ANTONELLA, GABRIELLA, GRAZYNA. E TUTTE LE ALTRE.

Oggi Lorella Zanardo fa il punto su quanto avvenuto negli ultiimi giorni: qui.
Oggi Repubblica dedica il Diario al Femminicidio. Undici interventi. Un’introduzione di Adriano Sofri e dieci storie di altrettante donne uccise raccontate da scrittrici e scrittori. Ve le riporto.

ADRIANO SOFRI

Femminicidio (o, peggio, “femmicidio”) non è una bella parola: ma il fatto è infame, e del suo orrore fa parte la rinuncia antica a dargli un nome proprio. Le donne ammazzate perché sono donne, e gli uomini che ammazzano donne, sono altra cosa dal nome generico, e che vuole apparire neutro, di omicidio.
E l´altra cosa non è un´attenuante, ma un´aggravante: non un incidente dell´amore, ma il suo rovescio e la sua profanazione. E anche il suo svelamento, quando amore sia il possesso e la rapina dell´altra persona. Le cifre opposte sono così irrisorie da rendere superfluo il nuovo conio di maschicidio. Uccidere donne – o la “propria” donna – non è un´attenuante, come nel codice fino a ieri, ma un´aggravante.
Si può obiettare che il “femminicidio” destini all´astrazione o all´ideologia le tragedie singolari in cui uomini forzano e uccidono donne (cinquantacinque ammazzate nel 2012, in quattro mesi; furono 137 nel 2011, ndr).
Ma a guardarle bene, a riconoscere ogni singola storia, si scopre chi fossero le donne che ne sono state vittime, e ci si accorge che gli autori uomini, i più diversi per età, condizione sociale, provenienza di luogo, in quel punto finiscono per assomigliarsi in un modo umiliante.
Le storie che qui leggete mostrano com´erano diverse e libere le donne cui è stata tolta la vita, come si sono assomigliati gli uomini che gliel´hanno tolta.
Antonella, 21 anni. Raccontata da Elena Stancanelli
L´amore col tempo si trasforma, persino nel suo opposto. Ma davvero possono bastare due mesi perché marcisca fino a farsi ossessione mortale? Sessanta giorni nei quali Antonio, diciotto anni, dopo aver conosciuto Antonella, 21 anni, l´ha amata odiata amata e infine uccisa. Nei quali è stato se stesso e un altro, Rusty light, lo pseudonimo col quale le mandava messaggi di minaccia, tanto da convincerla ad andare alla polizia per denunciarlo. Ma denunciare chi? Un fantasma, uno sconosciuto che la perseguitava dal buio virtuale di facebook. Da quel capolavoro di irresponsabilità, luogo di assenza dove tutto è vero e non vero nello stesso momento. Lo stesso dal quale Antonio, dopo averla picchiata e poi strangolata e poi sgozzata con un coltello che si era portato da casa, ha continuato a farsi vivo, indicando false piste. Due mesi sono niente, o un´eternità, se la vita non scorre ma si avvita su stessa, “se la parola amore”, come scrive Mariangela Gualtieri, “è uno straccio lurido”.
Gabriella, 49 anni. Raccontata da Giorgio Falco
Venerdì pomeriggio, quasi sera, a Napoli. Una coppia di coniugi cinquantenni viaggia a bordo di una vecchia Seat Ibiza, discute di soldi, sulla bretella di raccordo tra il Vomero e Pianura, a poca distanza da casa. I cartelli indicano autostrade e tangenziale, come se quel luogo possa essere ovunque. Altri cartelli suggeriscono mobilifici, negozi che acquistano oro e argento. È una zona di svincoli e sottopassi intermittenti, al tramonto fa buio prima che altrove. Quando c´è il sole e si passa da un tratto in piena luce a lì, bisogna modulare le palpebre, per abituarsi. L´uomo, un vigile urbano, si accosta al margine destro della strada, estrae la pistola d´ordinanza e uccide la donna sparandole in testa. Poi si spara alla tempia. I colleghi trovano i corpi nell´auto, ignorano il movente, applicano le procedure, come avrebbe fatto lui. Più tardi, rimossi i corpi, il carroattrezzi carica l´utilitaria, attraversa l´area illuminandola con le luci gialle.
Grazyna, 46 anni. Raccontata da Sandro Veronesi.
Quante ce ne sono di donne dell´est che vengono in Italia a fare le infermiere? Grazyna è una di loro. Lavora all´ospedale, in psichiatria – lavora coi matti, è brava.
