“SIGNORIA VOSTRA, DOVE SONO I GIGANTI?”

Leggo nei commenti al post precedente una affermazione di
Cûk
che
trovo irresistibile: “dove c’è profitto, non c’è arte”. E’ una vera tentazione: anche perché Cûk
medesimo chiede, mi sembra, di essere smentito.
Dunque eccomi qui, con due soli esempi (tratti dal passato
remoto).
Gennaio 1605: esce la prima edizione di un romanzo che si
chiama El ingenioso hidalgo Don
Quijote de la Manca
.
L’autore è Miguel
de Cervantes, lo stampatore Juan de la
Cuesta. Sei edizioni in quello stesso anno. Miguel si dice molto, ma molto contento
della cosa.
1881. Siamo in Francia ed esce il primo volume di
racconti del signor Guy De Maupassant. Titolo, La Maison Tellier. Dodici
edizioni in due anni. Nel 1883, il romanzo Une Vie vende 25.000 copie in
dodici mesi (parliamo di fine Ottocento, ricordatevelo). Bel-Ami (1885)
arriva a 37 ristampe in quattro mesi.
Mi fermo e passo la parola a Beniamino Placido. Era
il 30 agosto 1998, e su La Repubblica usciva l’articolo qui sotto.
Come diceva Cervantes, state sani.

La nostra mentalità si conserva testardamente
prescientifica, purtroppo. Ne abbiamo avuto una prova anche di recente. Abbiamo
avuto un’ estate piuttosto calda (la più calda degli ultimi seimila anni) e l’
abbiamo attribuita di volta in volta ad ogni genere di causa. Nei momenti di
più acuto malumore l’ abbiamo addebitata persino al dibattito che ogni giorno
ricominciava – su taluni quotidiani – intorno alle sorti della nuova narrativa
italiana. C’ è o non c’ è? E’ cannibalesca o vegetariana? E perché i giovani
non leggono, come mai? I contendenti erano così strenui, i loro argomenti così
sofisticati (sembrava di leggere scienziati atomici, a volte) e così seria la
materia del loro contendere, che poteva l’ aria non arroventarsi? Certo che no.
Tuttavia sarebbe ingiusto disconoscere che qualche momento di buonumore l’
abbiamo comunque ricavato. Come quando il romanziere francese Alain
Robbe-Grillet, capofila del "nouveau roman" francese, ha dichiarato
(ad Antonio Debenedetti: "Ho ucciso Balzac", Corriere della sera del
17 agosto) di aver fatto fuori – lui personalmente – il vecchio romanzo
ottocentesco con tutti i suoi personaggi. Già, i personaggi. Gli insopportabili
personaggi descritti a tutto tondo. E chi li vuole più? Chi li sopporta? –
dicevano i critici più nuovi e agguerriti degli Anni Cinquanta e Sessanta.
Viviamo, aggiungevano, in un tempo che non è mai stato così complesso, così
indecifrabile, così indescrivibile (almeno negli ultimi seimila anni). E tu
romanziere vuoi cominciare raccontando che "la signora uscì di casa alle
cinque"? Screanzato, incolto, maleducato. E’ in tutt’ altro modo: più
ellittico, più moderno (meglio ancora se postmoderno) che devi scrivere. Poi
che cosa accadeva? Accadeva che entrava in scena, in pieni anni Cinquanta, Il
Gattopardo, con tanto di personaggi che entravano ed uscivano dai palazzi di
Palermo in tutte le ore della giornata. E adesso come la mettiamo? Oppure
arrivavano per mare, nel pieno degli anni Sessanta, i romanzieri sudamericani –
Garcia Marquez in testa – brulicanti anche loro di personaggi. E adesso, come
la mettiamo? La mettiamo così, per cominciare. Che i famigerati personaggi,
espulsi dalla letteratura magari anche meritoriamente sperimentale, magari
anche arditamente moderna (o postmoderna), continuano ad avere un loro rapporto
con i bisogni del lettore. Il quale, se deve salire sul treno o in aereo per un
lungo viaggio, difficilmente metterà in valigia il romanzo Le gomme di Alain
Robbe-Grillet: che pochi hanno letto, pochissimi riletto. Partiranno tenendo
sottobraccio un romanzo di Balzac, scelto a caso, nella fretta della partenza.
Con quello sono sicuri che qualche ora di distrazione in treno o sull’ aereo ce
l’ avranno. Oppure metteranno nella valigia, se si trovano in America, l’
ultimo romanzo di Stephen King: quello che vive e scrive nel Maine, di dove
manda in giro per il mondo le sue storie allucinate, i suoi personaggi
allucinanti. Lasciando prudentemente a casa i romanzi sperimentali –
rispettabilissimi peraltro, per altre ragioni – di William Gass, di John Barth,
di Richard Brautigan, di Donald Barthelme. Ai quali tutti idealmente
rivolgendosi, il grande Leslie Fiedler, il miglior critico americano del
dopoguerra (il migliore) disse una volta: sapete cosa vi dico? Vi dico che il
vero romanziere postmoderno, fra voi tutti, è lui. E’ proprio Stephen King. Può
darsi sia accaduto questo. Che il personaggio, momentaneamente accantonato
dalla letteratura cosiddetta alta, si sia rifugiato nella letteratura di
consumo: poliziesca o fantapolitica. Al cui successo popolare tutti gli
scrittori "alti" segretamente aspirano. Ma essendo troppo bravi –
troppo colti, troppo consapevoli, troppo bene informati – purtroppo non ci
riescono. Né d’ inverno, né d’ estate.

98 pensieri su ““SIGNORIA VOSTRA, DOVE SONO I GIGANTI?”

  1. mah, io “l’opera galleggiante” l’anno scorso me la sono messa in valigia, e non mi sono affatto pentito (anche Barthelme non mi dispiace affatto, anche se con alti e bassi). I libri del grande
    Fiedler invece al momento me li sono persi: voi li avete letti? Sospetto però che il suo fosse un paradosso (magari il grande Placido non l’ha capito?).
    A King poi preferisco Dick, mi pare di un’altra categoria, ma insomma, de gustibus, ogni scarrafone ecc ecc.
    ma poi, quanto si andrà avanti con questa pratica critica geniale per cui il massimo dell’intelligenza dei testi è “il mio gusto è più lungo del tuo”, o anche: “quello che A TE piace è una noia e fa schifo”; “No, quello che A TE piace è una noia e fa schifo”?
    Cos’è, insicurezza adolescenziale?
    Contrapporre Balzac e Robbe-Grillet manco fossimo alla gara di calciobalilla dell’oratorio e si vincesse la bambolina è segno di imbecillità o cosa?
    Com’è che il tema non è mai “cosa cazzo mi sta tentando di dire questo autore”, ma: “chi è il più alto qua dentro?”

  2. Loredana, Cuk nel post sotto ha fatto un ragionamento: tu riportando quella frase e commentandola come la commenti non rispondi al ragionamento e ne travolgi il senso.
    Secondo me se fai così fai una figura po’ da poco, e non troverai mai un terreno di dialogo su certi temi.

