SAMAN, HINA, ROBERTA, TIZIANA, SONIA E LE ALTRE.

Hina ha vent’anni, è pakistana, vive a Brescia: viene sgozzata dal padre e dai parenti  l’11 agosto 2006 perché i suoi comportamenti sono giudicati riprovevoli (convive con un ragazzo, non intende piegarsi ad un matrimonio deciso dalla famiglia, veste in minigonna). I commentatori italiani tracciano l’immediato parallelo tra culture, sottintendendo che quella occidentale è ormai felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Qualche ministro, anzi, ricorda che per ottenere la cittadinanza italiana occorre riconoscere la libertà femminile. Qualcuno si spinge a chiedersi dove siano le femministe. Si apre il dibattito sulle culture altre e sulla condizione raccapricciante della donna all’interno delle medesime: era già avvenuto, ai tempi della guerra in Afghanistan, di imbattersi in un fiorire solidale di proteste contro le schiave annullate dal burka. Peccato che, in questo modo, le invisibilità femminili di casa nostra, meno evidenti, meno pittoresche, venissero soffocate nel silenzio.
Passano pochi giorni. 12 settembre. Siamo a Parma. Non lontano, in primavera, una ragazza di diciassette anni aveva ricevuto cento coltellate tra i fiori di un giardino: l’omicida era un corteggiatore respinto. A Parma, dunque, c’è questo giovane uomo di 28 anni, si chiama Aldo, vende polli e uova. E c’è questa giovane donna, sua coetanea, che si chiama Silvia, ha una laurea breve, lavora come stagionale in una fabbrica, la Columbus. Silvia aveva lasciato Aldo e l’aveva denunciato due volte per molestie. In quella notte di fine estate, lui la aspetta davanti alla fabbrica, la insegue, la sperona con la sua automobile. Lei abbassa il finestrino. Una prima coltellata la colpisce alla mano, come spesso avviene quando si cerca di proteggersi. Una seconda al viso. Viene ritrovata con un braccio sul volante, la testa piegata di lato.
Altri sei giorni. 18 settembre. Provincia di Lecco, Valmadrera. Una famiglia per bene – “gente di chiesa” – abita in una strada dal nome beneaugurante di via della Pace. Marco ha 34 anni, è il primo di quattro figli, famiglia da racconto pedagogico (“io li ricordo come i bambini più educati del cortile, con il papà operaio e la mamma che per arrotondare un po’ il bilancio familiare faceva qualche ora le pulizie”). Un uomo buono, “tutto casa e lavoro, che esce alle 6.30 e torna con il buio”. Che gioca con i bambini, compra loro il gelato, ha “uno sguardo limpido”.
Tra le sei un quarto e le sei mezza di quel mattino, l’uomo buono insegue con il coltello in pugno la moglie, Simona, 28 anni, incinta di pochi mesi. Lei ha fra le braccia il figlio più piccolo, Lorenzo, quattro anni: apre la finestra, chiama la vicina di casa, le urla “tieni mio figlio” e glielo passa dal balcone. Cerca di fare lo stesso con la primogenita Beatrice, otto anni: non ci riesce. La bambina viene colpita alle braccia e poi al petto da una coltellata, finisce in rianimazione. Simona viene colpita alla schiena, al petto, alla gola, fino alla morte. Fuggevolmente, e non senza stupore, il cronista annota che “tra il 2000 e il 2005 si sono contati in Italia 495 omicidi tra coppie, e quasi nove volte su dieci sono stati gli uomini a uccidere”.
Quindici anni dopo, le reazioni all’atroce (e quasi certa) fine di Saman Abbas sono identiche: dove sono le femministe (sempre state qui, e purtroppo, quando ci sono, non vi piacciono: decidetevi), la cultura patriarcale degli altri, noi sì che. Le cose non cambiano: la cultura del possesso non resiste soltanto in alcuni punti del nostro mondo. Resiste e basta. Da gennaio a oggi i femminicidi in Italia sono stati 26. Donne di tutte le età e provenienze. Uccisori di tutte le età e provenienze. Come scrive Claudia Torrisi su Valigia blu:
“In un report pubblicato a febbraio l’Istat ha rilevato che nel primo semestre del 2020 “gli assassini di donne sono stati pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020”.
Le donne “sono state uccise principalmente in ambito affettivo/familiare (90,0% nel primo semestre 2020) e da parte di partner o ex partner (61,0%),” a differenza degli uomini che muoiono perlopiù per mano di sconosciuti (43,1%) o autori non identificati (21,1%)”.”
Quindi, per favore, cercate di non fabbricare simboli che sono utili alla vostra causa personale o politica. Rispettate le donne ammazzate, almeno, se non riuscite a fare nulla per impedirlo. Quanto alle femministe, quanto meno forniscono questi tristi elenchi: che sarebbe bello prendersi la briga di leggere. Almeno quello. Per non aggiungere tristezza a tristezza.

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