È polacca, ma ormai è anche italiana, perché si è sposata con Maurizio e ha fatto una figlia, Milena.
Quante ce ne sono di donne che vedono impazzire il proprio marito giorno dopo giorno, e che continuano a stargli vicino? Grazyna è una di loro.
È esperta, si rende conto che Maurizio non sta bene, ma non se la sente di informare l´azienda sanitaria nella quale lavora.
Finché un giorno lui la picchia selvaggiamente con un bastone, viene ricoverato per un TSO nel reparto dove lei lavora, e poi viene rimandato a casa.
Quante ce ne sono di donne che vengono ammazzate dal marito nella propria camera da letto, la figlia in cucina che chiede aiuto, i vicini che chiamano la polizia? Grazyna è una di loro.
Francesca, 45 anni. Raccontata da Benedetta Tobagi.
Qualche notte prima di essere uccisa, alle tre del mattino Francesca se l´era trovato ai piedi del letto, come un vampiro. Perché Mario, il suo ex marito, aveva ancora le chiavi di casa? «Se cambiavo la serratura mi avrebbe uccisa». Francesca era una maestra di 45 anni: una vita normale. Ma da mesi aveva paura. Mario beveva, la pedinava. “O mia o di nessun altro”, diceva (non “con me”, ma “mia”). Francesca aveva ottenuto a fatica la separazione consensuale. Era arrivata a stipulare una polizza sulla vita. Eppure, esitava a denunciare. Non voleva mandare Mario in galera. Perché no? Troppi timori o non abbastanza? Per i loro tre figli? Oppure, vedeva nel suo persecutore anche un bambino terribile da proteggere? (Perché tante conservano compassione per il vampiro, per Barbablù). Intanto, Mario si procurava una Beretta semiautomatica. E il 4 marzo, a Brescia, ha preso la sua pistola e ha ammazzato Francesca, Vito (il nuovo compagno), la figlia di primo letto Chiara (il frutto vivente di un altro amore: da distruggere) e il fidanzato di lei.
Domenica, 24 anni. Raccontata da Melania Mazzucco
C´è una macchina blu, sul lato destro della strada. Ha le freccette accese. Lei pensava di accostare solo per un istante. 6.30 del mattino. Lei attacca presto. A soli 24 anni l´azienda dei trasporti le ha affidato lo scuolabus rosso. Lo chiamano Happy Bus. Domenica Menna di Parma, detta Mimì. Ma c´è una macchina davanti alla sua, sul lato destro della strada. Lui indossa ancora la divisa da vigilante. L´ha seguita, sorpassata, costretta a fermarsi. La macchina blu ha il finestrino abbassato. Le donne ascoltano. La portiera è aperta. Un lenzuolo sull´asfalto copre il corpo di lui. C´è una ragazza bruna riversa sul volante, la cintura di sicurezza ancora allacciata. Non l´ha protetta dall´uomo che aveva frequentato 4 anni e che aveva appena lasciato. 4 colpi a bruciapelo – e l´ultimo per sé. C´è un proiettile vagante. Ha attraversato il corpo di lui, schiantato una finestra, e si è conficcato nel muro di un salotto. Quel foro è per svegliare noi, lettore. Potrebbe essere il nostro salotto. Questo capita mentre dormiamo. Ricordati di Mimì, uccisa perché voleva tenere il volante della sua vita.
Gabriella, 51 anni. Raccontata da Mariapia Veladiano.
Del tradire. A Mozzecane, in terra di Verona, c´è una casa accudita e garbata. A Leopardi la via è dedicata, e sa di poesia. E´ il 4 marzo ed è domenica, la festa è santa e in chiesa sono stati, Giovanni Lucchese e Gabriella Falzoni, e anche il figlio ormai già grande. Stanno bene, come oggi si dice, e amano viaggiare. In Kenya, appena ieri.
Questo giorno si son parlati. A voce troppo alta, li hanno sentiti. Faida di parole, e non si son creduti. Lui ha paura così si dice, e sembra naturale. Di essere tradito. Perduto nel sospetto, ha frugato il suo telefono. E tradito, lui di certo, l´intimità di lei. C´erano parole, lui dice, forse senza storie, come oggi capita, perché la distanza rende audaci. O forse è proprio nulla. Ma non è questo. E´ che lui la uccide, con un foulard di lei. Cosa di donna. Ancora tradita, lei di certo. E´ la numero trentasei. Poi la ricompone. E va in prigione.
Capita di passare e anche di inciampare. Ma uccidere può capitare? Dura tanto far finire la vita. Quattro giorni e c´è un´altra festa. Della donna, dicono, ma non per lei. Né per noi.