  3. http://insonnoeinveglia.splinder.com/
    Su quel blog ci sono immagini di guerra e morte. Fateci un giro. Mettete sulla bilancia quelle immagini e gli argomenti e le parole di cui siete capaci. Quando il piatto della morte toccherà sonoramente il pavimento, prendetolo per un rintocco di campana che ingiunge: datevi da fare per raccontare il mondo, per creare bellezza e utopia!

  4. Aggiungerei qualche altro esempio edificante, diciamo i primi 3 che mi vengono in mente a caso:
    – “Le relazioni pericolose” di De Laclos (il quale suscitò, alla sua uscita, un enorme successo di scandalo).
    – “La fiera delle vanità” di W.M. Thackeray: pubblicato a fascicoli mensili tra il 1847 e il 1848 (e subito dopo in volume), ottenne in breve un successo talmente clamoroso da impensierire Charles Dickens.
    – “Double indemnity” di James M. Cain: suscitò una impressione enorme presso il pubblico ancora prima di uscire in volume (fu pubblicato in 8 puntate sulla rivista Liberty, nel 1936): grazie al romanzo di Cain, Liberty ebbe una clamorosa impennata di vendite (raddoppiò quasi le copie vendute). Uscito in volume, ebbe 8 ristampe in 3 anni (solo negli USA).

  5. Qualcuno vuole negare che “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” sia arte? E’ uno dei dischi più venduti di tutti i tempi. “Spartacus” di Kubrick è o non è arte? Sbancò il botteghino, come lo sbancarono “La dolce vita”, “Il ponte sul fiume Kwai” e tantissime altre pellicole di cui nessuno negherebbe mai la riuscita artistica. Io credo che ormai soltanto nell’Italietta si possano dire impunemente certe cazzate (e trovare addirittura ridicoli ultrà di tali cazzate, come a.b.)

  6. Sì, Loredana, isolando quella frase non si coglie il senso di ciò che volevo dire. Ma è normale fraintendersi, specie se non si parla de visu. Eviterei, in ogni caso, di entrare nel conteggio di quanti sono stati arrisi dalla fortuna e quanti, invece, sommersi dal fallimento. Anche perché il mio ragionamento riguardava il presente, non il tempo che fu. E le cose, oggi, a capitalismo trionfante e decadente, sono molto diverse dagli albori del sistema. Tu davvero credi che OGGI un romanzo come quello di Cervantes godrebbe dei favori degli editori e del mercato? Io ho dei dubbi, molti dubbi. Dopodiché, non sono certo il tipo che si scandalizza per il successo di un libro. Prendo il libro in mano e lo valuto per quello che è. Poi, però, a parte alcune eccezioni, non posso fare a meno di notare che, nel tempo del tutto-merce, ha più possibilità di emergere una scrittura che conferma lo status quo, più che una che ne mina, almeno a livello percettivo, la stabilità. I “coolies della letteratura” sono la parte dominante, e non fanno arte (fanno intrattenimento o, se vuoi, spettacolo). Poi, naturalmente, tutto è merce, anche “Horcynus Orca”. Il problema è se è data la possibilità di costruire utopia inventando opere che mettano in crisi il linguaggio, più che opere che lo usino così com’è. Esiste questa possibilità? Esiste, a patto che l’opera riesca a superare ciò che, nella sua essenza di merce, la rende “al servizio” di re, preti, governi, editori, gusto medio, etc.. Un’opera anti-economica, appunto. Per cercare di percorrere questa strada impervia, il Novecento ha prodotto concetti importanti: straniamento, allegoria, crudeltà, afasia … Agli artisti non premeva stare fuori dal mercato, ma produrre merci “altre”, rivelando il limite della merce stessa, ossia quell’essere strumento di guadagno di pochi. Un’arte che non sia omologata, questo mi interessa; una scrittura non segnata dal consumo, ma soltanto dalla voglia di sopraffarsi, eccedendo i suoi stessi limiti. Non l’arte “fatta in serie” (moda, trucco, idolo), ma l’arte che, insieme, rivela se stessa come merce e come anti-merce …
    Cûk

  7. Cuk, ti posso consigliare un libro? The Long Tail.
    Ha i suoi difetti di impostazione, ma è il primo saggio a tentare una panoramica della “coda lunga” della domanda culturale, coda lunga creata dalla rete.
    Per quelli che chiami i “coolies della letteratura” non ci sono mai state tante opportunità di farsi conoscere quante ce ne sono oggi, grazie alla rete che permette di evitare il collo di bottiglia della distribuzione e del magazzino limitato.
    In una libreria-supermarket o addirittura nel reparto libri di un ipermercato troverai prevalentemente titoli pubblicati dai grandi editori. Anzi, troverai una selezione ridotta di quei titoli, visto che lo spazio-scaffale è limitato, anche lo spazio in magazzino è limitato e il turn-over di titoli è altissimo.
    Non troverai certo i libri dei “coolies” pubblicati dalle edizioni Spartaco, Ancora del Mediterraneo, Fernandel, Mimesis, Gaffi etc. Non troverai, per dire, “La casa del quarto comandamento” di Marco Salvador, o .
    In rete, invece, io – un lettore come te – posso essere un “filtro”, ridurre la complessità della ricerca dicendoti che il libro di Salvador merita, e posso fornirti seduta stante questi link:
    12 3, e potrei fornirtene altri, con recensioni (di critici o di altri lettori, “peer reviews”), discussioni sul libro etc.
    Chi legge questo thread potrebbe incuriosirsi, seguire il mio consiglio, cliccare uno dei tre link e ordinare il libro. In men che non si dica, abbiamo aggirato la strozzatura del mercato eterodiretto.
    Poi, ovviamente, il libro di Salvador non venderà mai tante copie quante ne vende Faletti. Ma qualche centinaio di copie in più o in meno all’anno (quelle che potrebbe fargli vendere un uso intelligente dei “filtri”) farebbero la differenza per l’autore e per il suo editore.
    Dando per assunta la qualità di un titolo, nella “coda lunga” chiunque ha la potenzialità e la possibilità di fare la sua piccola, inestimabile “porca figura”. Nel passato che molti di voi paiono rimpiangere, questo non era assolutamente possibile, perché non c’era modo di evitare il collo di bottiglia della distribuzione.

  8. Errata corrige: dopo il titolo del libro di Salvador è rimasto un filamento “o,”. Volevo fare un altro esempio, poi ho deciso che era meglio concentrarsi su uno solo.

  9. Una piccola testimonianza. Pochissimo tempo fa un noirista famoso ha sostenuto che avrà parecchie difficoltà a pubblicare il suo prossimo libro, un libro di genere “bianco”. Dopo questo, che è già scritto, scriverà un altro “nero” senza rinunciare alla sua personalità, consapevole però di scrivere il “nero” per campare. E sto parlando di una persona che ha avuto moltissima visibilità e ottimo successo…
    Questo che significa? che è vero quello che dice WuMing1 (oggi ci sono più possibilità di farsi notare), ma è anche vero che una volta notati viene richiesta l’omologazione da best-seller. Dunque: più possibilità di farsi notare, meno possibilità di restare se stessi (problema che sappiamo non riguardare i WuMing), sempre che si si tenti di vendere più di due copie.
    Finisco con un biasimo, anzi propriamente un’espulsione del fallosissimo WuMing1 che non perde occasione per costruire pubblicità comparative dove lui risulta un vincente (pensa un po’, io sono uno che difende i suoi libri ma li trova tutto sommato cosette) e gli altri, quelli che producono ottime cose, che sarebbero dei piagnoni.
    Be’, se è così: W I PIAGNONI! (da Van Gogh a Kafka a… ).

