Siete pronti per una bella polemica culturale? Perfetto, via.
Vengo chiamata in causa, pur senza essere nominata, da Carla Benedetti nell’articolo apparso su Nazione Indiana e solertemente qui segnalato dall’ottimo Andrea. Oggetto dell’articolo, anche se il paragone alla Benedetti dispiacerà, qualcosa di non troppo dissimile dalla decadenza e caduta su cui si era in precedenza avvoltolato Camillo Langone sul Foglio. Un politico dei tempi andati avrebbe bofonchiato di opposti estremismi. Io penso che, semplicemente, quello di accoccolarsi sulla riva di un qualcosa (spiaggia, sponda, supporto cartaceo o pagina web) spargendo lacrime sulla fine dei tempi sia un piacere antico, e che Lucrezio abbia detto tutto quel che c’era da dire in proposito.
Attenzione: su alcune delle argomentazioni utilizzate da Carla Benedetti (la diffusione di librerie-blockbuster, la fine della logica del doppio binario editoriale) sono d’accordo. Non lo sono, invece, sull’aver scelto come simbolo della disfatta Giorgio Faletti, autore di due best seller, Io uccido e Niente di vero tranne gli occhi (premetto subito che non ho letto il secondo, e dunque non ne parlerò).
Per spiegarne il successo, e mettere in guardia dai pericoli che ne derivano, Benedetti parla della fine dell’editoria di progetto (che pure, se posso, non mi sembra affatto defunta) in favore della monocultura del best seller, con i grandi editori sempre più determinati a stampare soltanto quel che vende, tagliando fuori non soltanto nomi nuovi ma anche pilastri del passato recente.
Tutto ciò con la complicità di quello che nello strillo pubblicitario dell’ultimo libro di Oriana Fallaci viene chiamato “il silenzio dei chierici”, che son poi il bersaglio reale dell’articolo: i quali evidentemente tacciono come da copione, non dissezionano Faletti e lo accolgono “cordialmente”. Anzi, lo promuovono. Come avrebbe fatto la sottoscritta, su La Repubblica, nell’articolo che accompagnava l’uscita in edicola di Io uccido.
Veniamo subito a questo punto: non essendo un critico, anzi, credendo molto poco alla funzione della critica in questo preciso momento, e potendo concedermi il lusso dei cronisti, che raccontano quel che vedono, lasciando che siano altri ad interpretarlo e a sistemarlo nei lindi scaffali delle categorie, non ho mai scritto di un libro, o di un fenomeno, senza esserne convinta. Ergo, Io uccido mi è piaciuto. Di più. Mi è piaciuto proprio perché popolare: se posso citare l’articolo incriminato, diceva proprio questo: “a decretare la fortuna di Io uccido è la sua stessa, dichiarata origine: un romanzo popolare, scritto con l´idea di essere tale”.
E resto convinta non che il popolare non vada demonizzato: una negazione si allineerebbe a quel che paventa Benedetto, i chierici non si scagliano contro il popolare per non passare da “umanisti vecchio stampo”. Resto convinta che il popolare sia la sostanza prima con cui cimentarsi: perché credo, non da oggi, che le storie degli uomini possano essere raccontate in molte forme. Perché penso che la solitudine femminile, per dire, passi attraverso i versi di Silvia Plath come attraverso le sit com che tanto dispiacciono ad alcuni intellettuali militanti. Penso che si possa capire assai più su Mozart guardando Amadeus (il film) piuttosto che leggendo Paolo Isotta. Penso che l’equivalente contemporaneo di Wilhelm Meister sia il videogioco dei Pokémon. Penso che il popolare non sia una medicina amara che lo studioso deve ingoiare, o con cui l’intellettuale possa al più trastullarsi, ma l’indispensabile termine di confronto, a meno di non accarezzare il vecchio, delizioso sogno degli intellettuali italiani, che si scagliano contro l’ignoranza delle masse sperando, nel profondo dei propri cuori, che non accedano mai al privilegio del sapere.