Rosanna Lisa, 37 anni. Raccontata da Valeria Parrella.
A lui la pistola gliel´aveva data lo Stato italiano: Rinaldo D´Alba era appuntato dei carabinieri, e con moglie e figlie vivevano in una caserma di Palermo.
Lei si chiamava Rosanna Lisa Siciliano e aveva trentasette anni. Il marito la pestava a sangue, già era capitato che il comandante della caserma dove vivevano l´avesse notata, tutta gonfia, piena di ematomi, e non avesse detto nulla, né fatto nulla per impedire che accadesse ancora. Rosanna Lisa aveva anche denunciato il marito ai suoi superiori, tre volte: suo fratello dice che il fatto di stare in una caserma le dava un senso di protezione. Ma la caserma è un posto da uomini: le divise sporche si lavano in famiglia.
Le bambine avevano cinque e dodici anni e dormivano nella stanza accanto, quando il sette febbraio di quest´anno lui è entrato in camera da letto e ha sparato alla moglie un colpo al petto. Poi si è ucciso, lasciandole sole.
Tiziana, 40 anni. Raccontata da Michela Murgia.
Tiziana Olivieri aveva 40 anni quando è morta e il suo convivente e assassino ne aveva 26. Se fosse stata un´attrice famosa, nelle pagine delle riviste di gossip quel convivente tanto più giovane sarebbe stato definito toy boy.
Ma Tiziana faceva i turni in fabbrica e quel giovane camionista era tutto fuorché un giocattolo per lei: due anni prima aveva creduto alle sue promesse d´amore e c´era andata a vivere insieme. Era arrivato anche un figlio, l´ultima scintilla di una fertilità matura, ma la vita comune si era rivelata più difficile del sogno, come capita a tanti.
Lui l´ha uccisa in cucina dopo una lite, strangolandola mentre il bambino dormiva. Ha dato fuoco alla casa per simulare un incendio e con i carabinieri ha finto freddamente di non essere riuscito a salvarla. Confesserà tutto e poi dirà che non voleva, perché nel femminicidio l´assassino non è mai l´uomo: è la sua passione.
Antonia, 43 anni. Raccontata da Concita De Gregorio.
Che cos´aveva in tasca Carmine Buono, 55 anni, quando è arrivato all´appuntamento con lei? Ci vediamo in via Turati, ti devo parlare del bambino. Va bene, arrivo.
Antonia Bianco, 43 anni, tre figli, l´ultimo di 5. Aveva paura. Se proprio devi incontrarlo, mamma, meglio per strada e di giorno – le aveva detto il figlio maggiore. Lui alza subito le mani. Uno schiaffo, un pugno. Ma cos´era quel bagliore di un attimo? Antonia chiama il 113, “aiuto, mi picchia di nuovo”, poi scivola, si piega sulle ginocchia, muore.
Lui se ne va. Infarto, dice il referto di morte. Un medico annota, però: foro all´altezza dell´ascella sinistra. “Più piccolo di una moneta da due centesimi”.
Autopsia. Ecco, infatti: un “oggetto lungo e appuntito” le ha spaccato il cuore. Cosa nascondeva in tasca Carmine Buono? Un punteruolo da macellaio, forse. Un luccichio, un niente. Come una moneta da due centesimi che rotola sul marciapiede.
Vanessa, 20 anni. Raccontata da Roberto Saviano.
Sud. Vanessa Scialfa era una ragazzina e conviveva con il suo compagno, Francesco Lo Presti, 34 anni, 14 più di lei. Due gesti coraggiosi, al sud. Convivenza senza matrimonio, con un uomo molto più grande. Vanessa il 24 aprile viene strangolata con il cavo di un lettore dvd e asfissiata con un fazzoletto imbevuto di candeggina. Vanessa viene avvolta in un lenzuolo e gettata da un cavalcavia, in una scarpata. Vanessa sorrideva nelle foto che il papà ha messo su facebook per cercarla, quando ha scritto “fate in fretta non abbiamo tanto tempo”. Vanessa aveva pronunciato il nome del suo ex, in un momento di intimità.
Vanessa è stata uccisa da un uomo, Francesco, che ha detto di averlo fatto per gelosia e sotto effetto di cocaina. Per gelosia, ha detto, come dicono in tanti. Ma “la gelosia” non è la causa. La causa è il modo di stare al mondo di questi uomini. Considerano la donna un territorio da possedere, da occupare, e infine, da bonificare. Nessuno di questi tre verbi ha a che fare con l´amore.