  10. cuk, ma che un’opera debba “mettere in crisi il linguaggio” vuol dire forse che, passaggio dopo passaggio, tu attribuisci un potere di trasformazione politica alla letteratura, e che questo sia un suo scopo diretto (intendo, non un effetto imprevedibile, la classica eterogenesi dei fini, ma un obiettivo cosciente da perseguire tecnicamente)?
    L’opera dovrebbe travolgere e distruggere il linguaggio medio in direzione di un linguaggio utopico, specchio di un utopico futuro?
    E tutto questo si ottiene non solo scrivendo un libro, ma addirittura leggendolo?
    Certo che le vie della rivoluzione sono insolitamente comode, basta mettersi in poltrona e leggere un bel romanzo 🙂 Che culo! 🙂
    (scherzo, neh)
    sul resto;
    mi pare perfino banale notare come l’avvento della cultura di massa (e dell’industria culturale) abbia ampliato a dismisura la possibilità per la maggioranza degli individui e delle classi di accedere alla cultura suddetta, prima riservata a fette estremamente esigue di popolazione (quando l’80% della popolazione è mantenuta nell’analfabetismo, certi discorsi sembrano un po’ ridicoli. E allo stesso modo, quando cosa pubblicare lo decide il partito. Altri sistemi da proporre?).
    Altrettanto ovvio che il risultato non è stato l’estensione della medesima cultura aristocratica a tutti, ma un mutamento genetico delle pratiche stesse di produzione e dei contenuti, quindi in qualche modo anche nella fruizione e negli scopi. Ma questo vale per tutti i tempi e per tutte le situazioni, come insegna la sociologia della cultura. (Tanto è vero che come sa chiunque la serialità, lungi dall’essere un limite, è servita come artificio retorico in un’enormità di approcci in arti diverse, da quelle figurative a quelle sonore ecc. Gli stessi denigrati Barth e Barthelme ne erano piuttosto coscienti, checché ne pensi Placido – e semmai è il livello di padronanza e coscienza dei termini fin dentro il rapporto contenuto-forma a distinguere gli approcci dei vari autori, anche se non serve più a metterli in una classifica verticale)
    Confondere questo mutamento con una volontà censoria sistemica vuol dire scambiare l’effetto con la causa.
    Il fenomeno della “coda lunga” che wm cita, che va di pari passo col segmentarsi del mercato (e col divenire tendenzialmente immateriale della produzione nei paesi “avanzati”) è un’evoluzione ulteriore che data almeno dagli anni ’70, e in qualche modo cambia la natura dell’industria culturale: la maggiore flessibilità permette di cogliere in modo più fine gusti e preferenze – e persino i gusti di quelli che ritengono che servano opere “eversive” hanno maggiori possibilità di venir soddisfatti (rivalendosì però così curiosamente ossimorici).
    Porre il problema attuale sul terreno della “censura” che il mercato apporterebbe alla possibilità di produzione e di fruizione, vuol dire mancare completamente il bersaglio.
    L’imperativo attuale del mercato non è affatto l’omologazione, non siamo negli anni ’50, semmai è la diversificazione, e attraverso questo imperativo ottiene i suoi successi.
    Se vogliamo il “sistema” funziona sulla proliferazione, sull’istigazione e sull’accesso.
    Che poi esso debba essere inteso necessariamente come un “altro”, un “fuori” (in un’epoca in cui forse non esiste “fuori” e questo andrebbe assunto positivamente — cfr negri), un nemico, uno snodo del Potere (e non assieme anche un elemento di soggettivazione dei poteri) è in parte altra discussione.

  11. ps, ma che cazzo ci azzeccano con questo discorso i link a tre librerie virtuali per comprare il libro di Salvador: IBS o BOL sono per caso critica, recensioni ecc?!?
    Boh, a me sembra di sognare… Tra l’altro è un libro opzionato per un film in quanto scoperto da celebre attore del tutto casualmente in libreria, e non in rete. Se facciamo gli esmpi facciamoli bene.

  12. “Spartacus” di Kubrick scrive il nomignolo “uff”.
    Chiunque sa che Spartacus è di Kubrick per modo di dire.
    Continuiamo pure a fare gli azzeccagarbugli…

  13. E’ addirittura incredibile l’odio cieco che muove ogni singolo commento di Andrea Barbieri. Se qui constatassimo che a Roma c’è il sole, lui insisterebbe a dire che piove.

  14. Per chi non se ne fosse accorto: da due giorni qui si discute di valore d’uso e valore di scambio (tirannia del secondo sul primo), di volpe e di uva, di reperibilità, visibilità, possibilità di raggiungere il lettore, “strozzatura” (e quindi implicita censura) da parte del mercato, dittatura dei titoli che incontrano il “gusto medio” a scapito di quelli che osano discorsi più personali, dimensione popolare/di massa ecc.
    Qualcuno ha appena scritto che “nel tempo del tutto-merce, ha più possibilità di emergere una scrittura che conferma lo status quo”. E si è risposto che in realtà questa descrizione fotografa il passato prossimo, non il passato.
    Oggi, col mercato che si demassifica e si fa più orizzontale (effetto “coda lunga”, appunto), hanno possibilità di emersione relativa anche scrittori che non incontrano il gusto della “massa”, perché la cultura di massa lascia il posto a quella che Chris Anderson definisce “cultura delle masse parallele”.
    Ciò è reso possibile dall’abbattimento dei limiti e dei costi di magazzino e alla rapida reperibilità in rete di più o meno *qualunque cosa*.
    Da qui i link – del tutto pertinenti – a tre librerie on line, per far vedere come chiunque di noi sia potenzialmente a un solo click di distanza da qualunque titolo pubblicato (seconda e terza forza della coda lunga: “democratizzazione dei mezzi di distribuzione” e “rapido collegamento tra domanda e offerta”).
    Ora, se c’è chi preferisce NON interrogarsi su cosa sta succedendo nella produzione culturale, è liberissimo di non farlo. Lo capisco, è senz’altro meno responsabilizzante lanciare scomuniche e lanciarsi in filippiche reazionarie sui bei tempi che furono e su quanto fa schifo l’oggi. Ma che almeno si lasci ad altri la libertà di interrogarsi sul presente e sulle sue opportunità.