Penso, infine, e lo dicevo al telefono con un caro amico, che il disprezzo delle élite nei confronti dei generi renda ancor più prezioso difenderli anche nel momento in cui gli autori italiani più avvertiti li vanno scomponendo e superando.
Quando non è possibile parlare di avanguardia, tocca, per non retrocedere, fare battaglie di latoguardia. Anzi, fondarne una.
è grave, questa volta sono d’accordo.
La cosa più popolare in questo intervento è il fervore con cui difendi, appunto, il termine popolare. Però, Loredana, è probabile che o tu o io non si sia capito l’articolo dell’espresso che tu citi, perché l’articolo prende a esempio Faletti come costruzione del popolare, mettendo addirittura in dubbio che Faletti abbia scritto i suoi libri e ventilando piuttosto che al personaggio televisivo post sanremo di minchia signor tenente sia stato affiancato un ghostwriter o editor o più di uno, tanto non costano molto, per realizzare un prodotto ad uso di quel pubblico. Tutte le questioni poste dall’autrice dell’articolo sono dunque perfettamente condivisibili, indipendentemente dalla stima personale che si ha di Faletti. Però, prima d’essere colpita da frecce e frecciate, magari lo hai capito meglio tu di me quell’articolo.
No, l’ho capito meglio io. E’ così: se uno adotta la specola di quel che si suppone essere Adorno, può sembrare – nemmeno essere – che le cose stiano nel modo descritto – non interpretato: il che, oggi, è grave. Fare questa fenomenologia dei supposti micropoteri è banale come vedere le lettere senza capire che la frase ha un senso. Infatti andrebbe fatta una critica non sociologica, bensì una critica. L’unica critica che si può fare, e si è sempre fatta, è letteraria, nel senso che è mitopoiesi. Della logica del second’ordine è fitto il sottobosco. Del resto non dei canoni si è sempre parlato in letteratura: ma dei nemici e di chi è noi, di coloro in cui il “noi” si identifica. Non sono convinto, al contrario di Lipperini, che il Wilhelm Meister siano i Pokémon. Però mi sembra chiaro che la lingua profonda dei Pokémon sia fatta delle lettere di cui le frasi del Wilhelm Meister si componevano. Quanto ai meccanismi di produzione del bestseller, un anno di lavoro in grande editoria e ci si rende ben conto che le cose non stanno come dice Benedetti neanche nella loro più superficiale manifestazione: l’eziologia è diversa, la tecnica di produzione è diversa, le forme finali sono diverse. Finché l’oggetto resta un disco volante, però, è chiaro che l’osservatore riporterà prospettive aliene.
Scusa Giuseppe, ma perché non lo spieghi tu, (con un linguaggio comprensibile e verificabile) perché le cose non stanno come dice la Benedetti?
No, la tua risposta Loredana ha una forma sbagliata, la polemica, dei contenuti fuori asse rispetto ai problemi che pone la Benedetti, e manca lo stesso registro rigoroso. Non è con una risposta così frettolosa che si arriva da qualche parte. La Benedetti è una studiosa non una cronista, se tu le vuoi rispondere devi usare lo stesso registro. Comunque non penso proprio che fosse un pezzo contro di te.
Ancora una cosa, sulle sit-com. Ecco ricordo che poche settimane fa Dario Fo e Giorgio Albertazzi hanno pubblicato su una pagina di Repubblica che penso sia a pagamento (dimmi tu se non è così) una inserzione per pubblicizzare un loro programma di e sul teatro (lo slogan era: chi li ha visti?) che era stato retrocesso nel palinsesto televisivo dietro tutte le sit-com immaginabili. Andava in onda dopo le 23 con orari aleatori. Io ne ho vista una puntata dove Dario Fo recitava i suoi pezzi su San Francesco. Naturalmente mi sono chiesto perché un programma così bello, che potrebbe avere parecchio pubblico sia stato sepolto negli orari notturni. Cavolo, Fo è un Nobel, è impegnato ed è divertentissimo. Niente, nessuna di queste qualità valeva qualcosa. Ora ho la risposta: le sit-com mi fanno conoscere la vita meglio del Francesco di Dario Fo, quindi avanti i più bravi.
