Pier Luigi Celli risponde alle risposte, con qualche risentimento (non è affatto, a me sembra, di “modesta attinenza” la discussione su chi dovrebbe sottolineare e denunciare l’emergenza: se avete voglia, qui e qui trovate l’audio di due diversi momenti di Fahrenheit in cui, l’altro ieri, abbiamo affrontato l’argomento).
Alcuni studenti della Luiss, di cui Celli è direttore generale, rispondono a loro volta. Qui il testo della lettera che ho ricevuto ieri via mail.
In risposta alla lettera di Pier Luigi Celli a suo figlio, pubblicata da Repubblica il 30 novembre 2009.
Da una rappresentanza del corso Nuovi giornalismi (organizzato da Luiss Business School in collaborazione con Internazionale editore).
Ci siamo incontrati, nel cortile della Luiss, una mattina di gennaio: nutrito gruppo di sognatori e non, iscritti al primo Corso di alta formazione per aspiranti copy editor, photo editor e traduttori. Abbiamo pagato migliaia di euro ognuno e ci siamo formati insieme per sei mesi, parlando di futuri ricchi di professionalità, impegno e voglia di cambiare il mondo. Sognando anche, magari, uno stipendio. Perché i precari si nutrono di cibo e non solo di aspirazioni.
Il master è finito. Ora ci muoviamo tra strade telematiche e reali alla ricerca di qualcuno che voglia impiegare le nostre (tante) competenze fuori dalla mostruosità degli stage. Ma siamo sempre: troppo o troppo poco esperti, eccessivamente o non abbastanza giovani, arrivati tardi o presto, schiacciati da meccanismi marci che sostengono la logica dello sfruttamento. Perché è di sfruttamento che si parla quando si pretende che qualcuno lavori gratis per mesi senza nessuna prospettiva. Una gavetta perenne che non fa crescere la persona o la professionalità, ma ti trasforma nell’ingranaggio di un sistema a circuito chiuso.
Il dolore di Celli padre non ci addolora, se utilizzato in pubblico per promuovere una tesi sbagliata. È invece la triste ammissione di un’élite politica vigliacca, che non ha saputo svolgere il suo lavoro e chiede ai suoi figli di scappare da un paese che non ha saputo governare. È il messaggio ipocrita di una classe dirigente che piange lacrime di coccodrillo, ma non si dimette: continua invece a ingrassarsi il portafoglio lucrando sulla disperazione di chi non può partire o sui desideri di chi non vuole andare a far fortuna all’estero. Questo, spesso, sono i prestigiosi “master”, i nuovi costosi lasciapassare per il futuro che poi tanto in là non ti fanno andare.
Non vogliamo entrare in una logica inutile di accuse e colpe. Scuse non le pretendiamo, ci è stato insegnato a non aspettarcele.
Noi, però, non vogliamo andare via. Vogliamo scrivere nella nostra lingua, bellissima, preziosa. Vogliamo fotografare questo paese e traghettare la nostra cultura altrove. L’alternativa alla fuga di cervelli, come ha dimostrato la storia, non è più la resistenza, ma buttare dalla nave chi continua ad aprire delle falle per farla affondare.
La verità è che noi non abbiamo né posti in prima fila né cognomi importanti: siamo quelli bravi che, però, devono rimanere a bordo anche se la nave affonda. Per quanto il nostro paese possa esser senza speranza, noi restiamo qui, senza i soldi per comprarci una casa dove vivere e senza quelli per averli noi, i figli, ed educarli a cambiare questo sistema anziché invitarli a scappare.
Mattia, non andare via, è troppo facile: vincerebbero loro e sarebbe colpa nostra.
E’ un po’ come la questione dell’aborto, secondo me. Cioè: è ovvio che nessuna donna vorrebbe abortire, è ovvio che nessun giovane vorrebbe lasciare l’Italia. POTENDO. Questa è la parola chiave: la libertà di scegliere.
Chi dice che bisogna restare, che la nostra lingua è bellissima, la nostra cultura, il territorio, etc.etc., evidentemente sente nelle sue mani ancora un pizzico di libertà – o almeno si illude di poter scegliere, di poter decidere di restare.
Capita, certo, che alcune donne scelgano di non abortire pur essendo in condizioni personali, familiari ed economiche estreme: alcuni la leggono come una scelta a favore della vita, come valore in sè, altri come una scelta irrazionale, ma in ogni caso si tratta pur sempre di salvaguardare la libertà di una scelta – di una scelta a favore del diritto di scegliere.
Credo che molti abbiano reagito alla lettera di Celli con durezza, proprio perchè quella lettera fa vacillare questa fiducia, questa salvaguardia del diritto di scegliere – diritto di libertà che per molti è il valore primo e ultimo, in cui si distingue l’umanità, l’individualità.
Il fatto è che per molti – questa è la verità, se la si vuole guardare senza omertà – questa libertà di scelta è concretamente ridotta ai minimi termini.
Faccio il mio caso personale: sono otto anni che cerco di dare uno sbocco lavorativo ai miei studi, alla mia vita. Ho fatto solo lavori precarissimi, e senza profitti.Ora sto chiudendo una libreria, aperta solo un anno fa, evidentemente in modo scellerato. E non so cosa farò, da gennaio. Che scelte mi restano, a 35 anni, con una laurea in filosofia e un curriculum che sembra una groviera? E per la mia donna, 39enne, è la stessa cosa, e per molti amici è così, o peggio.
E’ ovvio che uno come me pensi di portare in salvo sè stesso e la famiglia all’estero, se può.
Un mio amico naturalista – quando faceva l’assistente universitario a Pisa – doveva mantenersi lavorando in un telemarketing, 4 ore al giorno. Io ero il suo capo, pagato un’euro all’ora in più di lui. Ora lui è professore universitario a Oxford, e io, che sono rimasto qui, sono un disoccupato fallito. Chi dei due ha sbagliato?
Paolo, è evidente che il problema non solo esiste, ma è pesantissimo, urgente quanto sottovalutato. Se vai al secondo dei link radiofonici verificherai che Alessandro Rosina fa proposte molto concrete sull’argomento.
Quello che mi preme sottolineare, è che la “narrazione” di Celli (quella che, come mi hai scritto non dovrebbe sfuggire a chi si occupa di libri) rischia di oscurare la problematica nel momento in cui la porta in primo piano. Una settimana di discussioni, quindi il silenzio. A modestissimo parere di osservatrice, non è questa la strada giusta: sia lode all’arte della retorica, ma subito dopo devono venire le pratiche. Culturali. Sociali. Politiche.
Per tutta la prima parte della lettera ho gioito e sottoscritto. La retorica del noi rimaniamo qui perchè siamo martiri della patria mi ha dato il voltastomaco. Martiri alla Luiss? conferma la mia idea.
