacatura postmoderna, si stiano serrando i ranghi, le gabbie, le distinzioni come prima e forse peggio di prima…
Allora, il popolo. Se il popolo comincia a esistere con la formazione della “nazione”, allora quello romano, cos’era? Sarà quello che si viene a formare con l’affermazione della grande industria, “il popolo” per elezione? O sarà il famoso “popolo -bue” il vero popolo? ‘ la “gente”? Dipenderà dal tipo di lettura che si dà alla parola? Perchè il “popolo” in senso sociologico sarà diverso dal popolo inteso come “comunità”? E diverso ancora se la prospettiva sarà giuridica o puramente linguistica? E il popolo c’entra con la “folla”? Per quanto tempo con la parola “popolo” si è intesa la comunità dei “senza diritti”? E se così fosse oggi allora il popolo non sarebbe più la “comunità operaia e medio-impiegatizia”, come pure è stato per tanto tempo, ma la “comunità precaria”, perchè i senza diritti oggi sono -siamo?- loro? Insomma “i cittadini” sono il popolo, o il popolo è un concetto più largo, che coinvolge anche quelli che non hanno diritti di cittadinanza? Alderano, te l’avevo detto, no, che era complicato?
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Hai detto degrado?
Missione compiuta da parte mia 😉
P.S.
Per Amici & Co sono ancora più ignorante rispetto a tutto il resto; mi sono documentato tanto quanto basta a sostenere una discussione con una persona a me cara.
Sono sempre io:
Nessuno.
Tanto cambia poco per i post non griffati.
E va bene, caro, alderanomarcorevelli, chiamami “post”! Spero si capisca che se pongo degli interrogativi non è per polemica. Io più che la parola “popolo” ne userei una che fa un po’ Eco un po’ Moratti. Parlerei cioè di “fruzione”. In questo contesto, guarderei più all’oggetto che al soggetto, visto come è stato impostato il discorso, e per rimanere sul tema che la gentile padrona di casa ha posto “sul piatto”. Che cosa – quale prodotto -viene guardato, letto, “fruito”? (Elenco) da chi? (Elenco) Davvero un prodotto scadente – non è che non ce ne siano – toglie “audience” ad altri prodotti che “…noi sappiamo quali sono, che non hanno spazio, e però ve li diciamo dopo…”? Quali sono questi “prodotti impediti”? A che cosa toglie spazio Matrix? Che cosa è impedito da Faletti di essere visto, soprattutto in Italia? E: agli autori delle “case editrici più raffinate” quanto importa di essere o meno letti dal “popolo” spaparanzato sul divano? Questo è il primo punto. Un altro punto, che riguarda “i produttori economici” degli oggetti da “fruire”. Perchè ai “piccoli editori” fa quasi impressione parlare di “cultura sovvenzionata?” Hanno o no i piccoli editori – più dei grandi – diritto ai “soldi pubblici”? Il governo – questo, quelli precedenti – quanto stanzia per i “piccoli editori” che non hanno il dovere di “fabbricare besteseller”, e hanno diritto a “produrre cultura” con un minimo di libertà? Che tipo di comunità è quella che se ne fotte della “cultura”? E perchè negli “intellettuali italiani” c’è – storicamente – quasi sempre un senso di colpa a “chiedere” e si preferisce piuttosto il lamento, o la strafottenza (“Ah, i ragazzi a scuola non studiano più niente! Ah, su Internet ci vanno quelli che non hanno ninete da fare! Ah, io l’editore ce l’ho e grande, che me ne frega di contribuire a una battaglia che riguarda i piccoli editori?”). Il problema non è il “popolo”, non sono “i ragazzi” non sono i “nullafacenti” – nella cui schiera io mio malgrado mi inserisco. Il problema è che i diritti sono – questo sì, da sempre – terreno di conquista e di lotta, che si sia o no popolo. Ci sono momenti in cui è più “facile” – le comunità più facilmente funzionano, le idee più allegramente si travasano – e altri in cui quasi ci si vergogna, o ci si dimentica, di essere “detentori di diritti”. Ecco, scusa, se mi sono ‘allungata’ un po’ ma è che io la “cultura staccata dal sociale” – che come tale prevde sempre la lotta – non riesco a concepirla. Sbaglio? E allora, non è che non ci siano “terreni di lotta”, motivi di lamentela, – capisco Ferroni – o di distrazione giocosa – capisco Moretti coi suoi atlanti, e elenchi, e elenchi e elenchi – ma, come dire, che ci sia, aridaje, scusate se mi ripeto, un po’ di sana consapevolezza. Ecco perchè la parola “rvioluzione” usata da Moretti, mi faceva un po’ sorridere.
No, Marco. In questo hai ragione: la polemica falsa i toni della discussione. Non si tratta di anteporre un canone all’altro, ma di far si’ che i canoni siano molto piu’ fluidi di quel che sono (e a questo punto bisogna cambiargli nome, non son piu’ canoni…)
Ecco, Null, in che situazione mi metti: se scrivo che per me tutti i commenti sono griffati mi dai della populista. Non vale.