Capisco bene il senso di inadeguatezza denunciato da Genna. In effetti, senza tirare in ballo eziologie e mitopoiesi, tutto si può ricondurre nel paratesto e nella metanarrazione delle lezioni americane che Calvino non tenne, poi riprese da Eco con un’operazione, se vogliamo persino discutibile, dalle tesi di Osip Mandelstam. Riguardo ai Pokemon, personalmente trovo siano più assimilabili alle inventions del massone Joseph Farwell Glidden.
andrea, non è compito mio mettermi a fare critica in questo senso: è da più di un anno che ripeto che non faccio quella critica lì. Mi sono solamente limitato a osservare che tutto fuorché rigoroso è il piano di Benedetti. Sottolineo che l’articolo è apparso su uno dei magazine più venduti d’Italia. Questa sociologia di derivazione pallidamente francofortese è, per me, sconfortante. Non io riadatterò a oggi la “Verifica dei poteri” di Fortini, però, nel caso qualcuno si metta a lavorare a una simile operazione, è chiaro che non va fatta con l’approccio dell’articolo dell’Espresso. E’ reazionario, quell’approccio: bisognerebbe parlare in positivo dell’opera di innovazione della letteratura, non esprimere queste lamentazioni. Carolina Invernizio non c’entra con Leopardi, ma se non vuoi fare De Sanctis e metterti a parlare dell’Invernizio, va benissimo. Ma non si dica che si tratta di un’analisi centrale e/o rigorosa. Tutto ciò è fuori della critica letteraria, assolutamente secondario e per di più dannoso.
Giuseppe sai che le prime volte che ho letto Carla Benedetti su Nazione Indiana pensavo: ma perché non parla di un libro invece di scrivere cose su, non so, “L’uomo che ride”. Cioè pensavo che invece di fare un passo avanti piccolo e gioioso segnalando qualcosa che vale la pena leggere (come fai tu Giuseppe), aveva un approccio che in fondo chiudeva, perché quando uno si mette in testa che il nemico è il potere non ha nemmeno più il tempo di perdersi nella mitopoiesi: a quel punto sei diventato una specie di pm che cerca prove solide per l’istruttoria. Poi mi sono fatto un’idea più generale del suo lavoro. La Benedetti difficilmente segnala un libro. Per scelta segue un percorso di studio che ha per esito un saggio, niente segnalazioni. A me sta bene: ho i suoi libri e le tue recensioni (quelle di Dario, di Tiziano), come lettore sono soddisfatto. Rimane il fastidio per la battaglia contro il potere che rende tutti un po’ ridicoli. Ma forse si può superare anche questo disagio. Renzo Piano non era ridicolo quando in tv, nel programma di Fazio, alla domanda: perché lei è un grandissimo architetto ma dietro di lei in Italia c’è il vuoto, rispondeva: perché ho fatto un concorso all’estero e l’ho vinto, se fossi rimasto in Italia dove non si fanno concorsi (sottinteso se si fanno sono finti) non mi sarei realizzato. Capito?, non ha parlato di critica dell’architettura: ha parlato di concorsi truccati. Allora forse verificare i poteri è importante.
Cara Lalipperini, come al solito, data la lunghezza spropositata, ho commentato sul blog
(e ho pure ascoltato la registrazione di Sumo, e di filosofia ce ne avete messa sin troppa!)
non va
non va
così non va
(è una specie di citazione di Lello Voce).
Esercizio.
Prendiamo la scrittura.
Fatto?
E ora dite ad alta voce:
“Mitopoiesi”!
Fatto?
E ora dite:
“Eziologia!”
E poi:
“Metascrittua, semiotica, grafematica!”
In crescendo:
“Lo scrittore sia nostro psicopompo!”
E infine:
“Saussure, Chomsky, Hjielmslev!”
Esito:
Che fine ha fatto la scrittura?
Scomparsa, annichilità, fuggita a eoni da qui?
Bene, esperimento riuscito.