27 pensieri su “ANTONELLA, GABRIELLA, GRAZYNA. E TUTTE LE ALTRE.

  1. doloroso, ma necessario.
    Grazie.
    Spero però che seguano anche le voci delle vittime sopravvissute, meno letterarie, meno meditate, però cariche di quella speranza che serve a chi situazioni del genere le sta affrontando ora.
    E, ancora, spero che di storie a lieto fine ve ne siano abbastanza.
    Ci servono per sperare nel cambiamento e nella forza di chi resiste.

  2. anche io sono rimasto molto colpito da questa paginata stamattina. e arrivato alla fine è stato difficile trattenere rabbia e commozione.
    poi giro la pagina e all’inizio del pezzo che apre la cultura leggo: “Fandango libri è un oggetto un po´ misterioso. Finora ha sculettato con seducente grazia.”
    a parte l’accostamento oggetto-donna. la metafora è chiara: una casa editrice giovane e affascinante, ancora immatura ma che si sa mettere in mostra, insomma una bella promessa. dunque fammi pensare, a chi posso paragonarla? a una giovane gazzella nella savana? a un fiore che sta per sbocciare? a un’avveniristica opera di architettura in cantiere? a una casa editrice giovane e affascinante? no ecco, ci sono! a una ragazza! e questa ragazza che fa?…
    poi mi direte che esagero, che sono solo io a vedere il nesso, che sono talebano e ossessionato, che sono solo io a pensare che dalle parole bisogna partire, dalle parole. e forse avete pure ragione, forse

  3. Dario De Marco,
    hai fatto invece una considerazione molto bella e acuta; segno evidente, secondo me, di una spiccata sensibilità e (rara) capacità di pensieri profondi.

  4. Dario, davvero mi sento di ringraziarti per la tua osservazione, mi era sfuggito quel passaggio, leggendo questa mattina. Non mi pare che Edo (Nesi) sia uno che sculetta, semmai ci stancano le sue tirate vittimistiche sugli imprenditori strozzati dallo Stato, quando per anni hanno esternalizzato a Timosoara o Canton. Da direttore editoriale Nesi deve ancora prendere in mano la situazione di tutto il gruppo, che è vivace in ogni ramo delle sue attività. La violenza del linguaggio è esplicita ma a volte cade sotto il livello dell’attenzione, perché siamo sottoposti a più violenze linguistiche.

  5. Scusate, non si capisce di cosa stiate parlando. O chiarite, o questo ronzio diventa inutile, e soprattutto profondamente off topic rispetto al reale argomento del post. Molte grazie.

  6. Mah, è molto melò, non sempre raccontato con la sobrietà necessaria.
    Babsi Jones nel suo libro, diceva che; “morto è già superlativo”, infatti di fronte a questi casi non capisco molto lo sforzo letterario di colorarli più di quanto già siano neri nella semplice esposizione dei fatti.
    Io non mi sento assolutamente coinvolto, in quanto maschio, in quello che hanno fatto questi psicopatici, non più di quanto sia coinvolto come occidentale e italiano nelle scelte del nostro governo, (se non nel fatto che le subisco).
    Non credo che sia il modo giusto di presentare un problema, e in questo Sofri è recidivo nel fustigarsi il genere, come se il fatto di essere un uomo, di desiderare una donna vista per strada o su una rivista, di usare analogie tra certi comportamenti femminili e certe situazioni, di avere difficoltà ad accettare che la donna che sta con te ti tradisca, conduca automaticamente a essere dei potenziali assolvitori di assassini di donne.
    Trovo anche il neologismo “femmicidio” poco calzante, un po’ perchè “donna” lo preferisco a “femmina”, (e “donnicidio” non andrebbe bene, anche perchè omicidio non è sinonimo di maschicidio), un po’ perchè il delitto va sempre riportato nella sua dimensione penale, nella dimensione del reato, che pone il fatto in una zona circoscritta della realtà sociale, e non si dovrebbero distinguere casi di genere ma di merito e di situazione.
    La gelosia, (ammesso che questo sentimento sia all’origine di tutti questi fatti), con le sue derive patologiche, non può diventare materia di legge, come si fa a proibire la gelosia, e come le sue abissali tenebre, quando questa prende il sopravvento e il controllo di una persona? come si può normare con una giurisprudenza adeguata l’adrenalina dell’uomo frustrato, umiliato, che non ha risorse più virtuose della violenza?
    Ogni omicidio va giudicato per quello che è in se stesso, togliere una vita è un fatto irrevocabile, questo trascende le implicazioni culturali e sociali, anche se di queste si fa uso per stabilire quelle gradazioni di attenuante o aggravante che possono influire sulla pena.
    Di questi delitti ci sono persone che ne fanno un uso diverso, scrittori, giornalisti, giù giù fino ai politici, e ognuno su questo oscuro mistero che è l’omicidio, l’uccisione di un essere umano, ci costruisce il suo punto di vista, la sua storia e i suoi significati, sinceri o meno che siano.
    Quando Bellocchio girò il film sull’amore tra Mussolini e Claretta Petacci, molti lo criticarono per aver voluto umanizzare la losca vicenda erotica di un mostro, e forse avevano ragione, ma lui rispose con una frase molto semplice; “ogni amore sul tavolo autoptico è squallido”.

