Avviene questo: sto preparando un’intervista che, credo, toccherà anche il tema sotto esposto. Sto leggendo parecchie cose (vi risparmio, per ora, l’elenco) che sono assolutamente pertinenti al medesimo. Sull’ultimo numero de Il Venerdì è uscita una recensione della sottoscritta al romanzo di Kenneth J.Harvey (vi posto una parte dell’articolo, l’integrale è un po’ lungo) che sullo stesso si centra. E ho la sensazione, già esplicitata altre volte, di aver preso la famosa astronave del paradosso dei gemelli di Einstein, e che il mio concetto di tempo stia vacillando (cosa significa questo fustigarsi sui mass media nel momento in cui i medesimi stanno estinguendosi come “mass”?). Comunque:
Dolori e orrori della modernità. Se in Cell di Stephen King la fine della specie umana passa attraverso il telefonino, in La città che dimenticò di respirare del canadese Kenneth J.Harvey (Einaudi Stile Libero, pagg.529, euro 16,50, traduzione di Alessandra Montrucchio) sono l’elettricità, la televisione, Internet, ad impedire ai morti di manifestarsi ai vivi, e di continuare così la catena di rimpianto e di saggezza che garantisce la memoria e, con essa, la conoscenza di sè. Di qui, un presagio di sciagura che culmina infine in catastrofe. Questo il libro: che parte come un horror e si rivela però una storia sulla morte delle storie.
La città che dimenticò di respirare, che ha incantato il Nobel J.M.Coetzee, è uno stranissimo romanzo, che alla fine delle lettura lascia storditi come dopo un’esposizione al sole così eccessiva da rendere credibili i suoi calamari giganti, i serpenti marini, le idre e gli spettri. E’ visionario e angoscioso come The sixth sense, folle come Twin Peaks, pennellato dei sussurri gotici di Giro di vite, etico come un saggio di Baudrillard. E pieno di mostri, anche umani. Come Thompson, il medico azzoppato dall’artrite e goloso di brie; come Miss Laracy, la vecchietta che coglie lillà e porta in tasca biscotti per le fate; o Chase, il poliziotto con moglie depressa che per combattere la solitudine passa ore e ore sul web a collezionare foto di omicidi. O, infine, come Claudia, la diafana artista di ceramiche che ha perso marito e figlioletta in mare e trascorre le ore nella sua casa ad energia solare a scrivere sulle maniche della sua veste vittoriana, bianca come la luna fatale di Oscar Wilde, pervasa di minaccioso ed esangue erotismo come una creatura di Le Fanu.
La storia si svolge in una piccola città, Bareneed, nell’isola di Terranova: per meglio dire, si svolge nel mare (“che rappresenta- ha raccontato Harvey – tutto il passato che abbiamo dimenticato”) che inghiotte vite umane e restituisce delfini rosa e pesci volanti. In questa terra di mezzo della paura arrivano due cittadini, Joseph e la figlia Robin, che trascorre la vacanza col padre dopo la sofferta separazione dalla madre Kim. L’orrore comincia presto: e avviene che pallidi volti di bambine annegate appaiano dietro le finestre e nei fienili delle case. Avviene che si catturino immensi squali albini con un teschio umano imprigionato tra le fauci, e che vere sirene guizzino davanti a vecchi pescatori stupefatti. Avviene, soprattutto, che uno dopo l’altro gli abitanti di Bareneed si facciano cogliere dallo stupore, quindi da una rabbia feroce, e infine dimentichino come si fa a respirare, morendo come mosche. Avviene, allora, che i vecchi morti imprigionati dalle acque risalgano a galla, intatti e flessuosi come se il loro addio alla vita fosse avvenuto un giorno prima. Perché quando si smarrisce la memoria, i morti si riuniscono e vanno verso i vivi che non credono più in loro.
Harvey, autore fin qui di quattordici libri, ha trovato fama e riconoscimenti proprio con la narrazione di questa piccola apocalisse scritta nel 2003, l’anno dell’allarme Sars, e arrivata in Europa nell’anno dello tsunami. E’ stato avvicinato alla scrittura di Salman Rushdie, ma confessa di non averlo mai letto. E cita, generosamente, gli autori che invece lo hanno influenzato: Richard Brautigan, Mickey Spillane, Albert Camus, Ernest Hemingway, Stephen King, Flannery O’Connor, Guy de Maupassant, Leonard Cohen, Charles Bukowski, Nikolai Gogol, Paul Bowles, JD Salinger. Ama –ovviamente- il mare e detesta la contemporaneità: “La rivoluzione industriale ha reso le cose molto facili, ma questa facilità gioca un ruolo profondo nell’eliminazione della nostra specie. La facilità del controllo remoto e dell’accesso istantaneo, di manipolare parole col minimo sforzo, solo premendo un bottone e trasmettendo testi in tutto il mondo in un solo istante. E’ la nostra pericolosa magia”.
Insomma una sorta di mix di Dies Irae + La notte dei morti viventi:-/
OT: Loredana, ho da chiederti un consiglio via mail. Non la trovo qui in giro. Se me la comunichi (ti ho lasciato l’indirizzo qui sotto), mi fai un piacere e non intaso qui. Gracias.
[Ste]
Ste, la mail è loredana.lipperini@gmail.com
Un filo rosso lega il bellissimo romanzo di Harvey al più leggero florilegio di Akunin (“le città senza tempo”). Ma tanto ci conferma che dimenticare i morti, dimenticare la morte e la propria finitudine sono il più grande male di questo Presente.
La recensione che ho letto su Il Venerdì mi è piaciuta moltissimo: sono molto curiosa di leggere il libro.
Loredana Lipperini:
I am very grateful to you
for your kind words about
my book, La città che dimenticò di respirare.
I wanted to say a warm,
heartfelt thank-you.
Blessings,
Kenneth
L’ho trovato pessimo.
Giudizio condiviso dalla maggior parte di coloro che l’hanno letto, a giiudicare dai commenti che si possono trovare in rete.
L’ho trovato pessimo.
Giudizio condiviso dalla maggior parte di coloro che l’hanno letto, a giiudicare dai commenti che si possono trovare in rete.