Chi rimane è perchè può. O perchè gli basta. L’amor patrio ci entra sempre poco in queste cose. La classe dirigente permette ai suoi figli di rimanere perchè li fa galleggiare, la fuori la meritocrazia non sempre permette di questi stratagemmi. Insomma la condanna a Celli mi sembra esatta e legittima, e trovo sia giusto responsabilizzare una generazione dello stallo di un paese, specie chi come lui ha avuto la possibilità in termini di potere per fare diversamente. Ma la rampogna etica, verso chi se ne va come traditore della patria e persino privilegiato, è una cazzata. Perchè è proprio il contrario.
Bella lettera. Peccato che la tenutaria del blog sia nota per le sue censure umoral/uterin/demenziali.
Questa è una delle rare volte in cui non sono affatto d’accordo con te, zauberei. Per esempio, io sono laureato in lettere. La mia laurea all’estero non serve a nulla, a meno che non vada a fare il professore di italiano in qualche iperuranica università per ceti nobiliari o la DC Comics mi chiami per scrivere le sceneggiature di una sua serie a fumetti (possibilità, quindi, uguali a zero). E a questo punto, tra fare il centralinista a Londra e farlo a Roma, preferisco la seconda. Chi rimane qui non è che lo faccia per eroismo, ma forse perché ha ancora meno possibilità di chi si può permettere di pagarsi vitto e alloggio (perché, almeno finché non cominci a lavorare seriamente e a mettere da parte qualche spicciolo, qualcuno i soldi per partire te li dovrà pur dare).
Sono stato 5 anni all’estero a lavorare presso una prestigiosa istituzione scientifica internazionale. Grazie al credito guadagnato con quella esperienza la mia situazione lavorativa in italia è più solida, tuttavia permane il disagio per la frequentazione di un sistema, quello italiano senza distinzioni tra pubblico e privato, dove si ha la netta sensazione che competenza e merito non siano preminenti, mentre domina un sistema di relazioni piuttosto articolato per il quale pochi accedono a lavori importanti mentre il resto in sostanza si adopera per trovare soluzioni frammentate ed inadeguate. una società virtuosa dovrebbe progredire facendo leva su altri meccanismi di cooptazione e reclutamento, in Italia invece un laureato in media sa che una ‘raccomandazione’ è indispensabile, la sua capacità no. per me il punto nevralgico è solo questo. finchè la società non sceglie per il meglio tutto risulterà inerte, farraginoso, complesso, e quindi meno prodotti e meno lavoro.
A proposito di raccomandazioni: tanto sono storie che conosciamo tutti. Nel mio caso, i primi anni di studi li feci alla facoltà di giurisprudenza, dove i miei, ansiosi di vedermi sistemato, riuscivano puntualmente a procurarmi, contro la mia volontà, raccomandazioni inutili, a ogni esame. Per loro era normalissimo. Per me era una cosa vergognosa e umiliante. Studiavo ugualmente come un matto – studiai 6 mesi per il solo diritto privato. Avevo la media del 29: ma non sapevo mai se quei voti erano meritati o no, perchè i miei, ormai, mi procuravano le raccomandazioni di nascosto.
Alla fine decisi di cambiare facoltà, anche per questo. Cretino che non sono altro. Se avessi accettato quel loro sistema, oggi sarei sicuramente un avvocato, un magistrato, un magistrato, come altri miei amici di quell’ambiente, che so benissimo da chi e come sono stati “aiutati”.
Ho accettato solo una volta una raccomandazione: dopo anni di tentativi a mandare curriculum a un supermercato, senza ricevere risposta. Volevo almeno un colloquio! Con la raccomandazione, sono riuscito a ottenere un colloquio, ma vedendo che ero laureato, mi hanno mandato via – a loro non servono magazzinieri laureati.
In Italia, per molti lavori, senza la raccomandazione non ti guardano neppure in faccia!
La tensione civile generatasi intorno alle parole di Celli mi conferma che sotto il fango morale che stà seppellendo il paese, c’è ancora suolo fertile per far crescere un mondo nuovo. Le voci, critiche o di apprezzamento, indicano una precisa esigenza di trovare strade, sicuramente tortuose, per raggiungere questo nuovo mondo. Anche secondo me Celli è in gran parte ipocrita ma è pur sempre il primo dentro l’establishment a dire che quello che ha concorso a creare fà schifo. E’ apprezzabile in un paese dove si premiano i comportamenti più squallidi e dove fare schifo è una virtù! Sull’università, la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione, insomma tutto ciò che fà “cosa pubblica”, domina un compiaciuto disprezzo alimentato dalla demagogia e dal populismo più bieco, c’è l’urgenza di fare piazza pulita. Anche chi si oppone a questo comune sentire sembra accettare supinamente l’ineluttabile necessità di buttare via tutto. E allora, scusatemi, ben vengano le provocazioni di un “interno” al sistema e che ci scuotano finalmente nel decidere se vivere e far vivere i nostri figli in un immensa Las Vegas oppure ricostruire il bene comune. Dall’ultimo degli uomini della strada al Presidente della Repubblica, ciascuno è chiamato in questo tempo a decidere. Provando per un secondo ad astrarsi dalla dimensione personale e a mettere accanto a se le facce dei propri figli e di quelli degli altri! Allora andarsene potrebbe non essere l’unica possibilità!
Marco, Ricercatore, Padre, utente della scuola pubblica, del servizio Sanitario Nazionale, della pubblica amministrazione……
Mio figlio Luca ha 31 anni. Da 6 è un cervello in fuga. Fisico teorico (stringhista) se fosse rimasto in Italia, se invece di fare il primo postdoc a Tel Aviv (è proprio lì il problema: iniziare la “vera vita” dopo-laurea con il primo postdoc all’estero; saltato quel fosso tornano raramente indietro..) avesse accettato la sua condizione di precario nelle università italiane, sperando in un posto da ricercatore dopo almeno 8-10 anni di lavoro-gratis, oggi sarebbe uno dei tanti frustrati trentenni che abitano con i genitori, che vivono di paghette, che accettano umiliazioni senza ribellarsi… Nonostante skype o cellulare, mio figlio mi manca, ovviamente. Ma sono arcicontento per lui. nel 2010 conclude il secondo postdoc (ora a New York), guadagna più di me dopo 30 anni di lavoro, ha buone speranze di far carriera negli USA. Ovunque, ma non in Italia, vanno avanti i più meritevoli, i più bravi. Ripeto, sono contento per mio figlio. Dovremo cominciare a dimenticare le frontiere, le divisioni tra stati. Il mondo è davvero un unico paese globalizzato, specialmente per i giovani che iniziano ora a lavorare dopo tanti anni di studio. Per loro, restare qui o andarsene fuori dev’essere una cosa normale. Però, devono curare molto bene le proprie eccellenze. Auguri!