  7. “La gelosia, (ammesso che questo sentimento sia all’origine di tutti questi fatti), con le sue derive patologiche, non può diventare materia di legge,” mario pandiani
    Sono d’accordo, il problema infatti non è la gelosia o il desiderio (cose peraltro comuni a entrambi i sessi e normali se non degenerano nell’ossessione) per me il problema non è neanche se dire femminicidio o no, ma è come scrive Saviano, il modo di stare al mondo di questi uomini (quelli che uccidono le ex, non tutti), è la loro palese incapacità (patologica?) di capire che l’altra ha il diritto di vivere anche senza di loro, anche se non li vuole o non li vuole più. Gli uomini non sono tutti colpevoli, questo è ovvio, si tratta solo di dire una cosa semplice, banale: non è giusto avere paura che la persona che ami ti uccida se la abbandoni. Sarò più chiaro: io sono single, se mai avrò una fidanzata è ovvio che non vorrò che mi lasci e che starò male se accadrà ma starei altrettanto male se sapessi che lei mi vede come il suo potenziale assassino se dovesse lasciarmi

  8. Non capisco perchè non si possa andare oltre a ciò che il legislatore (e conseguentemente la coscienza popolare) ha determinato normativamente allorchè ha deciso che la gelosia, culminante nello stato d’ira, possa configurarsi come una circostanza attenuante nella determinazione della pena, qualora ci si trovi di fronte ad un omicidio perpetrato da un uomo nei confronti di una donna o viceversa. Visto che, di contro, è circostanza aggravante il fatto che si uccida una figlia o una moglie (come pure un figlio o un marito), il salto giuridico ( e spero culturale) di qualità dovrebbe essere nel considerare un reato a sè il femminicidio, ossia l’assassinio di una donna che sia determinato nell’uomo dall’idea di non riuscire più a dominarla, cioè ad esserne il padrone. Potremmo comunque coniare pure un altro termine se quest’ultimo “non piace”, anche se è chiaro che il problema non è terminologico. Femminicidio è la locuzione verbale utilizzata da organismi internazionali (ONU) per qualificare specifici fenomeni sociali nati in precipue aree geografiche (Messico, Ciudad Juarez) e caratterizzati dall’ elevato numero di donne ammazzate. Poichè l’Italia è un Paese dove si muore più di femminicidio che di mafia, prima che istituzioni sovranazionali impongano questa fattispecie criminosa, sarebbe più che opportuno che si legiferi al proposito e contestualmente ci si adoperi tutti/e a determinare un cambio di rotta fondamentale nella cultura che vede la donna non titolare di una dignità di esistere per sè stessa al pari dell’uomo.

  9. Scrive Pandiani:
    ” il delitto va sempre riportato nella sua dimensione penale, nella dimensione del reato, che pone il fatto in una zona circoscritta della realtà sociale, e non si dovrebbero distinguere casi di genere ma di merito e di situazione.”
    .
    Il diritto penale è posto a tutela di beni giuridici. Parlando di omicidio o violenza, il primo bene giuridico a cui pensiamo è ovviamente l’integrità fisica. Ma alcuni comportamenti sono plurioffensivi. Il comportamento che sta opportunamente iniziando a essere chiamato ‘femminicidio’ non colpisce solo l’integrità fisica, ma anche l’uguaglianza tra le persone. La motivazione di un femminicidio è ribadire una pesantissima norma di assimmetria nel rapporto tra classi sessuali.
    Uno stato democratico non può tollerare né l’omicidio né l’affermazione di una cultura di oppressione in base alla classe sessuale: dunque occorre colpire sià l’uno che l’altro comportamento offensivo, quando l’omicidio è strumentale all’oppressione.
    Questo ragionamento è lo stesso alla base anche della richiesta di norme penali contro i comportamenti omotransfobici. Per cui, va detto, non sarebbe costituzionale una norma che difendesse soltanto individui di sesso femminile e non anche transessuale o intersessuale dato che l’emergenza colpisce tutte queste classi.
    E poi si dovrebbe finirla di parlare di ‘genere’ come sinonimo di genere sessuale, e considerarlo più correttamente come un sistema relazionale tra individui.