  15. a.b., che importanza ha sapere se il film è al 75% di Kubrick, o al 55%, o al 90%? E’ o non è riconosciuto un grande film oggi? Allora facciamo un altro esempio, “Arancia meccanica” ebbe un grande successo al botteghino, generò e ancora genera profitti, ieri al cinema oggi in dividì. Come voi mi insegnate, dove c’è il profitto non c’è arte, quindi “Arancia meccanica” non è arte. “Per chi suona la campana” ha generato profitti, quindi quel libro di Hemingway non è arte bensì spazzatura commerciale, e così via. Punto di vista indifendibile. Continua pure a fare il savonarolino del primoamore, e copriti di ridicolo.

  16. Non ha senso polemizzare con Barbieri. Barbieri è solo un PR, uno che fa marketing. Viene mandato in giro a disturbare le discussioni sui blog letterari, per stancare la gente e far vedere che in fondo è meglio chiudere i commenti, come ha fatto Scarpa-Benedetti. In questo modo i lit-blog aperti alla discussione passano per acquitrini dove ci si scazza e basta, mentre ilprimoamore può essere descritto come una specie di Parnaso. Non facciamoci prendere par naso, Barbieri è solo un uomo di pezza, a metà tra un piazzista e un troll a comando.

  17. ot
    scusa “par naso” se replico a te: come si evince dal mio commento sopra, non sono d’accordo in nulla con ab; tuttavia non mi pare che insultare gli interlocutori (cioè trascendere da una normale polemica anche colorita andando sul personale) sia un comportamento logico né sensato, o che possa ottenere qualche risultato .
    Se lo si ritiene un troll, dirlo e commentarlo è una contraddizione in atto (i troll vanno ignorati per principio, altrimenti il risultato è l’opposto).
    Se lo si ritiene un interlocutore, invece, insultarlo vuol dire che è l’insultatore il vero troll.

  18. Calma, compagni, serriamo i cordoni … Siete i tastieristi più veloci del West e Cûk non riesce a starvi dietro. E poi Cûk ha interiorizzato l’ora cubana e molto lentamente arriva a capire ciò di cui si disquisisce. Eppoi, a furia di precisare mi va in tilt il precisometro e divento anch’io una deminutio mortis (argomentando si muore). Ora, un’opera letteraria è un’opera fatta di linguaggio. Comincia in copertina, col titolo, e finisce con il punto nell’ultima pagina. Questa è però solo l’evidenza: un’opera comincia sempre FUORI dal libro, nella mente dell’autore e nell’interazione di questa col mondo (anche col mondo della letteratura passata). Va da sé che le posture dello scritto e l’iperbuffo disporsi dei segni è SCELTA: l’autore ne sceglie la disposizione, in un certo senso si autodetta gli episodi, i costumi, i personaggi, i quali vengono disposti sulla pagina nella forma di frasi concatenate, di sintassi autoarticolata, di tir di punti&virgole, di RITMO insomma. Nel maneggiare il linguaggio, per farla breve, si oscilla sempre tra l’imbecille rispetto degli andamenti secondum regole&istituzioni e l’azione vivibonda tesa a sfinire il linguaggio in una disputa che ne infrange i limiti. Questo è un fare politico? Certo, perché comunque la scelta è scelta di direzione (di SENSO). Sia che si scelga di adeguarsi alla lingua in corso che di proclamarne l’assoluta funzione repressivo-omologante, si sta maestosamente – tra vaghezza e consapevolezza, certo – conducendo un dire che è intimamente politico. Dopodiché, mi preme ribadire l’assoluta inservibilità della letteratura per cambiare il mondo: la letteratura può cambiare soltanto se stessa.
    Sulla “coda lunga” di cui parla Wu Ming 1 ho molti dubbi. Nel viavai della rete – nel suo sterminato paesaggio – è facile che appaia chi meglio è in grado di gestirla, sia nel senso di conoscenze tecniche appropriate che in quello di adeguate “conoscenze”. Se non vengo linkato da NI o da altri blog letterari importanti, chi mi considera? Come faccio a raggiungere il pubblico? Anche qui è il trionfo del marketing, niente di diverso dalla vecchia (e “cinica”) capacità di stare sul mercato di un Sanguineti qualsiasi. Non credo insomma che la rete sia immediatamente in grado di evitare “il collo di bottiglia della distribuzione”. È vero che potenzialmente agevola, ma non è matematicamente certo che possa correggere l’esclusione che il mercato, per sua natura, si porta dietro.
    Attenzione, caro “bg”: l’omologazione passa dalla diversificazione (e viceversa). Al mercato interessa realizzare; tutto si tiene, anche lo scritto più sovversivo, se porta quattrini (recentemente Feltrinelli ha pubblicato Badiou, “Il secolo”, libro controcorrente, e Il Saggiatore Harvey, “La guerra perpetua”, libro fondamentale per capire la guerra in corso, così come Rizzoli ha proposto “Cima delle nobildonne” di D’Arrigo o Pendragon “La donna che non c’è” di Di Marco). L’omologazione è la lingua principale della merce, che però è necessariamente composta da tante lingue diverse, una babele di lingue che cercano ognuna di affermarsi sull’altra, o magari anche convivendo, però il cui fine non è ampliare la capacità di interagire col presente, ma la pura e semplice valorizzazione.
    PS: caro “ancora?”, da inguaribile abitante del passfuturo, me ne impippo se la mia visione dell’arte sia vecchia e poco adatta ai tempi … E poi, tanto per dirla tutta, il mercato è proprio il male, per lo meno nel senso che ormai tutto, direi la vita stessa, viene prodotto non per il suo uso, ma per la sua capacità di creare profitto (tant’è che il mondo si trova nella situazione in cui si trova). Prosit.
    PS II: lampeggiante discussione, anche le frasi più ovvie sono una stretta di mano. Mui contento …
    Cûk

  19. DOVE C’E’ PROFITTO NON C’E’ ARTE
    Cuk dice che isolando quella frase non si coglie il senso, allora la ricontestualizzo:
    “Ma la questione è prorpio questa:VENDERE E’ POCO ARTISTICO. Cuk Non lo dice così, tanto per dire. Come i migliori studi sul rapporto tra arte e mercato dimostrano (e sfido chiunque a smentire Cuk), le due realtà si escludono a vicenda: dove c’è profitto, non c’è arte.”
    Così si coglie il senso, anche della sfida.
    Eppure adesso sembra più urgente sapere da a.b. di chi è SPARTACUS, in modo che gli eredi di Kubrick possano restituire i diritti al VERO AUTORE.
    SIAE

  20. @ par naso e bg
    vero, bg ha ragione, e aggiungo che se chi insulta è un troll, allora ab è senz’altro un troll, poiché ricorre molto spesso all’insulto e alla bassa insinuazione. Ma chi gli da del troll lo sta forse insultando? Dire che un troll è un troll è un insulto? Non so. Cmq: se il troll a cui si da del troll è davvero un troll, allora va ignorato. Il problema è che non tutti hanno capito che ab è un troll, e per quale motivo secerne acido 24 ore su 24 (forse se si trovasse un lavoro…) e manda sempre in vacca ogni discussione. Forse per capirlo occorre qualcuno che dica papale papale: ab è un troll. Ma se succede, qualcuno interviene dicendo che questo è un insulto. E siamo daccapo.