La scrittura si scrive, e non si de-scrive (non fatemi riabilitare Faletti, per favore)
“Mio cognato è Crasso, non mi fare il superoratore”
(da un frammento dubbio)
Ma che state a parla’ male de Faletti? Faletti l’ho sentito l’altra sera, era un po’ figo e molto brillante, nel programma Fegiz Files, su Radio 2. E’ uno che sa scrivere libri che si fanno leggere, forse perche’ ha letto poco Benjamin e niente Adorno e quindi non si fa delle gran seghe . E’ anche uno che si chiede – l’ha detto l’altra sera e lo conferma la sua scrittura – dopo ogni pagina, “Piacerà?”. E’ una domanda umile, laboriosa, onesta. E’ anche una domanda onestamente collusiva. La letteratura deve vendere, no, miei ipocriti lettori? O serve per invidiare il prossimo che ha successo? (La prima che hai detto? O la seconda?)
Mi ricordo di essere stato presente quando Defoe ha fatto firmare una copia di un suo romanzetto noir all’assassino, di cui al racconto, proprio la’ sul patibolo. E nella folla di Londra in quel mattino d’inverno noi puttane, ladri e raccoglitori di horse-dung eravamo cosi’contenti e compiaciuti. Che bello avere la forza di scrivere un libro che si vende a migliaia di copie sugli scaffali dei supermercati, fra un Dixan e una birra Peroni. Quanto ci manca quella letteratura di sinistra la’. E li mortacci de Langone!
Ho letto l’articolo di Carla Benedetti, che oggi invita a distinguere tra giornalismo e verità, e vi dico le mie sensazioni: da come ho capito io, l’articolo se la prende con Faletti facendo una distinzione fra la vera letteratura di genere e quella geneticamente modificata. Io leggo libri di genere e non so se sono gli stessi a cui si riferisce la Benedetti nel primo caso. Faletti, però, non mi sembra geneticamente modificato o come diceva monica, scritto da un ghost writer, quanto uno scrittore che al momento di scrivere il romanzo non ha pensato a giustificarsi con la letteratura, ha scritto un prodotto, appunto, popolare.
Non ci vedo nessun male, e non mi sento di partecipare al genocidio culturale per questo.
Mi sembra però che la Lipperini dica un’altra cosa, e cioè dove portano in realtà queste polemiche, ovvero a formare una elite di persone che detengono la verità (Benedetti e gli altri, come nell’articolo di oggi) contro altri che invece diffonderebbero menzogne. Benedetti, Moresco e Nazione Indiana da una parte nel ruolo dei buoni, tutti gli altri servi del potere.
E questo è assurdo. Al punto che mi porta a scrivere una cosa semplicistica:
non mi sono mai annoiato tanto leggendo I canti del caos. questo è il mio metro di giudizio.
Postilla in calce(struzzo)
Non ci sfugga l’invito/sfida lipperinico: fondare una latoguardia.
E dunque?
Cosa ne penso? La prima cosa che penso è che mi piace leggere questo tipo di polemica perchè mi piace la letteratura e parlerne e sentirne parlare. La seconda cosa che penso è che però fare questi discorsi è molto poco popolare e quindi si ricasca lì da dove si tentava di uscire. Il terzo pensiero che mi attraversa la mente è che se si parla così come genna e altri, allora sì che non si è popolari. Mi si risponderà che la critica è la critica è la critica è la critica.
D’accordo con Lippa, Zetavu e Zanardo. Anche con Genna, se avessi capito tutto quel che ha scritto 🙂
Dico la mia, per quel che può valere: il pezzo di Carla Benedetti mi lascia perplesso su alcune cose, le dò ragione su altre e credo abbia torto su altre ancora.