  10. Io continuo a non capire di cosa si sta parlando, un assassino, per fortuna, non è un modello di comportamento culturale, (a meno che stiamo parlando di Henry Kissinger), è semplicemente un assassino, competerà alla magistratura indagare le cause che hanno portato a un atto estremo.
    Generalizzare queste cause estendendole a tutti i casi di omicidio di un uomo verso una donna è assolutamente privo di senso.
    Poi, questa assimilazione che vuole l’omicida come “possessore” della donna, è una generalizzazione ancora più ideologica, ci sono casi di omicidio che partono da una frustrazione e da un senso di abbandono che assumono dimensioni patologiche, che non ha senso considerare volontà di possesso, in quanto l’abbandono e il tradimento sono atti che producono sofferenza in chiunque.
    Diverso è uccidere di botte una donna dopo reiterati atti di violenza, e uccidere una donna perchè esserne lasciati ti fa crollare il mondo addosso.
    E’ differente in senso patologico, giuridico e culturale, nulla può assimilare i due atti nella stessa categoria di delitto, così come sono fondamentalmente diversi la premeditazione e la preterintenzionalità, condizioni che si trovano, una o l’altra in tutti i casi di omicidio e determinano in buona misura la gravità della pena.
    Un uomo che uccide esercita una sorta di suicidio sociale oltre ad aver ammazzato, se ha ucciso una donna, non per questo è da riporre in un grande cesto dove si buttano “tutti questi uomini” come dice Saviano.
    I cesti sono sempre serviti alla demagogia, enunciati dalle tribune come categorie amiche o nemiche oppure usati per raccogliere le teste mozzate.
    Io credo che questa non sia proprio una buona bandiera per promuovere dei cambiamenti culturali, il termine femmicidio è una distorsione in contesti come questi.
    Diverso è sopprimere sistematicamente i neonati femmina come sembra succeda o sia successo in Cina, questo è un omicidio che ha una motivazione e un percorso criminale coerente e reiterato, socialmente tollerato, e si può, si deve, affrontare come fenomeno di crimine sociale e culturale e si può nominare con un neologismo appropriato, ma non casi così disparati e caratterizzati da drammi e dinamiche del tutto eterogenei tra loro.
    Lo stesso vale per la classe di circostanze, attenuanti o aggravanti, non sono assolutamente d’accordo con il fatto di considerare genericamente aggravante l’uccisione di una persona appartenente ad un genere o ad un gruppo sociale, (o all’insieme di persone che adottano un comportamento relazionale, se vogliamo la political correctness a tutti i costi), un omicidio è un fatto gravissimo e va giudicato secondo circostanze specifiche e non su valutazioni generali, questo lo hanno sempre fatto i regimi.
    Dire; ecco, hanno ammazzato un’altra donna…
    e se quella donna era ebrea? e se era omosessuale? ebrea e omosessuale? ebrea, omosessuale e credente magari? credente e negra? quale di queste condizioni diventa circostanza aggravante o attenuante? quale è culturalmente significativa? e quale storicamente obsoleta?

  11. @Mario Pandiani, in questo momento vado un po’ di fretta ma volevo segnalarti che altrove, in questo blog, sia nelle discussioni che nel commentario, abbiamo parlato del fatto che le donne effettivamente assassinate costituiscono soltanto una parte del numero totale di donne che si trovano in situazioni di relazione possessiva e violenta, e ancora un numero più vasto è quello delle donne che sentono su di sé il peso di una società ancora profondamente misogina. Quello che viene fuori dagli omicidi “passionali” è il risultato tangibile di, ancora nel 2012, una diffusa mentalità misogina e maschilista.

  12. “le donne effettivamente assassinate”, non credo che si possa usare questo in modo così trasparente per segnalare, o aggravare la persistenza di una mentalità che non è così omogenea come sembra.
    Nessuna mentalità o idea o fede, per quanto forte e condivisa ha mai impedito che qualcuno spargesse del sangue, io sono convinto che tra gli assassini di donne ci sono uomini che avevano fatta propria una mentalità non maschilista, che sinceramente non hanno avuto atteggiamenti di potere o la volontà di sottomettere la loro compagna, ma di fronte ad una situazione di rottura o di tradimento, (fatti ormai molto comuni da entrambe le parti) sono andati in pezzi.
    Alcuni si suicidano per amore altri uccidono, ma non è un fatto peculiarmente maschile, ne è sinonimo di mentalità oscurantista e tantomeno misogina, è solo che interiormente si trovano in un collasso della volontà, che per compensare la perdita prende una strada irrevocabile.
    Questo non per giustificare alcun delitto evidentemente, ma per non trasformare ogni “delitto passionale” in un emblema politico.
    Un’altra cosa forse, e questo lo capisco, è che ogni donna che vede uccisa un’altra donna, lo percepisca come una minaccia per se, per il solo fatto di essere donna, e questo è l’aspetto che ho trascurato di mettere a fuoco ed è forse il più importante.
    Ma si tratta di una percezione causata da un contesto culturale, il cui cuore oscuro non sono i delitti, ma l’apparente enfasi che i media danno alla donna come oggetto, e nel caso che abbia caratteristiche fisiche sufficienti, di oggetto di lusso.
    Le “Quote rosa” sono, in questo senso, più gravi di un uomo che accoltella sua moglie, sono un ghetto che prescinde dalla persona e riconosce il genere come determinante, assegnandogli qualche spazio in più, e non ho idea di quali siano le condizioni reali per accedervi.