Quello che ha detto Celli in quella lettera è sacrosanto. Non so se sia giusto andarsene, ma di certo il dover sottostare a certe logiche per lavorare è profondamente diffuso. Io ed altre tre colleghe laureate come me 110/110 con lode, con dottorato, master e ottime esperienze lavorative, dopo aver vinto brillantemente un concorso in una amministrazione pubblica, hanno scoperto a proprie spese come si conquistano le posizioni di privilegio. E’ importante che tutta la propria esperienza e capacità sia messa da parte per far spazio alla sola logica politica. Credo che durante il corso di laurea dovrebbero introdurre obbligatoriamente una materia: “elementi di raccomandazioni”. la cosa triste è che non sono solo gli anziani a possedere la mentalità dell’aiutino ma anche buona parte dei giovani italiani. E difatti chi non accetta o si sottomette a quel sistema paga lo scotto con incarichi inesistenti, spesso portati avanti da incompetenti. questa è solo la mia esperienza e perciò non fa statistica e mi piacerebbe tantissimo essere smentito da esperienze differenti.
Un paio di considerazioni Loredana. Partendo dal presupposto che non si cura una malattia se non se ne conoscono le origini e gli organi affetti, non si può continuare (almeno nell’analisi) a girottolare attorno al problema in un’eterna perifrasi.
Il problema è duplice: da un lato il principale responsabile è la distribuzione del reddito. Non è semplicemente possibile che il concetto carriera implichi un divario enorme tra chi entra e chi occupa i vertici. Punto.
Nessuno vuole discutere la liceità del proprio guadagno, e questo è il vero grande problema. Tutti credono che la responsabilità sia d’altri, spostando l’asticella del guadagno eccessivo sempre più in alto, sempre a qualcun altro.
Secondo problema è l’illusione da aspettativa mancata in chi accumula inutili titoli (non)formativi, foraggiando comunque la classe professionale dei professori, a tutti i livelli, che già si barcamena e fa pressione come tutte le altre coorporazioni.
Nessuno dei due punti è sostenibile se non con l’argomento di una perenne crescita dello sviluppo economico, nel quale è possibile propagandare l’aumento indefinito della quantità dei posti di lavoro, della creazione di inedite professionalità, e del mantenimento del proprio raggiunto status economico.
Semplice diagnosi. Difficile terapia. Ma almeno non prendiamo lucciole per lanterne.
sottoscrivo in pieno il commento di The Daxman… io sono laureato in filosofia (si vabbè me la sono cercata) ma almeno i 2/3 dei laureati della mia generazione che conosco si trova costretta a lavorare (se questo è lavorare) in condizioni di precarietà e/o sfruttamento perenne in ambiti che poco o nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi. e persino quelli che hanno il portafoglio di papà pieno e che si posso permettere dei master poi quando tornano qui (e non per gli spaghetti della mamma) sono costretti ad accettare impieghi pessimi….
P.S. nei giorni scorsi è stata pubblicata anche quest’altra risposta a celli, secondo me più “centrata” e “politica” http://www.giornalettismo.com/archives/43288/
Sinceramente non riesco a cogliere lo stupore destato dalla lettera di Celli. Che si trattasse soltanto di una provocazione era abbastanza chiaro; figurarsi se un figlio di cotanto padre possa avere difficoltà a trovare in questo malandato paese un sistemazione congrua alle sue aspirazioni. In ogni caso perchè dovrebbe spaventare l’ipotesi di una fuga all’estero? Forse che abbiamo dimenticato che qesto avviene da più di un secolo? Oppure che la fuga debba essere riservata soltanto alle braccia ( e qui non si è mai scandalizzato nessuno) e non ai cervelli? O forse qualcuno ha notizia di quanto è stato fatto dalla politica negli ultimi 20 anni per evitarlo? E poi non viviamo in un mondo globalizzato, o questo vale solo per le mercanzie?
Sono convinta che una disamina lucida della situazione non possa che generare quella amarezza sfiduciata che si legge nella pagine di Celli, ma è gravissimo che a fare affermazioni del genere sia un intellettuale che occupa quel ruolo. Io non dirò mai ai miei figli (22 e 17 anni) “l’unica alternativa è andarsene dall’Italia”. Andassero pure a fare esperienze formative all’estero, si globalizzassero quanto vogliono, ma poi mi facessero la cortesia di tornare in Italia, rimboccarsi le maniche e dare una mano alla Nazione, che – non è marginale – ha investito su di loro proprio in termini di formazione. Se estendiamo il modello-Calabria a tutta l’Italia (andarsene per tornare si e no per le vacanze ed esaltare le bellezze del posto) avremmo deciso definitivamente la morte di questa Nazione. Bisogna indignarsi, analizzare e criticare, ma poi combattere per il cambiamento. Questo è dignitoso; tutto il resto è puro intellettualismo chic
Le reazioni che mi ha suscitato quella lettera sono talmente tante che non so da dove cominciare.
Innanzi tutto, una cosa. Non credo sia possibile separare il contenuto e il soggetto che lo esprime, visto che non stiamo dimostrando un teorema geometrico. Perché il pericolo è proprio questo: siamo d’accordo con le cose dette da Gelli così come siamo d’accordo che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti.
Lampante! Ma io non chiedo al professore che mi descrive e mi dimostra questo teorema quale parte in causa abbia avuto nella faccenda che sta dimostrando. Al professore universitario che mi descrive (e mi dimostra pure, chi dice il contrario?) che i suoi studenti debbano scappare dal Paese in cui sono nati e stanno studiando io questa domanda mi sento in diritto di farla.
Sono stracovinta che quando parliamo e scriviamo (anche in forma anonima su un blog) non siamo solo istanze parlanti, ma soggetti morali per cui dovrebbe valere quella cosa troppo sottovalutata che va sotto il nome di ‘congruenza’, che non è semplice coerenza (quella cosa che va bene per gli imbecilli, come dicono tutti gli illuminati giravoltini), ma una rispondenza tra quello che si pensa, quello che si dice e quello che si è. Almeno nel qui ed ora.
Allora, Celli scrive che non bisogna rimanere alla superficie delle biografie. E sia, gli do atto che essere stato un gran commis di questo stato non gli può essere ascritto a colpa, mi limiterò a considerarlo semplicemente come esponente di una classe, però non posso non stupirmi di alcune sue affermazioni, e soprattutto il tono con cui sono state dette, quelle di un intellettuale che sembra scoprire solo adesso l’acqua calda, anzi bollente.
Meglio tardi che mai, mi verrebbe da dire, ma tant’è.