1) Cosa mi lascia perplesso
I romanzi di Faletti non li ho (ancora) letti, e se è per questo sospetto non li abbia letti nemmeno lei. Non so dire come siano, ho letto pareri discordi. A Loredana, ad esempio, è piaciuto. Altri mi hanno detto che si lascia leggere ma è banalotto. Io non li ho ancora letti perché i serial killer mi hanno un po’ rotto le balle (ci ho provato, a scrivere un romanzo con serial killer che fosse al contempo una critica ai romanzi di serial killer…)
Quel che so è che le cose che ha scritto la Benedetti di Faletti le leggevo vent’anni fa, sputate identiche, sul conto di Stephen King e altri. Quindi ci andrei cauto. Non è questione di essere “snob dell’antisnobismo” e di magnificare per forza tutto ciò che vende, è che spesso la vis polemica porta a prendere clamorosi abbagli. In questo pezzo la Benedetti dice di non voler attaccare la vera letteratura “di genere” (è un’espressione che usa lei, non io), ma non dice quale sarebbe e in realtà non mi risulta (almeno a quanto ho letto di lei) l’abbia mai particolarmente apprezzata. Nella sua recensione a “Sotto gli occhi di tutti” di Evangelisti, anzi, la descriveva come una gabbia, una prigione in cui gli autori si richiudono volontariamente per paura di osare altro (!).
Mi sembra eccessivo e fuori luogo prendere proprio Faletti e considerarlo l’epitome del genocidio culturale. Almeno è un comico che ha deciso di NON scrivere libri comici e occuparsi di tutt’altro. I libri dei vari spacciatori televisivi di tormentoni (“Zelig”, etc.) o dei barzellettieri sono molto peggio. Hanno fatto più danni Gino e Michele con le loro formiche che s’incazzano di quelli che potrà mai fare Faletti. *Quello* è il vero esempio di libro omologato, on demand, just in time, senza alcun valore e che non lascia niente.
Inoltre, Faletti non è responsabile delle stronzate scritte sul suo conto. Nelle interviste l’ho sempre trovato persona intelligente, e non mi sembra uno in malafede. Scrive i libri che gli piace leggere, punto.
2. Cosa mi convince
La Benedetti spiega molto bene il meccanismo per cui si è passati dal badare al profitto complessivo all’ossessione del profitto del singolo libro, con tanto di rialzo della percentuale minima da raggiungere.
E’ anche vero che i critici con la “c” maiuscola non ci stanno a capire un cazzo, di quello che succede (lo dimostra “Tirature ’95”), ma su questo io sono in disaccordo con Benedetti: per me, quando i critici non capiscono è sempre un segnale positivo.
Quanto alla trasformazione delle librerie in supermercati, dirlo è ormai una banalità, c’è chi si lamenta e chi s’adopra per sostenere le piccole librerie di qualità, portate avanti con passione e mestiere. Nel caso di un autore, significa privilegiare quel tipo di librerie al momento di decidere dove presentare un proprio libro. E questo lo stiamo già facendo in parecchi.
3. Cosa non mi convince
Come ha già sottolineato la Lippa, non è affatti vero che non esista più l’editoria “di progetto”, media-piccola, non generalista.
Negli ultimi due-tre anni uno degli appuntamenti culturali che ha attirato più pubblico è stato il festival “Più libri, più liberi”, la rassegna della piccola e media editoria che si tiene a Roma, all’Eur. Curioso che la Benedetti si dimentichi dell’esistenza di editori di progetto come Minimum Fax, Nuovi Equilibri, Marsilio, Meridiano Zero, Fanucci, Sironi, Fernandel, Pequod, Sossella etc.
Non è nemmeno vero che per gli editori medio-grandi non funzioni più il meccanismo “libro che vende fa esistere libro che non vende”.
Accanto all’ottimo e popolare Ammaniti, l’Einaudi continua a pubblicare saggi e romanzi con tirature minime, destinate a nicchie di mercato. “Io non ho paura” permette di pubblicare Revelli, Perniola, le lettere dal carcere di Foa Sr. (Foa Jr. purtroppo non… ehm, scusate!), oscuri autori polinesiani, ponderosi hardcover di storia, la serie “Il romanzo” curata da Franco Moretti.
Quanto alla Feltrinelli, non pubblicano solo i libri di Ligabue (absit iniuria): fanno anche la collana “Interzone”, prezzo alto, alta qualità dei contenuti, target minimo o quasi solo accademico.
Persino la Mondadori mantiene collane non generaliste e pubblica romanzi anche se non venderanno l’iradiddìo.