  21. Ma perché in nessun lit-blog come in questo i movimenti dei cinque paracinesi si mescola con quello di altrettanti (o quasi) troll?
    Vabe’, continuiamo.
    Naturalmente prima di leggere un libro occorre procurarselo. Io in genere me li compro. Spesso vado a Bologna e lì alla Feltrinelli. Da qualche anno, inesorabilmente, è sempre più difficile procurarmi i libri che cerco. E non cerco la luna. Faccio un esempio. A Bologna ci sono quattro Feltrinelli. Dal web risultava che in una delle quattro era disponibile l’ultima recentissima raccolta di saggi di Evangelisti. Sono andato dove la rete mi ha indirizzato: p.zza Galvani. Lì 1. non sapevano di cosa parlassi, 2. mi hanno chiesto che genere di libro fosse 3. lo hanno cercato in qualche settore non trovandolo 4. hanno verificato la disponibilità nelle altre feltrinelli di Bologna scoprendo che non c’era 5. mi hanno spiegato che ne tenevano una sola copia e che probabilmente l’avevano venduta cinque minuti prima che entrassi anche se non se lo ricordavano.
    Sto parlando di un libro appena uscito di un autore di successo! Che morale ne ricaviamo? che pur di non fare della resa o pagare tasse o non so cos’altro dal centro decidono che Distruggere Alphaville non è commerciabile e dunque non esiste o esiste atomicamente. I WuMing più o meno si vendono, e allora il centro decide che devono esserci copie dei loro vendibili libri.
    Questo è il meccanismo, e a me sta sul cazzo, perché è vero che se voglio mi procuro il libro di Evangelisti attraverso la rete, ma penso anche che io sono un privilegiato perché so usare la rete e sono perfettamente informato sulle novità editoriali, mentre molta gente non sfrucuglia la rete per cercare i libri e sa della loro pubblicazione vedendoli esposti in libreria. Per queste persone evidentemente i saggi di Evangelisti non esisteranno mai. Siccome sono convinto che la letteratura deve poter arrivare alla gente (questo è uno dei significati di “popolare” che preferisco), per me è un peccato che certe cose rimangano dentro un’enclave mentre nell’exclave circolano solo le cose che il centro vuole.

  22. I Barbari numero 10:
    “Prendete l’Italia degli anni 50. Erano gli anni in cui al Premio Strega andava gente come Pavese, Calvino, Gadda, Tomasi di Lampedusa, Moravia, Pasolini (ci sarebbe andato anche Fenoglio, ma dovette lasciare il posto a Calvino! Oggi non si hanno più quei problemi lì). Gli editori si chiamavano Garzanti, Einaudi, Bompiani, ed erano cognomi di persone vere! Se dobbiamo pensare a una civiltà che oggi è stata spianata dai barbari, eccola lì. Nella qualità dei libri, nella statura degli addetti ai lavori e perfino nelle modalità del lavoro e della commercializzazione (la piccola libreria, i recensori insigni, i risvolti fatti da Calvino) quegli anni sembrano rappresentare per noi il paradiso perduto. Ma che Italia era quella? Com’era, esattamente il campo in cui giocavano?
    Non è facile rispondere, ma ci provo. Era un’Italia in cui i due terzi della popolazione parlava solo in dialetto. Il 13 % erano analfabeti. Tra quelli che sapevano leggere e scrivere, quasi il 20% non avevano titolo di studio. Era un’Italia appena uscita da una guerra persa, ed era un paese in cui di tempo libero ce n’era poco, e la stessa piccola borghesia emergente non aveva ancora il surplus di reddito con cui finanziare il proprio diletto e una propria formazione culturale. Era un paese in cui la trilogia degli antenati di Calvino, in sette anni, vendeva 30.000 copie. Dico questo per tracciare i bordi del campo: indipendentemente da quello che avrebbero voluto fare, ai tempi quelli che vendevano libri lo potevano fare in un mercato oggettivamente piccolo. Oggi sappiamo che quell’ecosistema piuttosto angusto generò professionalità sublimi, autori geniali e riti nobilissimi. Ma c’è qualcosa che ci autorizza a pensare che tutto ciò sia nato in virtù di una ritrosia a commercializzare quel mondo, privilegiando la qualità delle persone e dei gesti? Credo di no. Ancora una volta, mi sembra piuttosto che loro possedessero tutto il campo possibile, con normale istinto commerciale, e ciò che noi oggi riconosciamo come qualità fosse esattamente l’espressione dei bisogni della ristretta comunità a cui si rivolgevano: perfino uno specchio delle loro abitudini, dei loro riti quotidiani (il libraio, la terza pagina dei giornali, la libreria in salotto…). Tutto il mercato che c’era, loro lo abitavano, e davano a quel mercato esattamente quel che chiedeva, sia nei prodotti, sia nei modi con cui li porgevano.
    Se tendete ad attribuir loro, comunque, una certa nobile ritrosia a forzare il mercato, sfondando i confini noti con prodotti più facili, allora devo dirvi una cosa: in realtà spiavano ogni minimo allargamento dell’orizzonte, sapevano che sarebbe arrivato, e lo stavano aspettando. Dovettero intuire qualcosa alla fine degli anni 50, quando un libro come Il Gattopardo (inviso a buona parte dell’intelligentsia del tempo) arrivò a vendere 400 mila copie in tre anni. Era un segnale. Diceva che c’era un pubblico appena entrato in sala, che ancora era costretto a scegliere, e comprava poco, ma ben presto avrebbe avuto tempo e soldi per leggere. Non si limitarono ad aspettarlo. Gli andarono incontro. E ampliarono la sala. La nascita degli Oscar Mondadori, e quindi del mercato del libro economico, del tascabile, è del 1965. Fu successo immediato: Addio alle armi vendette 210 mila copie in una settimana. Alla fine del primo anno gli Oscar avevano venduto più di otto milioni di copie. Bum. L’Italietta era finita, e il mondo dei libri era improvvisamente diventato un campo apertissimo. Pensate che si siano fermati ai bordi, riflettendo sull’opportunità o meno di andarlo a conquistare? Ci si buttarono e basta. E l’editoria si abituò ad abitare un campo così aperto. Da allora, non si è più fermata: si è lasciata invadere da ogni successiva ondata di nuovo pubblico. Fino a quella, micidiale, degli ultimi vent’anni.
    Quel che voglio dire è che, nonostante le apparenze, contrapporre un’editoria di qualità del passato a un’editoria commerciale del presente è un modo inesatto di porre i termini della questione. In realtà sembrerebbe più plausibile ammettere che l’editoria si è sempre spinta fino ai limiti possibili della commercializzazione, con l’istinto che qualsiasi gesto ha di abitare tutto il terreno disponibile. Quello che possiamo registrare è che, in una certa contingenza storica, e in una certo panorama sociale, un’editoria costretta alla piccolezza da precisi blocchi sociali ha espresso una qualità (di prodotti, di modi) che era l’espressione esatta dei bisogni della microcomunità a cui si rivolgeva. Ma non sceglievano la qualità invece che il mercato: trovavano la qualità nel mercato.
    Tutto ciò inclinerebbe a pensare che, di per sé, la commercializzazione spinta, come effetto dell’istinto a possedere tutto il mercato possibile, non è una causa sufficiente a motivare il massacro della qualità. Non lo è mai stato.”