Dunque, la classe dirigente di questo paese, i gran commis, gli intellettuali, le teste pensanti.
Non voglio produrmi in un’invettiva, in cui pure mi sento particolarmente versata soprattutto su questi temi, perché di retorica se n’è fatta già tanta, ma mi chiedo in modo puramente denotativo: dove è stata finora la classe dirigente di questo Paese? Come ha fatto a non vedere quel ‘contesto’ che ora la crisi ha reso sicuramente più visibile, ma non è scuramente imputabile alla crisi? E soprattutto in che modo loro sono stati dentro a questo contesto, in quanta parte ne sono stati e ne sono ancora responsabili?
La mia impressione è che in questo paese l’esercizio della ‘dissimulazione onesta’ non è mai stato abbandonato, che la gesuitica ‘riserva mentale’ è un retaggio culturale resistente, per cui ci si sente sempre legittimati a separare ciò che si pensa da ciò che si fa o che si permette ad altri di fare, limitandosi, nei casi più coraggiosi, a un gioco di fronda.
“In questo paese esiste un contesto in cui accadono cose terribili!”
Sicuro, come accade che il quadrato costruito sull’ipotenusa ecc. ecc. ecc.
Intervengo frettolosamente per segnalare il sito su cui si trovano gli interventi dei sedici giovani professionisti espatriati e il loro appello al presidente della Repubblica.
Visitate.
http://fugadeitalenti.wordpress.com/
Sospesa tra restare e partire, avevo adocchiato anch’io il master della Luiss in Nuovi Giornalismi come possibile “carta in più” da giocarmi nel lavoro, poi avevo rinunciato… leggendo questa lettera resto felicissima di non averci speso su soldi, tempo e speranze inutili.
Venite a Bologna, e guardate cosa succede:
http://bologna.repubblica.it/dettaglio/braga-si-appella-agli-anziani-delluniversita-andate-in-pensione:-libererete-risorse/1778558
Il pro-rettore ha chiesto agli “Anziani” di andarsene. È successo il finimondo, con ricorsi e veleni… Insomma, i “vecchi” non se ne vogliono andare. A 70anni vogliono stare ancora seduti nelle loro cattedre, guai!
Mentre dall’altra parte una qualunque persona a 30anni vorrebbe cominciare a lavorare, a guadagnarsi uno stipendio de-cen-te. Magari insegnare, farsi una famiglia, fare ricerca… una follia, no?
Bologna, che tristezza.
Quello che più mi irrita ma ahimé non mi stupisce, è la solita corsa che si scatena a cercare di spiegare/giustificare/dimostrare le proprie ragioni. Sogno un’Italia che dia ai suoi cittadini, ai suoi ragazzi, gli strumenti per restare e anche quelli per andarsene. E per CAPIRE entrambe le scelte. Invece siamo come sempre divisi sull’aria fritta. Sogno un paese in cui sia possibile sviluppare empatia, comprensione, imparare le lingue, vedere più in là del proprio naso e vivere serenamente le scelte di tutti. Io dopo anni di precariato e due di tasse allucinanti (partita iva con scarso guadagno) me ne vado, e sorrido. So di essermi battuta, e ora è il momento di farlo in un altro modo.
Io sono un padre di un figlio “fuggito”.
Mi chiedo solamente come mai non sia possibile sentire una volta un dibattito serio, su questo tema, a cui partecipino qualcuno degli esponenti del .. famoso governo del fare.
E’ all’evidenza di tutti il problema, se ne parla sempre …”di passaggio” e o in forma sommaria ma mai ho sentito un qualunque impegno del governo che non sia una vaga intenzione o una decisione rimandata o rinviata ad un futuro che poi non giunge mai.
La cosa va affrontata una volta per tutte nella prospettiva giusta e cioe’ non solo nello sviluppo sociale del problema ma anche da un punto di vista dello sviluppo economico.
Gli americani dicono che ogni dollaro investito in ricerca aumenta di 2,5 dollari il Pil …
Evidentemente, a parte la riflessione che nessuno puo’ speculare sulla ricerca (cosa, questa, che ai nostri politici non piace) si preferisce investire su obiettivi che portano ad un risultato, magari effimero, ma immediato.
In pratica si preferisce far fare un ponte sul Canal Grande o sullo Stretto ad architetti e ingegnieri stranieri invece che creare degli architetti o ingegnieri italiani oppure pagare brevetti di medicinali invece che creare laboratori di ricerca.
Ma perche’ nessuno del governo risponde a queste cose?
Fanno dichiarazioni su tutto ma di questo nessuno parla e la ricerca, nei loro programmi e’ solo una parola svuotata di alcun significato che non sia quello di un comparto di spesa a cui destinare per un futuro prossimo (che mai arriva) delle risorse che e’ sempre piu’ urgente destinare a qualcos’altro.
Ho scritto 2 libri con il più importante e indipendente editore italiano e molti saggi su prestigiose riviste. Ho un dottorato e un post-dottorato presso un prestigiosissimo istituto di ricerca. Ho parlato a una conferenza negli States organizzata da Harvard-Brown.
Eppure vivo da precario con 1000 euro al mese. Non un viaggio, non uno sfizio, non un progetto di vita. Al momento nessuna prospettiva di una ‘sistemazione’ accademica definitiva.
Trovo francamente disgustoso ciò che dice Celli. Da boiardo di Stato viene a dirci che siamo precari e che dovremmo andare via. Da multimilionario viene a dirci che la vita in Italia è precaria. Da rettore — con la situazione attuale dell’università italiana, nella quale il merito non vale nulla e si procede per cooptazione in dispregio persino della Costituzione, che prevede l’assegnazione di posti pubblici per concorso non predeterminato nell’esito — viene a dirci che l’Italia è quella che è. Certo ci vuole un bel pelo sullo stomaco.
Chi pensa che il figlio di Celli, se si trovasse ad affrontare qualche difficoltà, avrebbe l’angoscia che ho io oggi nel non sapere come sbarcherò il lunario domani? Nessuno di buon senso, credo.
Infine, una nota sull’odio di classe. Gente così, dall’alto degli attici e delle ville, non fa che inasprire un odio di classe che le persone con seri problemi di vita provano di fronte all’ipocrisia dei potenti.
ps: trovo altrettanto disgustoso il fatto che Celli parli oggi, “vista l’età”. E’ davvero comodo dire che il mondo fa schifo dopo aver contribuito a renderlo tale e aver messo al sicuro rendite di posizione ed economiche per sé e, spiace dirlo, per i propri figli.