Con questo non voglio affatto sostenere che nella grande editoria non ci siano storture e subalternità alla logica del profitto hic et nunc. Tutto questo c’è eccome. Ma se si esagera e la si spara grossa grossa grossa, come mi sembra abbia fatto Carla Benedetti, il rischio è che ti si risponda con un “Bum!” o un “Ma va là!!!”, poi chi ti ha letto smette di cagarti e torna al piacere di leggere Faletti.
Giusto, Effe: http://www.miserabili.com/archives/2005/01/latoguardia.html#016261
Il lapsus “Tirature ’95” non è un lapsus: è una battuta fantastica.
Infatti non era mica un lapsus. Non so se sia “fantastica”, probabilmente la si potrebbe considerare una battuta, ma secondo me è solo il vero titolo del libro. Se uno non si è accorto che c’è stata Internet, vuol dire che è ibernato da dieci anni.
Wu Ming (e non si mai se usare il plurale),
se è ibernato da dieci anni consiglerei di prestare viva attenzione, prima del consumo, alla data di scadenza
*esisteranno i Nas della cr-it(t)ica?)
E poi c’è un bel pezzo di un librone inglese, che si chiamava Il Cardinale, pubblicato da Garzanti, che diceva (da inglese, degli italiani) “…è che l’uomo – secondo me pure la donna – vuole essere sempre eroico, fare l’eroico, l’unico…”. Dire sempre cose uniche. Mai un po’ di collaborazione, di complicità. Mai fare, “i cagnolini al sole…”, come diceva Fellini dei ragazzi del ’68. E’ successo solo nel ’68. Io di tutta questa aggressività ho paura. Ve lo dico. Non ce la faccio più. Meno male che c’è Milù, e Loredana.
diavolo, tocca concordare con un articolo del Genna.
Mala tempora.
Popolare. Non popolare. Italiano prima di tutto, come discorso, quello della Benedetti. Non dico che sia un bene o un male. E’ così. Perchè in Francia, dove Balzac e Sue scrivevano ( e vendevano) per il “popolo”, il problema non si poneva. Neanche in Inghilterra (Dickens, Braddon, Collins). In Italia Mastro don Gesualdo fu un insuccesso. Sto con Loredana, però. Le storie, se non si confrontano col popolare non sono storie. E’ l’acidità però, io lo dico sempre, che non va bene. quella no. Baci anche da Milù, a Loredana.
Quello che voglio dire io è che la letteratura ti permette di “fare un discorso” sul potere. Io, ma credo molti di voi pure, la amo per questo. E allora, va bene farlo a livello “macro”, il famoso discorso sul potere. Wu Ming e Genna per esempio, o anche Pincio lo fanno egregiamente. Ma io parlo del potere dei “piccoli” personaggi. Del potere all’interno delle famiglie, delle coppie, delle istituzioni. E allora, vorrei leggere romanzi o vedere film italiani su “i rapporti di coppia nell’istituzione letteraria” di cui invece nessuno racconta. e un sacco di gente ci lavora dentro! Una cosa che tutti sanno, un po’ come i rapporti di notte fra dottori e le infermiere. O, per passare ad altro dall’istituzione letteraria, le storie delle eredità, i soldi, la roba, e il potere che prevede, gestire tutto questo. Ecco, la letteratura mi libera un po’ . E’ una mia ossessione? Non lo so. Ecco perchè Cime Tempestose (famiglia, eredità) è bellissimo. Ecco perchè è bravo Angus Wilson. In Italia non c’è un Angus Wilson perchè qualsiasi nuovo ricercatore che voglia “scrivere da scrittore” , rischiando, cioè, teme di perderlo, il posto dicendo semplicemnte, “quello che vede”. E allora persino un Lodge diventa un Woody Allen. Vi bacio.