  13. Mario Pandiani, sull’uso del termine femminicidio in ambito internazionale, e non solo nazionale, esiste l’intervento – molto chiaro – di Barbara Spinelli sulla 27ma ora. Non ha nulla a che vedere, ma proprio nulla, con le quote rosa. Grazie, buona serata.

  14. Cara Loredana, ho subito letto l’articolo e preso atto delle dimensioni di questo fenomeno agghiacciante in modo più preciso, fenomeno che non volevo certo assimilare alle quote rosa, se è risultato offensivo l’accostamento che ho fatto mi scuso, mi sono espresso male evidentemente.
    E’ molto difficile parlarne, i fatti e il contesto sono devastanti e segnalare delle incongruenze in certe affermazioni sembra essere un contrapporsi al senso generale di questa azione di cambiamento.
    Io credo che il vero femminicidio sia il beneplacito alla violenza sulle donne, questa violenza è come una malattia sociale, (non una tradizione), in molti casi avviene in situazioni di degrado o di criminalità, puo anche succedere che sia una coazione, ma non curarla è sempre una scelta, non tutelare chi segnala violenze è connivenza consapevole con chi le esercita, più grave dei fatti, in tutti i sensi.
    Non c’è però da parte mia nessuna mitigazione nei confronti di fatti così brutali e di chi li ha commessi, è la dimensione mediatica che per me è sempre artificiale, per quanto forse necessaria, e il mio contributo in fondo è insignificante, il mio pensiero, (a meno che mi associ ad una corrente visibile e condivisa), è del tutto personale, forse con dei limiti di osservazione del fenomeno, non lo nego.
    Purtroppo non sono fatto per aderire a dei manifesti per quanto ben motivati, vengo in questo blog perchè sono temi che sento, anche se il nostro punto di vista non è lo stesso, ma è difficile, è tutto molto difficile.
    Ciao

  15. A volte, Mario, il grande rischio è fermarsi all’analisi del fenomeno mediatico, di chi ha firmato e chi non ha firmato, senza considerare che l’amplificazione data dai media (per me, importantissima dopo anni di noncuranza: l’appello è nato in reazione a quella “pagina 25” riservata alla notizia e ai tanti “delitto passionale” con cui era stato commentato l’omicidio di Vanessa Scialfa). Non so quale sia il vero femminicidio nè quale sia quello falso. Quel che so è che l’uccisione di donne da parte di ex compagni che non resistono all’abbandono è spia di una spaventosa fragilità maschile. Ma anche del modo in cui le donne possono far ombra alla propria stessa libertà. Perché a volte è difficile denunciare la violenza. Anzi, spesso è così. Altre volte ci sono uomini che potrebbero e vorrebbero essere curati ma non sanno dove andare. Esiste una questione sociale. Esiste una questione culturale. Il manifesto non è nato per risolvere. E’ nato per porre il problema a chi, fin qui, non riteneva che lo fosse. Le strade, poi, sono tutte da trovare. Ciao.

  16. …dice Lipperini: “uomini che potrebbero e vorrebbero essere curati ma non sanno dove andare”. Be se “vorrebbero” (e altri considerassero che “potrebbero”) saremmo già abbastanza avanti nel processo di cambiamento; il che presupporrebbe una coscienza dello stare al mondo, una coscienza delle nostre problematiche psicoanalitiche.
    Qui un raro (e chiediamoci il perché) articolo che va in questa direzione
    http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/14e4c66a913e07454bcb3087c1766201.pdf

  17. Grazie Loredana, Io sono abituato a mettere sempre in discussione i media, per questo ho trascurato la necessità urgente che in questo caso li rende necessari, ma credo ci voglia ancora molta vigilanza affinchè le risposte alla fine non siano solo mediatiche, che è il rischio che si corre sempre percorrendo certe strade.
    Interessante, forse non in questa sede, è capire quali domande si fanno gli uomini rispetto a questa fragilità impressionante di cui parli e che origina così facilmente la violenza più ceca, in questo il mondo femminile è più abituato a porsi delle domande, mentre quello maschile forse sta troppo attaccato a delle risposte che non vuole mettere in discussione.
    E’ una strada difficile, da cui sembra scomparsa ogni possibile innocenza, e alla fine bisogna caricarsi anche di pesi non sono i nostri, per non chiudersi.
    A presto.