Da emigrata in Inghilterra (sono quasi 5 anni), per scelta, mi sensto spesso lacerata tra la nostalgia di casa, della famiglia, gli amici di sempre, il ‘conosciuto’ che mi ha cresciuta, e la soddisfazione per il lavoro e le possibilita’ offertemi in maniera giusta e trasparente (meritocratica), qui. E non solo, le cose sono anche piu’ complesse, perche’ ci sono i sensi di colpa, sia nell’abbandonare i genitori, quando anche mia sorella e’ all’estero in Francia da molti anni (un vero cervello in fuga), e qui mi capiranno Lorenzo e suo figlio, sia nell’abbandonare il mio Paese – alla proiezione di ‘Gomorra’ in un cinema inglese mi son trovata a piangere di disperazione e sconforto, unica in tutta la sala e del tutto incompresa dal mio partner, e dal senso di vergogna per essermene andata e quindi lavata le mani. Rimanere in Italia per me avrebbe significato perdere la dignita’, allora si’ avrei avuto bisogno di appoggiarmi in modo sostanziale ai miei genitori! Invece ho fatto domanda per un lavoro in universita’ qui in Inghilterra, e sono arrivata gia’ con uno stipendio, il che mi ha permesso la totale autonomia – non sono d’accordo con Daxman che parla di doversi mantenere vitto e alloggio per un po’, la maggior parte di noi emigrati arriva gia’ con un contratto, se pure a tempo determinato.
Insomma la scelta iniziale, di cui mi potevo concedere il lusso, ora e’ sparita, e re-incontrando di recenti amici e vecchi colleghi capisco con rassegnazione che non esiste in questo momento una ‘scelta’ di ritorno. Vedermi dimezzare lo stipendio, che qui mi ha consentito di accendere un mutuo e comprare un piccolo alloggio, e sparire la possibilita’ di mai progredire a professore? Piuttosto, cercherei il modo di riunire la famiglia in Inghilterra, non fosse che ci sono problemi di lingua.
La situazione e’ la stessa per tutti i miei ex compagni con cui ho studiato fisica – pochissimi hanno un lavoro che li soddisfi a pieno e al tempo stesso porti garanzie, e nessuno di loro e’ rimasto a fare il ricercatore in fisica. Tutti 110 o 110 e lode… per cosa?
Mi riallaccio a quanto scritto da Zauberei. Anche io sono rimasta piuttosto irritata dalla retorica dei martiri della patria. Sono “figlia di nessuno”, lo studio era la mia unica possibilitá di dare forma alla mia vita nel modo piú libero possibile. E di questa libertá che ho conquistato tanta fatica faccio ora uso (vivo in Germania da 6 anni) e non me ne pento. In fondo le aziende spostano gli stabilimenti alla ricerca delle migliori condizioni (manodopera, tasse,…), perché non possono le persone fare lo stesso senza essere tacciate di vigliaccheria? E non parlo solo di condizioni economiche, anzi, ma di contesto politico, di qualitá della scuola per i figli (!!!!), di qualitá della pubblica amministrazione e cosí via! A me l’Italia berlusconiana fa paura, le condizioni di lavoro che mi vengono offerte sono insoddisfacenti, cosa dovrei fare? Ripeto, uso la libertá che ho conquistato e ne sono proprio fiera!
Io condivido il gesto, la provocazione di Celli; in una Italia addormentata, narcotizzata dalle Tv Berlusconiane ha avuto il merito di dare una scossa; anzi è arrivata troppo tardi, in un sostanziale silenzio diffuso del mondo intellettuale. Non è possibile che a dire parole chiare ci siano solo Beppe Grillo o Sabina Guzzanti.
Mi è sembrata però un po’ generica nel merito. L’analisi di Celli è corretta, ma un po’ scontata, non è il primo a sollevare quel tipo di problemi. Ma si è fermato lì e mi sarei aspettato che andasse più in profondità. Di chi è la colpa se l’Italia è fatta di clan che producono carriere senza merito? Se un manager guadagna quanto 200 dipendenti, per mandare l’azienda in fallimento senza risponderne?
Al di là del potere costituito c’è una Italia dormiente che vede tutto senza reagire aspettando solo favori dall’alto? Ci sono “punti di riferimento” di vario genere (Chiesa, Sindacati, associazioni, partiti, imprese), che dovrebbero prendere posizione ma dormono anch’essi? Ci sono giornali, apparentemente indipendenti, a cui sembra normale che si parli continuamente di riforme della giustizia in funzione degli interessi di un capo del governo plurinquisito, mentre le aziende chiudono? E soprattutto c’è una maggioranza di governo che dovrebbe affrontare questi problemi ed invece è chiusa a riccio sugli interessi inconfessabili del suo capo? Dove sta la moralità di questa gente e di chi li vota? C’è una opposizione che recita solo una parte teatrale senza fare opposizione reale (Di Pietro escluso)?
A queste domande avrebbe dovuto rispondere Celli invece di denunciare ancora problemi ben noti e volutamente lasciati a marcire dall’establishment.
Comunque, almeno si è esposto, e di questo si deve dare atto…
io credo che nessun genitore siciliano o calabrese (o di altri posti dove c’è mafia e non lavoro) verrebbe criticato se dicesse al figlio a alla figlia di cercare lavoro a milano o nel nord. non solo oggi ma anche in passato.
non capisco le critiche a chi dice di lasciare QUESTA italia e lo fa su un giornale proprio per denunciare e per provocare un dibattito. liberi i figli, o le figlie, di seguire le indicazioni paterne. secondo me, i padri possono benissimo invitare alla fuga oppure no e i figli seguire le indicazioni oppure no. in ogni caso, l’italia è proprio MALRIDOTTA!
cmq noto che nessuno del GOVERNO si è espresso e NESSUNO ha pensato di rivolgersi ai giovani stranieri per invitarli a venire in italia.
Non si tratta, però, di criminalizzare chi parte e di santificare chi resta, il punto è di capire se sia ancora possibile in questo paese rendere pensabile la scelta.
E dico ‘pensabile’ prima che ‘praticabile’ perché a me pare che la grande tragedia di questo paese è che sia scomparsa la capacità di immaginare il cambiamento.
Sic stantibus rebus… d’accordo, ma questo significa ipostatizzare il presente.
Propongo allora di trasformare tutta l’italia in un grande parco a tema, e così non ci pensiamo più. Attrattori economici non ci mancano: reperti artistici, antropologici, folklorici, sociali ce ne abbiamo a iosa.
Si tratta di attrezzarci con qualche didascalia, qualche guida turistica, e vai. Quelli che restano possono in definitiva campare sul passato. Ne abbiamo tanto alle spalle.