nell’Aleph orientativamente Borges diceva che i critici sono quelle persone che non dispongono di laminatoi,presse,acidi solforici per creare un tesoro ma sanno indicarti una traccia per trovarlo.Sono sicuro che nella sua torre d’avorio non sorda ai mistici inganni non gli sfuggiva il concetto di marchetta.Ergo è il tesoro che trova noi.Nel senso
Libro libero! Ma quando mai? Ma c’è mai stato un tempo che il libro è stato libero veramente? No. Dài! Il libro è una merce, o meglio da sempre è stato mercificato, spacciato persino agli angoli delle strade, di nascosto, o alla luce del sole. Il libro, così simile ad una donnetta ha i suoi magnaccia da quando Virgilio e ancor prima. Torno a guardare Hazzard in Vhs e dico: meglio se non si riversi su Dvd, ci vuole una petizione per impedirlo. E se proprio devo leggere un romanzo popolare, che almeno sia all’altezza dei “Tre moschettieri” o niente. Se devo leggere letteratura, allora che sia almeno ai livelli di Vassalli, o niente. Però vi siete resi conto di quanto terribili siano i libri quando riportati sul grande schermo? Dio! C’è di che vomitar pop-corn per una vita intera e di più. Torno a guardare Odissea nello spazio, almeno quello è un film ed un libro: ma oggi, nessun Kubrick e nessun Clarke che si prendono per i capelli, ma veramente. Sono un po’ di talk-show, ma il solito, noioso, fondamentalmente: ecco, sì, il libro mai stato libero.
Ciao ciao
Iannox
Guarda un po’ che combinazione. Un paio d’ore ora fa ho postato (in un thread sbagliato) questo commento in cui citavo l’introduzione a un “Tirature” di qualche anno fa, dove Vittorio Spinazzola auspicava il ritorno a una critica letteraria che sapesse distinguere tra “oggetti dotati di un valore d’uso reale e la semplice paccottiglia”, tenendo conto dello specifico “indice di leggibilità” di ogni libro e non cadendo nella facile tentazione di disprezzare (poniamo) i diari della Littizzetto perché non scrive come Salinger. Vedo ora dai post del pomeriggio che la redazione di “Tirature” non riscuote l’entusiasmo di molti degli intervenuti, ma mi sembra ugualmente sia una posizione su cui riflettere. Quello che, critica o non critica, mi trova invece d’accordo con Benedetti è la preoccupazione per la paventata scomparsa della logica del “doppio binario” editoriale. Che Faletti o Dan Brown vendano, buon per loro, ma che non si possa/voglia vendere altro mi sembra davvero allarmante. E chi mette in croce Faletti mi dà l’idea di non aver capito bene quale sia il bersaglio.
Ecco, io non potrei parlare, per conflitto di interessi, essendo uno di quelli facenti parte insieme a Faletti (ma con molte, ma MOLTE copie in meno vendute) e Avoledo del club “Miracolati da D’Orrico”. Quindi non parlo.
Ma fate finta che quello che ha scritto Wu Ming 1 l’abbia scritto io.
un ghost writer, quindi
Un doppio ghost writer, Effe. Perché devi anche far finta che quello che ha scritto Montanari nei commenti al pezzo della Benedetti su Nazione Indiana l’abbia scritto io.
Insomma gli altri scrivono e io mi accodo. Un vero lacchè!