  23. “Ma perché in nessun lit-blog come in questo i movimenti dei cinque paracinesi si mescola con quello di altrettanti (o quasi) troll?”
    Perché negli altri lit-blog, dove i nostri interventi sono rarissimi o del tutto inesistenti, i troll intervengono eccome, ma non possono incrociarci. Di norma, ci insultano in contumacia. Qui, negli ultimi due giorni, hai l’occasione di farlo con me presente. A parte un’occasionalissimo incontro su Vibrisse l’altro giorno, è l’unica opportunità che hai avuto di incrociarmi.
    Opportunità rara anche in questa sede, a dire il vero: prima di ieri ero intervenuto una sola volta in tutto il 2006, parlando di calcio con bg. Ciò non ti ha impedito di intervenire pochi giorni fa (sotto pseudonimo), senza alcuna provocazione da parte nostra, definendoci “cinque dementi” e attribuendoci un improbabile complotto ai danni della memoria di Bruno Munari, del quale non ci siamo mai occupati in vita nostra 🙂
    Nulla di nuovo, siamo abituati a vederci attribuire le posizioni e le intenzioni più buffe, e a essere avvistati un po’ ovunque neanche fossimo UFO. Esistono anche personaggi ossessionati da noi, la cui missione è appunto inserirci nel contesto di assurdi complotti. In rete si trovano post come questo, questo o quest’altro (ultimo capoverso).
    Al confronto di costoro, Andrea, tu sei l’ultimo dei dilettanti.
    Ad ogni modo, rimane significativa la ripetuta coincidenza tra la tua presenza in un dibattito e il proliferare di messaggi di ingiurie nei nostri confronti. Che soddisfazione tu ne tragga e perché tu abbia deciso di farlo, rimane per me un mistero, ma uno di quelli la cui soluzione non mi incuriosisce. Hai fatto la tua scelta di vita, e non sono affari miei.
    Io preferisco portare argomenti, e da buon materialista continuerò a rimanere sul concreto delle questioni.

  24. Wuming 1, che cose strane che dici: quello che insulta qui è il terzo dei vostri e una masnada di troll da musatti a non so chi altro, tutti per darti una mano.
    Quello che porta argomenti saresti tu? E perché allora hai pubblicato un testino in cui spari le tue grandi cifre (grandi si fa per dire, per Fabio Volo sei nulla, e forse anche la blogger Camomila vende più di te) e allo stesso tempo spari bordate qua e là per attirare l’attenzione (altrimenti chi se ne fregherebbe dei numerini). Poi arriva Loredana e megafona il tutto per essere sicura che il testino venga letto (io ad esempio non l’avrei fatto). E questi sarebbero gli argomenti. A me pare invece marketing bassetto. Ma il mondo è bello ugualmente, quindi portamo pazienza e pensiamo a costruire. Basterebbe poco, come dicevo sotto a Cuk, occorre cominciare a parlare di quello che c’è di buono e che rimane fuori dalla logica dei critici-agenti. Infatti non basta per esempio dire Villa se non si parla approfonditamente del suo lavoro. Questa è la strategia, dato che così spesso si vede scrivere per nascondere termini di paragone e rendere impossibile un pensiero critico. Basta rivelare l’esistenza di tante cose ottime e sconosciute ai lettori. L’ecosistema tornerebbe in equilibrio con l’arretramento di qualche specie tirata su a ogm.

  25. Che non ci fosse possibilità né speranza di confronto lo sapevo da tempo, per cui nessuna reazione – nemmeno la più stolida e pregiudiziale – è in grado di stupirmi.
    Se all’ottusità aggiungiamo la malafede che porta a ritenere qualunque mossa altrui dettata da pari malafede (nessun fatto sussiste, contano solo le presunte intenzioni), anche l’ultimo poro si chiude e la pelle diviene corazza che protegge dalla diversità.
    [Anche dalla diversità con se stessi, fino al micro-revisionismo storico in presa diretta: se ciò che ho fatto non è coerente con l’immagine che mi piacerebbe dare di me, allora *non posso* averlo fatto, quindi non l’ho fatto, mi convinco di non averlo fatto. Chiudo gli occhi, mi copro le orecchie e grido forte, perché l’immagine che hanno gli altri di me non contamini la mia autorappresentazione. Se quel che dico viene smentito, non devo accorgermene, e tirare dritto come se nessuno mi avesse risposto.]
    Che da parte di alcuni non ci sia la minima intenzione di discutere di cose concrete ancorabili alla realtà è in fondo normale. La realtà spaventa, è più conveniente “imbozzolarsi” nelle proprie convinzioni, rigettando qualunque dato le metta in crisi. Qualunque argomento che non confermi lo schemino non è un argomento. Nessun esempio è un esempio. Nessun contributo sposta niente. Gli interlocutori muovono le labbra ma non dicono nulla. Niente esiste davvero ai lati del paraocchi, limes mundi.

  26. cuk, per colpevole fretta tralascio le questioni su linguaggio e coda lunga (solo dico che internet funziona per minoranze e affinità, il che spiega perché la coda lunga funziona. Che funzioni è anche attestato dal fatto che su questo meccanismo ci stanno investendo qualche fantastiliardo, con buoni ritorni)
    sul mercato: ma, a parte il presupposto “omologazione male vs. originalità bene” (che però è inindagato, e su cosa si regge? a me sa di modernismo… cioè di mercato! :))
    se il mercato funziona per diversificazione e ti fa arrivare anche “lo scritto più sovversivo”, 1) dove sta il problema? cioè, in cosa ti senti sminuito? 2) una critica, per non essere autoafflittiva, deve contenere una prospettiva. Io alla società confessionale, a quella aristocratica, o a quella statalizzata dal partito, mi sento di preferire un pochino ancora quella di mercato. Non che non ne colga i gravissimi limiti, e individualmente cerco di darmi da fare per correggerli (sono un vecchio riformista…) ma un atteggiamento così radicalmente critico vorrebbe che fosse indicata una possibilità radicalmente diversa. Sono io l’unico che non la vede? O che pensa che i mutamenti avvengono per torsione, non per sostituzione salvifica?