Io, per il tipo di vita e di relazioni in cui mi trovo, non posso “espatriare”, e infatti ho rinunciato a concrete opportunità (sarebbe lo stesso se vivessi a NY e mi proponessero un posto a Parigi). Ma ai miei alunni che si iscrivono a facoltà scientifiche (quasi sempre i migliori in filosofia) consiglio sempre di guardarsi attorno e cogliere la prima occasione (così come sconsiglio vivamente, a chi mi chiede consiglio, di iscriversi alla LUISS e di scegliere un’università più seria).
Se per fare ricerca ci sono migliori prospettive a Copenhagen o Londra, piuttosto che in Italia, perché non coglierle? Andare in Europa o in America (e prima o poi in India) non è fuoriuscire dall’umanità, ma solo da un confine geografico. Se domani ho bisogno di un farmaco spero di trovarlo, non importa dove sia stato sintetizzato: se allontanarsi da casa aiuta ad averne di più (e sicuramente se ne inventano più in laboratorio che portando la borsa del barone), ben vengano i cervelli in fuga. Il problema dovrebbero essere i cervelli in fuga dall’umanità, dalla civiltà, dalla democrazia… Siamo in Europa, cominciamo a pensare da europei, magari come premessa a pensarci cittadini del mondo, per i quali “casa” è qualunque posto dove stai bene.
Poi, fatta questa ginnastica mentale, cominciamo a parlare del vero problema: le baronie, le università come centri di potere, e via dicendo. Sui quali i primi a dover tacere, per decenza, sono quelli come Celli.
Mattia, non andare via….! Credo sia questo il concetto che il Professor Celli avrebbe dovuto, in modo diretto e non retorico, esprimere attraverso le pagine di Repubblica: lui che ha la possibilità di far risuonare il suo pensierio.
Conosco e apprezzo Pier Luigi per il suo lavoro e per le sue doti letterarie: la lettera al figlio è un espediente retorico, poetico, e può andare bene all’interno di una narrazione (ricorda la famosa “lettera ad un bambino mai nato”, un modo per dire l’ovvio senza affrontare responsabilità e problemi concreti) ma fuori dalla narrativa, nella
spietata cronaca del nostro tempo, c’è bisogno di pensieri e parole dirette, esplicite, in grado di rompere sia l’ottimismo ottuso sia lo strano spaesamento di chi ha guidato il paese (in vari modi e poteri) e che sembra, oggi, arrivare chissà da dove o svegliarsi chissà da quale sonno mettendo i giovani (che non hanno mai guidato e mai avuto alcun potere) di fronte ad uno scenario disperato. E lo scenario è disperato ma questa disperazione l’abbiamo permessa noi che non siamo più così giovani, l’hanno permessa chi, a vari livelli, ha guidato e continua a guidare il paese. I giovani dovrebbero chiederci dove eravamo: forse eravamo troppo intenti ad equilibrismi politici, a fare consulenze tanto teoriche quanto, spesso, disastrose, o semplicemente eravamo per i fatti nostri … La “gerontocrazia” tipicamente italiana nella politica, nel mondo accademico e manageriale è imbarazzante. Ho provato imbarazzo quando, lanciando su linkedin una riflessione sulle responsabilità della consulenza (non solo quella finanziaria ma, forse soprattutto, quella direzionale che ha permesso il consolidamento di una povera cultura imprenditoriale) non ho trovato nessuna seria analisi di ciò che abbiamo fatto e non fatto. Ecco perchè trovo imbarazzate la lettera di Celli: è retorica e, anche se non voluta e fatta con le migliori intenzioni (ma sappiamo quanto le migliori intenzioni siano spesso disastrose), ambigua.
Ah, dimenticavo: non so se 800 Km verso nord siano pochi o molti, però io la scelta di andar via da “casa” e non tornarci più a vivere l’ho consapevolmente fatta a 18 anni, ponendomi gli stessi problemi morali che si pongono oggi i “cervelli in (punto di) fuga” e dandomi le stesse risposte dei “fuggitivi”. Parliamo anche di questo: della maggior parte del futuro ceto intellettuale del meridione, che meridionale decide di non esserlo, e va a mettere il proprio intelletto al servizio di un’economia “settentrionale”, o va a crepare a Nassiria perché l’unica opportunità che un gentista leccese ha trovato è insegnare l’analisi del DNA agli irakeni. Si chiamava, se non ricordo male, “quistione meridionale”, ai tempi in cui il cervello di un figlio di minatori fuggì dalla Sardegna per Torino: e da allora passi in avanti…
Il tema è a cuore di tanti vedo.
Per fortuna.
Se ci si mette, tireremo fuori un cahier de doléances lungo migliaia di pagine. Ognuno con la propria riga di esperienza triste, se non pessima.
Scrivere fa sempre bene. E’ che poi bisogna reagire.
Mi domando allora perché questa generazione di nati circa 30 anni fa (per ora, ma ne sono in arrivo tanti) debba essere tanto schiantata.
Avremmo miliardi di motivi per provare a cambiare le cose. Per sentirci “uniti”. Abbiamo anche la rete.
Siamo la dimostrazione lampante che non c’è stato progresso. Siamo molto più poveri dei nostri genitori (che si stanno impoverendo per mantenerci, ma comunque restano più forti).
Ma non si muove granché. E io ho paura che siamo stati troppo plagiati (e ci siamo cascati dritti nella trappola) a credere che comunque vada dovremo aspettare il collasso gravitazionale, ineluttabile.
Ineluttabile, Ekerot, dici bene, come in quella poesia di Sbarbaro in cui al poeta depresso sembra che “tutto è quello che è, soltanto quello che è”.
Detesto questa visione rassegnata della realtà, mi fa orrore.
Ieri, a Fahre, Alessandro Rosina, che è giovane pure lui e, da quello che so, non viene da una posizione di privilegio sociale, faceva un’analisi molto spregiudicata della situazione.
I vecchi sono quelli che sono, e io non li difendo per niente, ma i giovani spesso si adeguano e si lasciano cooptare.
Ma santo cielo, la parola politica, a parte lo scempio che ne è stato fatto in questo pase, fa proprio tanto schifo? L’idea che si può resistere, denunciare, opporsi proprio non passa per la testa?
Ne parliamo fra poco a Fahrenheit. Rapporto Censis 2009:
“Circa l’80% dei giovani tra 15 e 18 anni si chiede che senso abbia stare a scuola o frequentare corsi di formazione professionale. Dominano il disincanto e lo scetticismo: il 92,6% dei giovani in uscita dalla scuola superiore ritiene che anche per chi ha un titolo di studio elevato il lavoro sia oggi sottopagato, il 91,6% pensa che sia agevolato solo chi può avvalersi delle conoscenze. Inoltre il 63,9% degli occupati giudica inutili le cose studiate a scuola per il proprio lavoro. La visione pessimistica travalica i confini dell’universo educativo: il 75% dei laureati e l’85% dei non laureati di 16-35 anni pensano che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro solo grazie alla propria preparazione”.