  18. Chiamiamoli come si meritano: reati di Feminicidio.
    Misoginie, maltrattamenti, violenze fisiche, psicologiche, sessuali, educative, discriminazioni sul lavoro, ingiustizie economiche, patrimoniali, prevaricazioni familiari, comunitarie, istituzionali….. chiamiamole col loro nome: reati di feminicidio.
    Chiamiamoli con questo brutto nome che gronda sudore, sangue, ansia, animalità.
    Chiamiamoli come dal 2007 li chiamano in Messico, Guatemala, Costa Rica, Venezuela, Cile, El Salvador e, più recentemente, in Perù e Argentina.
    Sembra grottescamente superficiale il gran dibattito attorno al neologismo che sta impegnando, tra le altre, Isabella Bossi Fedrigotti e Barbara Spinelli, mentre in America Latina, dal 2007, grazie a Marcela Lagarde, femminista, accademica, parlamentare, il reato di Feminicidio è stato introdotto nel Codice Penale Federale.
    Le femministe ottennero il riconoscimento del reato in Messico e Guatemala, su pressione del CEDAW ( Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne), e, a seguire, in Costa Rica, Venezuela, Cile, El Salvador e, più recentemente, in Perù e Argentina.
    E’ vero il termine è cacofonico, rimanda all’animalità, ma impone ineludibile attenzione al nodo del problema.

  19. Pandiani, scrivi:
    “[…] non sono assolutamente d’accordo con il fatto di considerare genericamente aggravante l’uccisione di una persona appartenente ad un genere o ad un gruppo sociale […] un omicidio è un fatto gravissimo e va giudicato secondo circostanze specifiche e non su valutazioni generali, questo lo hanno sempre fatto i regimi.”
    .
    Ti ripeto, devi ragionare sul bene giuridico che viene offeso.
    Se alla violenza/omicidio si aggiunge la discriminazione, una legge ragionevole deve sanzionare l’omicidio e la discriminazione.
    Quindi non si dà, come vuoi far credere tu, una protezione maggiore ad una categoria, ma si ripristina una parità tra tutti i cittadini.
    Dunque se una categoria, in questo caso le femmine (ma potrebbero essere le persone omosessuali o transessuali), sono esposte alla violenza di genere, la legge deve intervenire con una tutela particolare per far sì che le femmine raggiungano la condizione di libertà degli individui di sesso maschile.
    La violenza di genere sulle femmine, nonostante il sommerso, è ampiamente documentata.
    Va da sè che proprio il mancato rispetto del principio di uguaglianza, che impone appunto di trattare allo stesso modo situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse, è tratto distintivo tra democrazia e stato totalitario.

  20. Inviterei tutt* a pensare bene quando scrivete di questa presunta “fragilità” (o disturbo della personalità), perché finisce per diventare una giustificazione.

  21. Io credo che ogni delitto abbia una radice patologica, una fragilità, certo, il delitto familiare più di altri.
    Questo non giustifica nessuno, un reato va prevenuto ogni volta che è possibile farlo, (e da quanto ho capito questa indifferenza istituzionale è frequentissima), e quando accade va punito, ma per stabilire la pena va capito nelle sue dinamiche.
    Mi rendo conto che il problema è tale che richiede interventi generali immediati, ma è altrettanto necessario impedire abusi legislativi.
    In diversi casi di delitto familiare, in quelli che ho potuto leggere, non c’è una volontà discriminante di genere, ma un’incapacità a gestire le proprie pulsioni possessive, di retaggio atavico o di sofferenza che si ritiene ingiustamente imposta dall’altro.
    Non è la ronda di giovinastri che massacra il transessuale o la minaccia fascista di aggressione fisica alla giornalista o attivista femminista, sono situazioni in cui i soggetti sono portati al limite delle proprie possibilità umane e crollano, solo che invece di togliersi la vita, come altre volte succede la tolgono alla moglie o compagna.
    Mentre capisco e approvo che venga segnalato e sanzionato qualsiasi comportamento che muova da una discriminazione, di genere, razziale, o di qualsiasi altro tipo, (in particolare sarei severissimo verso le cariche istituzionali che con la loro latitanza, quando non attori essi stessi, accettano e finalmente incoraggiano queste violenze e discriminazioni), ma quando si passa dai comportamenti diffusi ad una sfera così estrema come quella dell’uccisione, mi muoverei con una cautela maggiore.
    Tutto qui.

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