  27. No, “bg”, non ho soluzioni né “possibilità radicalmente diverse” da indicare. Il Novecento è costellato di tentativi fallimentari; studiandoli, forse, si riuscirebbe a trovare percorsi “altri”. L’importante è, io credo, non smettere di cercare l’alternativa ad una società sempre più permeata in senso negativo dal mercato. È ovvio che il problema non è del mercato in sé; neanche una futura società libera (e libertaria) potrà fare a meno di questo istituto. Però, se mi permetti, pur se è innegabile che il mercato abbia agevolato migliorie sociali & culturali & economiche, è altrettanto vero che ha distrutto popoli, patrimoni artistici, territori, natura. È questa la contraddizione principale: che poi è rinviabile alla solita antica presenza della “proprietà”, di quella istituzione-legge-padre-padrone che permette a neanche il 12% della popolazione mondiale di detenere da sola più dell’86% della ricchezza … Ma qui rischiamo la retorica e dunque mi fermo.
    Cûk

  28. Prima di ri-eclissarmi, alcuni testi in italiano sulla “coda lunga”, come contributi alla discussione (anche se la cosa migliore è leggere direttamente il libro di Anderson).
    1. Quelli della coda lunga. Come le vendite on line stanno trasformando il mercato editoriale (pdf), di G. Granieri, giugno 2005
    2. La coda lunga esiste anche in Italia (intervista all’amministratore delegato di internetbookshop, marzo 2006)
    3. Long Tail, video su Internet e futuro della televisione (pdf), di M. Montemagno, luglio 2005
    4. Cos’è la Long Tail: dal mercato di massa alle nicchie di mercato, ottobre 2005

  29. Andrea Barbieri ha da tempo maturato una vera paranoia nei confronti di Pulsatilla, autrice del libro “La ballata delle prugne secche” (Castelvecchi). La tira in ballo in continuazione, a volte storpiando nome dell’autrice (Camomilla, Cazzilla ecc.) e titolo del libro (La ballata dei fichi secchi ecc.) Di recente se l’è anche presa con Giulio Mozzi (su “Bottega di lettura”) perché gli è passato per la capa di recensirla. La domanda è: perché?? perché fissarsi proprio su quel libro? Non farà certo più schifo della media dei libri leggeri che si trovano in libreria. Forse Barbieri conosce la donna che si cela dietro il nick “Pulsatilla”? C’è stato qualche screzio tra loro? Forse lei una maledetta sera… non gliela diede?

  30. Caro Mondo in fiamme, per favore mi scriveresti il link al post in cui avrei scritto “cazzilla”…
    WuMing1 dice quasi una cosa banale sul mercato della rete: è sotto gli occhi di tutti che si sta cercando il best seller proprio lì (Camomilla e il suo “Il fico degli ottentotti” è solo uno degli esempi, potrei citare anche il progetto editoriale “Scritto tristo” e tante tante altre cose).
    Direi che questa volta Wu ha centrato il bersaglio. Quando ce vo’ ce vo’: bravo!

  31. @ ab
    scusami, ma citando il mercato della rete wm1 sta dicendo una cosa che con pulsatilla e il bestseller trovato in rete non c’entra proprio niente. L’analisi della long tail è una questione di ingegneria
    delle reti che implica un comportamento del medium esattamente opposto ai media consueti, costruiti sulla monodirezionalità e sulla scarsità di risorse. Citando il caso “pulsatilla che pubblica un libro” citi un controesempio suicida, perché appartiene esattamente al circuito di media opposto alla long tail
    sarebbe interessante cominciare a leggere quello che dicono gli altri prima di iniziare a criticarli, altrimenti si finisce per fare la figura dei superficiali, magari senza meritarlo.
    @ cuk
    stiamo divagando, ma non credo che sia poi troppo grave:
    è innegabile che il mercato abbia sulla coscienza molti crimini (l’ho detto subito nel mio commento, ma precisarlo mi mette in una posizione da tribunale della ragione che mi risulta un po’ ridicola, vista la mia modesta e fantozziana figura).
    Ciò che vorrei dire, senza con ciò essere originale (lo sosteneva il buon carletto), è che svolge un ruolo che difficilmente si può non giudicare progressivo (qualsiasi sia il giudizio che si dà a questo termine). E che non è che altri modelli siano resi responsabili di crimini e distruzioni poi molto minori (di certo la disuguaglianza di poteri e di classe non l’ha inventata il mercato). E che questo è a quanto pare il più permeabile (il che è tutto dire…) ai perfezionamenti e alle trasformazioni
    (vorrei solo far presente, anche qui senza essere originale, che “Il Mercato Capitalistico come Modello Unico” non esiste da nessuna parte del mondo. Ovunque esistono tipologie di intreccio estremamente varie tra economia di mercato, diritto – diritto del lavoro e sindacale, diritti civili, legislazioni antitrust, diritto internazionale ecc – e amministrazione dello stato – i vari modelli di welfare, pensioni, scuola ospedali, redditi di disoccupazione e di cittadinanza ecc.)
    Non sarà molto, tuttavia…
    Quello che vorrei dire – e comincio a tracimare verso la retorica – è che pensare al mutamento come a torsioni applicate nei punti dolenti pone di fronte ad azioni fattibili e misurabili, e limita la tragica eterogenesi dei fini; il catastrofismo – non dico che sia la tua posizione, eh – pone di fronte solo a im-possibili palingenesi millenariste, a una divisione tra buoni e cattivi che va bene per i fumetti, a visioni paranoiche di Poteri del tutto esterni a noi, incontrollabili e onnipotenti, e all’inferno delle buone intenzioni.
    Il che vuol dire anche, imo, che sostenere che il mercato della cultura equivalga alla morte della stessa, è una semplificazione piuttosto avvilente.

  32. (“Scritto Tristo” – delizioso, affé mia – vale, da solo, un bonus nominativo per Barbieri valido come entrata a gamba pur tesa per altri trentatre post futuri.
    Il bonus e ritirabile presso la libreria Feltrinelli di Bologna – questa, quella o quell’altra ancora).
    Valga, questo, come solare saluto e attento ottì.

  33. Loredana, questo commento non è mio, per favore cancellalo:
    “Cazzilla.
    Scritto da: a.b. | 31/07/06 a 20:26”
    bg, non facevo nessun esempio suicida, la mia era soltanto ironia. Aggiungo una precisazione, che Marzilla faccia un pacco di soldi con Il canto dei manghi mi fa esclamare: brava Marzilla! e bravo l’editore Casteldebole! Il problema sono i mediatori che scrivono articoli su Marzilla quando ci sarebbe tanto da fare. E l’altro problema è che la fabbrica del best seller è davanti agli occhi, ed è una fabbrica che sta schiacciando il resto. Sarebbe bello che Mozzi, che su Vibrisse ha dipinto in due pennellate uno scenario apocalittico, dicesse la sua con un ciclo di affreschi.

  34. Effe effe, ci pensavo ieri leggendo una cosa di Foucault sulla legittima difesa. Diceva che è dalla difesa che scaturisce il diritto e non il contrario.
    A me pare di fare legittima difesa dell’arte facendo questa “scelta di vita” (come la chiama WuMing1). E chi entra a gamba tesa se non il difensore? Tutto torna 🙂

  35. Il successo è una variabile indipendente rispetto alla qualità. Possono avere successo sia libri belli e validi sia libri fetenti, dagli esiti commerciali non si può inferire alcunché circa la qualità di un’opera letteraria.
    Quanto al disprezzo per il successo (e per il mercato) diffuso in tanta parte del mondo cultural-letterario italiano, è legittimo anche se io lo considero assolutamente sbagliato, ma coerenza vorrebbe almeno che poi ci si astenesse dai continui piagnistei su quanto poco vendono gli autori “veri”.
    Un’ultima osservazione sulla “long tail” di cui parlava WM1, che è effettivamente un fenomeno assai interessante, ma va a vantaggio quasi esclusivo dei grandi rivenditori online (Amazon, IBS, ecc.), in piccola parte degli editori con un ampio catalogo e quasi per nulla dei singoli autori. Infatti, ciò che accade è che in Rete tantissimi libri vendono ognuno pochissime copie (smentendo la legge vigente nel mercato tradizionale per cui il 20 per cento dei libri si mangia l’80 per cento delle vendite).