@ Ekerot: magari. Il problema è capire come potremmo reagire. Possibilmente senza imbracciare le armi, ovviamente (“solo sul sangue viaggia la barca della rivoluzione” diceva Manfredi/Pasquino in “Nell’anno del signore”). Ma anche senza limitarsi a fare casino nelle piazze, che tanto finita la festa, tutto come prima.
Mi dispiace ma Celli non me la racconta giusta. Già qualcun altro qui nel blog si è chiesto dove hanno vissuto lui e tutta la classe dirigente italiana per accorgersi solo ora di quello che sta succedendo alle giovani generazioni. Io sono all’estero da 18 anni; sono andata via dall’Italia perché già allora per chi non aveva santi in paradiso e/o la tessera di partito non c’era nessuna possibilità. Celli e quelli come lui, cioè i responsabili dello sfascio attuale, dovrebbero almeno avere la decenza di stare zitti.
http://lucioangelini.splinder.com/post/21817472/CITATO+DALLA+IANNUZZI+%28E+NON+D
Di questo argomento ne parlai tempo fa sul blog di Scrittori Precari e su Carmilla
. Penso che mettersi a fare la guerra tra chi resta e chi parte è come voler continuare la guerra tra poveri che in questo paese è inizaita con il precariato (guerra non solo di classe, ma anche tra generazioni). Penso che chi rimane non lo faccia per amor della patria (non è il mio caso), e che forse sì, se lo può permettere, o più semplicemente non può permettersi di andare all’estero (i motivi possono essere i più svariati).
La questione per me resta un’altra, ed è la mancanza di reazione di un paio di generazioni (ci sono state le reazione, ma sempre più ridotte a eventi sporadici e subito etichettati come azioni da teppisti o giù di lì).
@ Simone Ghelli.
Parlando di “reazione” – reazione mancata – mi sembra che tu tocchi un elemento centrale. Credo di appartenere ad una generazione, i trentenni, educata a non regire. Molti di noi hanno avuto possibilità di studiare impensabili per i genitori; molti di noi, da ragazzi, hanno avuto in tasca soldi che alla loro età genitori e nonni si sarebbero sognati; molti di noi hanno avuto un’adolescenza ed una giovinezza piene di sogni di progetti e di possibilità nuove per l’ambito famigliare da cui provenivano. Mi chiedo allora a cosa, esattamente, avremmo dovuto “reagire”. Sono la prima della mia famiglia che si è laureata, e quando ho vinto il dottorato i miei genitori neanche lo sapevano, cos’era un dottorato. Contro chi avrei dovuto ribellarmi? E soprattutto perchè? Solo perchè i giovani – per definizione – devono “reagire”?
Il problema è esploso adesso caro Simone (un adesso che dura da qualche annetto, naturalmente). IE’ saltato fuori alla fine della giovinezza, quando ci siamo accorti che tutto quello che abbiamo fatto (laurea, tesi di ricerca, dottorato, master e chi più ne ha più ne metta) dal punto di vista sociale ed economico non valeva proprio niente. Che chi prende decisioni sulla nostra vita (darti un lavoro, un assegno di ricerca, un posto a concorso ecc…) ne sa molto, ma molto meno di te. Che persone “decisive” per la tua quotidianità, il tuo stipendio e il modo in cui impieghi il tuo tempo lavorativo, occupano il posto che occupano per motivi che nella maggioranza dei casi non hanno a che fare con il merito.
La fregatura, insomma, l’abbiamo scoperta tardi.
Questo non significa che non si debba reagire, anzi. La denuncia – il cahier de doleances che dice Ekerot – è almeno un inizio, un contarsi, un sentirsi meno soli, meno piagnoni, pur nei modi particolari che la Rete consente. Mi piacerebbe però davvero fare qualcosa di più concreto. Perdona la lunghezza Loredana, e grazie dello spazio.
@Raffa:
io direi che è da un po’ di più di un annetto che lko abbiamo scoperto. Nel ’99, fresco di laurea in lettere, ho lavorato con due contratti della durata di meno di un mese, ed erano per leggere i contatori dell’acqua e salire sugli autobus a contare chi saliva e scendeva a ogni fermata… certo, all’epoca c’era ancora quella prospettiva che ti faceva pensare che col sacrificio poi le cose sarebbero arrivate, e infatti ho continuato a studiare, ho accettato il dottorato senza borsa, lavorando contemporaneamente dove capitava… e alla fine, quella che sembrava una condizione di passaggio, è diventata una condizione esistenziale condivisa… ora, visto che se n’è presa coscienza (e ad essere generosi direi da almeno 4-5 anni) ci sarebbe di che reagire. Con questo, lo ripeto, non nego il fatto che ci sia chi lo fa già da un po’, ma mi stupisce vedere che contiuino ad essere una minoranza…
Daxeman ci accorderemo altre volte:))
GLi è che io ho esperienze diverse. Parto dall’assunto che, ci sono dei fraintendimenti di fondo sulle lauree umanistiche, e per me dovrebbe esserci il numero chiuso, e dovrebbero essere molto difficili da conseguire, perchè è abbastanza logico che uno stato non si regga sulla filologia romanza o sull’ermeneutica gadameriana. E lo dice una che ci ha una laurea in filosofia ed è sposata con un laureato in lettere. Io sono rimasta e anche perchè avevo le spalle coperte per potermi permettere lavori malretribuiti – e ora ne pago le conseguenze, perchè non c’è spirale verso l’alto, c’è circolo vizioso – mio marito andò fuori, si fece un mazzo tanto ma ce la fece, è poi tornato e ora anche lui è di nuovo ingabbiato nel circolo vizioso della non spirale. Poi io finita filosofia ho cominciato psicologia, e per gli psicologi, è l’incubo.
No all’estero è diverso. All’estero anche a fare lavori di merda, guadagni di più all’estero non si concepisce che stai a casa, e una stanza ti costa di meno. Per quanto riguarda il mio campo poi la differenza è siderale. Si fa molta ricerca ed è retribuita, gli anni di specializzazione sono retribuiti, non come qua, dove gli specializzandi psicologi devono pagare per lavorare.
Specializzandi psicologi, gente che ha una laurea e un esame di stato. Non si capisce come devono mangiare.
Ma è importante capire come mai l’assenza di reazione. Boh. Io quando provo a organizzare scioperi di categoria tra gli psicologi sfruttati dai CIM trovo un muro di gomma. Ma anche quando sono andata alla manifestazione per la libertà di stampa… ragazzi miei che shock, pareva na’ scampagnata.
