RAIMO E L'INDUSTRIA DELLO SPETTACOLO

Spazio per gli ospiti.
L’ospite, in questo caso, è Christian Raimo, che mi invia questo intervento concepito per Liberazione. Voilà.

Tempo fa incontrai un ragazzo, capelli lunghi, biondi, completo grigio e stivali, di poco più di vent’anni, sul treno che da Ostiense va a Roma Nord e poi a Viterbo. Si avvicinava alle facce stanche delle otto di sera dei pendolari e gli chiedeva se erano interessati ad avere una possibilità nel mondo dello spettacolo. Mostrava depliant, tesserine, foto, ritagli di giornale, spiegava la necessità e quasi la generosità di questo lavoro che stava facendo: cercare talenti nascosti tra le infermiere a fine turno del Policlinico Gemelli e gli studenti fuori sede di Cesano. Tutti, praticamente tutti, gli lasciavano il numero di cellulare. Tutti dicevano che sì avevano una vocazione artistica parallela che coltivavano o che avrebbero voluto coltivare: chi ballava tango, chi scriveva poesie, chi si sentiva semplicemente “portato”. Per tutti il ragazzo biondo tirava fuori una possibilità: un’accademia del musical, un corso di scrittura, un agente-counselor. E soprattutto assicurava i viaggiatori che non stava vendendo fumo. Le persone di punto in bianco si rianimavano.

Mi è tornato in mente questo tizio quando qualche giorno fa ho preso in mano il nuovo libro appena uscito per Coniglio Editore, Uno su mille ce la fa. Tutto quello che c’è da sapere per entrare nel mondo dell’industria musicale, di Marcello Villella e Leopoldo Lombardi. Dove, a un certo punto, nella prima pagina del viene fornito un consiglio preliminare: “Evitate le scorciatoie: nessuno vi può garantire la partecipazione a un festival importante o la firma di un contratto discografico. Prestate ascolto piuttosto a chi vi offre possibilità serie di lavoro, mettendovi a disposizione persone e mezzi per crescere artisticamente e ponendovi così nella condizione migliore per sviluppare la vostra «arte»”. Sembra un avviso di buon senso, o se non altro una dichiarazione di onestà, rispetto ai brividi che mi mise il ragazzo biondo, dieci anni meno di me e così arcisicuro di sé e di come era fatto il mondo che c’era fuori dal treno.

L’unica cosa che allora mi è risultata fuori posto nella citazione è un’inezia, ossia quelle virgolette alla parola “arte”. Perché quelle virgolette non sembrano soltanto il frutto di un non inusuale utilizzo eccessivo della virgolettazione (in questo libro, solo nelle prime 4 pagine: “nuovi talenti”… una finalità “accademica”… non costituisce un “manuale per il successo”… i “media”… scoprire “il magico mondo dell’industria della musica”… vi allettano con “scorciatoie per il successo”… “fare gavetta”), ma sono l’esito della pacifica considerazione condivisa oggi in modo assoluto che la creazione artistica – l’arte fuor di virgolette – non abbia in sé un valore che s’interroghi, che si ponga in modo critico, trasformativo, inventivo rispetto non dico al mondo, al proprio posto nel mondo, alla società, etc… ma a quelli che sono i mezzi di produzione e i canali di comunicazione: l’arte è oggi appunto una competenza come un’altra.

Questa creatività di massa, o meglio: questa performatività di massa, può essere considerata però da due prospettive differenti. Da una parte è sicuramente una conquista democratica: l’Henry Jenkins di Cultura convergente cita all’inizio di un suo recente intervento (scaricabile in rete) sull’educazione e i media uno studio del Pew Internet and American Life Project per cui più della metà dei ragazzi americani possono essere considerati dei media-creators, se con media-creator s’intende chi apra un blog, un sito internet, metta in rete materiale artistico originale, fotografie, racconti, video, oppure elabori on-line materiale altrui. Dall’altra parte, a quest’allargamento non corrisponde una consapevolezza del proprio lavoro che non sia una pura competenza tecnica. Rispetto alla creazione artistica diventa marginale se non inessenziale la capacità di intervenire in modo alternativo sulle condizioni, normative, economiche, dell’industria culturale. Ossia, l’arte, la creazione artistica non viene considerata prima di tutto qualcosa che possa creare spazi di libertà all’interno di quest’industria. 

Il senso di scandalo per l’invasività dell’industria culturale (allora non sinonimo perfetto di “spettacolo”) che Adorno e Horkeheimer lasciavano sfogare già cinquant’anni nella loro Dialettica dell’illuminismo oggi sarebbe del tutto incomprensibile. Se, per esempio, nello specifico che descrivono Villella e Lombardi, la tendenza dell’industria musicale è decisamente opposta; ossia: a fronte della crisi del mercato dei cd, un’etichetta come la SONY-BMG ha “introdotto a livello mondiale una nuova tipologia di contratto denominato Full Management, in cui la vecchia casa discografica diventa un partner totale dell’artista e ne gestisce non solo le registrazioni musicali, ma anche i live, le sponsorizzazioni, le apparizioni televisive, le edizioni musicali”. Insomma – se stiamo parlando di un artista – la vita.

L’articolazione sempre più capillare di quest’industria dello spettacolo, è evidente. Si impongono modelli artistici come quelli dei ragazzi di Maria De Filippi, che diventano protagonisti di musical e scrivono romanzi. Nascono università dello spettacolo. Fioriscono riviste di casting come Prove aperte. Si gemmano mostruosità educative come il Master in Conduzione Televisiva (direttrice didattica Maria Teresa Ruta). Senza che però nulla di tutto questo si risolva in una parallela crescita di una coscienza di una condizione comune di cosa vuol dire essere questo tipo di lavoratore. E così, per fare un esempio facile, in Italia episodi come lo sciopero degli intermittenti in Francia due anni fa o quello degli sceneggiatori a Hollywood l’anno scorso sembrano lontani anni luce. Chi pensa mai di collegare la propria “arte” uno strumento per una maggiore presa di coscienza dei propri diritti?

E alla fine il disagio di fronte alla macchina perfetta dell’industria dello spettacolo si manifesta al massimo in uno stronzo detto a bassa voce da Tricarico dal palco di Sanremo a Chiambretti che gli fa il verso di nascosto. O nel mio mutismo di fronte al ragazzo biondo sul treno, che insisteva: “Ma dai, lasciami il telefonino. Ci sarà qualcosa che ti piace fare, no?”

 

Un pensiero su “RAIMO E L'INDUSTRIA DELLO SPETTACOLO

  1. Tema sviluppato in modo non banale (ma nemmeno approfondito a sufficienza, secondo me) nel film-cartolina di Rubini, Colpo d’occhio.
    A ogni step della discesa agli inferi di Adrian Scala (Scamarcio), agli spettatori risulta evidente che “beh, facendo così potrebbe cavarsela…” ma al personaggio le idee per trarsi d’impaccio non vengono proprio in mente, perché accetta di stare a un gioco in cui non potrà mai avere abbastanza carte, pur avendo in mano le più importanti.

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