  36. ab
    intanto mi scuso per una certa confusione del mio commento precedente (rileggendolo non si capiva una mazza, succede a volte).
    però: non che pulsatilla sia un best-seller (vendicchia, ma insomma…): il fatto è che castelveccchi non è nuovo a queste cose. Eppure, come abbiamo già detto altrove, pubblica anche Millepiani. Ora, il fatto che calstelvecchi aderisca a suo modo alla dittatura del best-seller, gli impedisce o gli permette di pubblicare Millepiani? O nessuna delle due cose? Si tratta di una fabbrica che schiaccia il resto? O che in qualche modo persino lo permette? E se il problema sono le strettoie del mercato e di recensori non limpidissimi, non dovresti salutare con speranza la long tail che sembra superare il collo di bottiglia, invece che sbertucciarla? Probabilmente Scrittomisto pubblica autori mediocri che tra l’altro non vendono (non sia preso come un insulto gratuito a terzi: io sarò tra quelli): questo può essere dovuto alla scarsa bravura di quell’editore nel trovare i suoi “cavalli”, ma il fatto che questi autori superino il collo di bottiglia è comunque un segno positivo perché significa che anche altri e migliori potranno farlo, o no?
    O pensi che un tempo, in termini di reperibilità dei testi, le cose andassero meglio?
    Ti propongo un’ipotesi: una volta, quando gli alfabetizzati erano il 20% della popolazione, si pubblicavano 90 libri per il popolo (leggi: i borghesi non troppo colti) e 10 per gli aristocratici (leggi: alto borghesi o aristocratici ipercolti). Oggi che gli alfabetizzati sono un po’ di più, si pubblicano 1000 libri, dentro i quali senza difficoltà se ne trovano 10-15 adatti agli ipercolti (che poi oggi questi testi siano di qualità spesso inferiore agli stessi 10 di una volta, dipende imo dal fatto che una volta essi erano il vertice cosciente della cultura, oggi sono il resto rancoroso di un potere perduto). Nei restanti 980 si trova veramente di tutto. Certo anche schifezze, ma anche no.
    Poi siamo d’accordo che il fatto che castelvecchi paghi qualcuno perché spinga certi suoi libri può sembrare un po’ bruttino, un po’ moggiopolesco. Ma che pulsatilla tolga spazio a Millepiani, questo a me pare proprio contrario all’evidenza.
    Ma è una discussione che so essere antica qui dentro, quindi forse non è il caso di insistere.

  37. Il quesito sulla “Long Tail” mi sembra essere questo: ai fini di una “democrazia della visibilità” e di maggiori chances per ciascun libro pubblicato di raggiungere il lettore che è nella migliore posizione per segnalarlo e farlo leggere da molti altri (perché ha autorevolezza nella sua compagnia di amici, perché i suoi colleghi di lavoro lo stimano e si fidano dei suoi consigli ecc.), è meglio che si venda un po’ di tutto, o tantissimo di poche cose?

  38. Lippa,
    Giornalisti cone Placido e Del Buono, negli anni, mi sono accorto che proprio mi mancano.
    a.b.
    l’Effe di cui sopra non è Effeffe.
    ancora a.b.
    l’ho già detto a suo tempo da Georgia (la quale, giustamente se la pigliava a male quando le sbagliavano il nome): non amo il giochino di distorcere scientemente e sistematicamente il nome del mio interlocutore. Io non so nulla di Pulsatilla, non ho mai letto il suo blog, non credo che avrò mai il tempo di leggere il suo libro. (quindi non ho nessuna opinione su lei e sulla sua scrittura). Di certo so che si fa chiamare Pulsatilla. Non in un altro modo. Parodizzarle il nome mi sembra un insultare davvero gratuito che non aggiunge nulla alla discussione, se non un antipatico retrogusto parafascistoide.

  39. Bg, quello che mi spaventa non è certo il fatto che si pubblichino libri dalla rete. Questa dovrebbe essere una notizia da salutare con entusiasmo. Anche Tiziano Scarpa dice che i blogger contribuiscono a svecchiare la vecchia forma del romanzo (parole mie). Il punto è quanto spazio di libertà rimane a questi scrittori esordienti della rete? E’ l’omologazione che mi fa orrore, non il marketing, la rete, le iniziative editoriali ecc ecc).
    Approfondire le strategie dell’omologazione: lo fa Schiffrin, ma tanti dati possiamo verificarli noi stessi, io per esempio facevo l’esempio della disponibilità delle feltrinelli oppure quella testimonianza del noirista che dicevo. Niente ci impedisce di unire le forze e fare una mappa dell’omologazione anche per frammenti. Sarebbe utile per restituire l’eversività che la rete potrebbe possedere.
    In bocca al lupo per la tua uscita, ero rimasto che avevi inviato un tuo testo ma non sapevo l’esito.

  40. Per Gianni Biondillo, la mia esigenza è non pubblicizzare il titolo/autore, ecco il perché. Oltre a questo c’è tutta una tradizione letteraria sul punto. Per esempio ti dice nulla l’editore Siluri di Pallavicini o l’editore Caravel di Nori?
    Credo che il retrogusto parafascistoide emani più che altro dal tuo commentino.

  41. bg: io non sono l’avvocato difensore di Castelvecchi, ma asserire che paga qualcuno perchè spinga i suoi libri mi sembra affermazione pesante e offensiva. IO ho scritto di Pulsatilla sul Venerdì di Repubblica, ne ho scritto bene perchè il libro mi ha divertito (esistono anche i libri “divertenti-e-basta”, non si vive di solo Foucault) e ti assicuro che non sono stata pagata. Di più, passo alle minacce: se qualcuno asserisce una cosa del genere, gli fisso un appuntamento de visu, e vediamo se ha il coraggio di ripeterlo, dal momento che dietro la tastiera si diventa automaticamente tigri del Bengala.
    Del resto, ad Andrea gioverà sapere che la medesima Pulsatilla è stata presentata, a giugno, proprio da Tiziano Scarpa. Dunque?
    Dopo di che: mi arrogo il diritto della padrona di casa e chiedo ai commentanti di evitare insulti e frecciate. Mi sembra che l’argomento in discussione non sia di poco conto: attenersi, grazie.

  42. Di esempi te ne posso fare decine anch’io, a.b. Ma sono in contesti differenti.
    Qui si discute di libri e di chi li ha scritti, non credo che chiamare qualcuno per nome significhi fargli pubblicità (o forse io sono davvero un ingenuo). Tanto poi si capisce benissimo di chi parli.
    Altrimenti non ne parlare. Credo, in fondo, che resti la migliore stroncatura, il silenzio.

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