Le majette, le canzoncine. E il paese che rotola.
sono un pensionato che dopo aver lavorato tutta una vita in banca
posto fisso, stipendio buono e adesso buona pensione
ed ho una figlia di 20 anni che si è iscritta a Filosofia nonostante le mie lamentele sulle scarse possibilità che avrebbe avuto
infatti ha già dirottato per una scuola di cinema…..
nel 1969 quando mi diplomai ragioniere con ottimi voti, mollai l’università dopo pochi mesi e andai a lavorare in banca e penso di aver fatto la scelta giusta
anche allora noi studenti avevamo grandi preoccupazioni per il lavoro ma poi tutti lprima o poi lo trovavano
oggi tutto è peggiorato per colpa di questa classe politica scelta dagli ITALIANI e per colpa della globalizzazione che ha fatto sparire i posti di lavori dai paesi ricchi ai paesi poveri
non resta che pigliarsela con quella classe politica che ci ha ridotti in questa situazione e con noi stessi per averla votata e per non aver fatto niente per cambiare
pertanto non resta che fare gli studi giusti e scegliere il paese giusto
l’Italia non è uno di questi?
vorrei ricordare che l’Italia è uno dei paesi di arrivo di tanti immigrati che se l’hanno scelto per venire a viverci non deve essere tanto male
infatti molti di loro trovano quel lavoro che gli italiani non vogliono più fare
perchè? tutti vogliono il lavoro bello e comodo?
insomma avremo il nostro paese in mano agli stranieri che ci vivranno benissimo e milioni di italiani all’estero con tanta nostalgia
il solito pazzo popolo ITALIANO
chi è colpa del proprio male pianga se stesso
I pargoli pariolini della LUISS sono esattamente la futura classe dirigente, che sarà un po’ peggiore della classe precedente e un pelo migliore di quella successiva. E questo è già uno dei nodi della tragedia, che esistano “aree riservate” nell’accesso al sapere o presunto tale.
Quelli che hanno in mano le leve per disarticolare lo status quo sono gli stessi che ne traggono benefici, potere economico, primazia sociale.
Non vedo grandi vie d’uscita se l’effetto deve curare la causa. E nemmeno si vede da dove cominciare. Parliamo di quanto guadagnano i manager delle aziende, pubbliche o private non fa differenza: si risparmia anche sulla carta igienica e sulla manutenzione delle macchine, ma guai a sfiorare al ribasso le prebende dei dirigenti. Gente incapace di organizzare un picnic domenicale decide i destini di imprese da cui dipendono cantinaia di famiglie. . Per liberare risorse, che creino opportunità (e non solo posti) di lavoro, sviluppo, dignità, speranza e via immaginando bisognerebbe almeno ripristinare elementare parametro di giustizia “distributiva”. Ma come può avvenire un qualsivoglia cambiamento in un paese dove l’ultima generazione è in ostaggio della precedente, da cui dipende prima, direttamente, per mantenere un tenore di vita senza produrre reddito e poi, indirettamente, per salire quei gradini della scala sociale altrimenti preclusi?
A me pare che nell’assenza di reazione, l’essere ostaggi ricordato da wuming7 conti parecchio. I colleghi di Zauberei non scioperano perchè secondo me come sempre succede nelle situazioni difficili il poco che c’hai – fosse pure un precarissimo impiego in quello per cui hai studiato – vuoi tenertelo stretto. Controproducente ma comprensibile.
Dei giornalisti e relative manifestazioni, cara Zaub, non vorrei proprio parlare, visto che lì il divario tra garantiti ultraquarantacinquenni e morti di fame sotto i quarantacinque anni non è un divario, è una voragine (ovviamente semplifico, ci saranno le eccezioni, ma professionisti/pubblicisti decorosamente pagati sotto i quarant’anni non ne conosco).
@Simone Ghelli
Qualche annetto, non un annetto. La mia personale presa di coscenza data 2001, mese più mese meno, quindi non lontana dalla tua 🙂
Mio figlio di 31 anni, fisico teorico, è al suo secondo Postdoc a Stoccolma; mia figlia di 29 anni, laureata in Francia, insegna francese all’Università di Chicago.
Non so se la lettera di Celli sia una provocazione, di una cosa sono sicura però, che andare all’estero per i miei figli è stata l’unica scelta possibile, perchè all’estero vale solo il merito e non le appartenenze politiche e/o i soldi e/o le raccomandazioni…
Fuga? No, ricerca di quello che più è essenziale ad un uomo / ad una donna, vale a dire libertà, dignità, affermazione di sè e delle proprie capacità. Nessuno parli di fuga…noi paghiamo questa scelta con il dolore della lontananza da quelli che ci sono cari e che spesso riusciamo ad abbracciare una volta all’anno.
@Raffa: hai ragione, aveo letto un annetto. Comunque il periodo è quello, eppure sembra molto di più per quanto ci siamo abituati bene…
@ Simone Ghelli
Come passa il tempo quando ci si diverte 😉
Comunque i genitori di Gramsci non erano minatori e non venivano da famiglie di minatori.
Buongiorno Loredana, io vorrei soltanto dire “grazie” per la bella puntata di Fahrenheit dell’altro giorno. Essere padri (seppur di figli ancora piccoli) e stare sotto i vetrini della discussione fa sentire scomodi, tutti guardano ovunque dentro e fuori di noi, però è anche segno che qualcosa si muove, che certe parole possiamo dirle con altre consapevolezze. Che possiamo cominciare a pensarci proprio come Ettore e non come Achille (cito Zoja che ne diceva in trasmissione). E bentornata a Fahre, dopo tanto tempo!!!
Per quanto mi riguarda la lettera di Celli è positiva. La missiva, infatti, mette in moto e fa’ parlare dell’immobilismo generazionale creato dalla stessa generazione di Celli. Tutti i traguardi e le sicurezze delle leggi sul lavoro, guadagnate dai nostri padri negli anni 60 e 70 con dure lotte e scioperi, sono state cancellate da una flessibilità il cui onere grava solo sul lavoratore. Non date la colpa ai governi di destra o sinistra, ma a noi stessi che non abbiamo saputo reagire democraticamente, quando ci veniva tolto il diritto ad una dignità lavorativa. La colpa è anche dei nostri padri che prima hanno combattuto per ottenere egoisticamente quei sacrosanti diritti, ma altrettanto egoisticamente non hanno alzato la voce per evitare una rapina alle generazioni successive alla loro, i loro stessi figli e nipoti. Il lavoro ben retribuito appartiene solo alla classe dei nominati o per cooptazione da padre in figlio. I meriti o i master servono ormai a ben poco, quando l’intera macchina burocratica statale funziona non per concorsi trasparenti, ma solo per accontentare i raccomandati di turno…………….le cose allora solo due: svegliarci e reagire per cambiare le cose oppure andare all’estero!