Fino a due anni fa la Mondadori della mia città teneva i fumetti Coconino press. Quando ha smesso andavo a Rimini dove c’era la libreria Interno 4 (quella che nei racconti di Morozzi è Babylon five). Lì trovavo oltre a fumetti d’autore anche dei libri che altrove avrei sognato. Lì per esempio c’era “Nato per vincere” una raccolta di scritti canzoni disegni poesie di Woody Guthrie, edizioni Mazzotta, 1979, copertina verde pisello con un disegno del musicista. Sempre da Interno 4 di Rimini (ce ne sono altre, una a Bologna) si trovava, dello stesso editore, un libro sulla pittura metafisica a cura di Massimo Carrà, ancora fine anni settanta, un libro d’arte straordinario, ma l’ho lasciato lì perché lo avevo già (e di quella serie ne ho uno bellissimo sul Dada a cura di Hans Richter dove tra l’altro Richter parla della celebre colonna di Schwitters, celebre per me che non perdo tempo a leggere libri inutili: non me lo posso permettere, passo quaranta ore a settimana fuori casa). Continuo la storia, ad agosto dell’anno scorso Interno 4 di Rimini è stata chiusa (era prevedibile, aveva a due passi una grande Mondadori). Prima di chiudere per un mese hanno venduto tutto al 50%. Credo di avergli lasciato almeno 500 euro. Mi sono portato a casa, con un certo senso di colpa perché loro erano in perdita, intere serie della Coconino tra cui la biografia del mangaka Osamu Tezuka. Tra l’altro ho scoperto che la mia nonna pittrice è stata sull’isola di Pasqua un anno prima di lui, nel 1976, poi dei disegni dei Moai ha fatto una mostra. Li ho confrontati con quelli di Tezuka: è incredibile come due artisti tanto lontani possono somigliarsi nel senso della meraviglia, e vabe’. Ho trovato a metà prezzo anche le “Lettera a uno sconosciuto” di J. Cage, una lettura che può cambiare parecchio le idee una persona (in rete su IBS c’è la recensione di Nicola Campogrande). Ora i fumetti li compro da Alessandro a Bologna, una fumetteria immensa. Le fumetterie sono bellissime perché sono posti per appassionati e così non c’è la necessità di accalappiare la gente. I fumettari sono tutti espertissimi filologi e critici serissimi. Bisogna proprio dirlo, il mondo del fumetto è di un gradino superiore alla letteratura, e non solo per quanto riguarda il consumo. Anche nella letteratura ci sono realtà formidabili, la piccola editoria che diceva Roberto Bui, ma spero che continuino a esistere perché so, conoscendo qualcosa dall’interno, che quelle posizioni di qualità, quasi senza l’aiuto di nessuno, le difendono con i denti tutti i giorni. Credo di aver scritto questo post lunghissimo per dare l’idea di cosa succede a un consumatore di quel particolare prodotto che è la cultura. Molti conoscono questo tipo di consumatore quanto un disco volante.
Cara Loredana,
stimo molto il tuo lavoro di giornalista culturale, e perciò mi dispiace che tu ti sia sentita attaccata nel mio articolo pubblicato su Nazione Indiana (http://www.nazioneindiana.com/archives/000948.html ). La mia intenzione era di mettere a fuoco un nuovo meccanismo perverso che si è innestato da quando i quotidiani sono diventati editori e si trovano a recensire, sulle proprie pagine culturali, i libri che essi stessi mettono in vendita nelle edicole. Un conflitto di interessi oggettivo, che rischia di chiudere ancor più gli spazi per il giornalismo culturale. Non ho mai pensato che tu piegavi a una vile promozione del libro di Faletti. Non l’ho pensato e neppure l’ho scritto. Se vai a rileggere quel passo, ti accorgerai che nemmeno nella lettera c’era alcuna ambiguità. Dicevo:
“Un altro elemento nuovo è che i quotidiani sono diventati editori. Ristampano i classici ma anche bestseller recenti. E le pagine culturali si riempiono di recensioni di questi libri, che quindi talvolta, al di là delle buone intenzioni del giornalista, diventano oggettivamente indistinguibili da una promozione”.
Quanto al popolare, mi dispiace che tu abbia letto nel mio articolo un disprezzo per ciò che ha grande diffusione. Io non disprezzo affatto né demonizzo i libri che sono popolari. Disprezzo però il populismo, e l’ideologia del populismo, che è tutt’altra cosa. La destra ha fatto del populismo la propria bandiera pubblicitaria. La sinistra subisce questa ideologia senza avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e fare analisi di cosa sta succedendo davvero. I libri della Fallaci sono popolari. Anche di quelli diresti che vanno accettati per questa ragione?
Ringrazio Andrea e Wu Ming per i commenti puntuali che aprono alla discussione. Anch’io credo che in Italia ci sia ottima e coraggiosa editoria di progetto, e non me la sono affatto dimenticata. Semplicemente mi interessava in quell’articolo fotografare una tendenza, isolare un virus, dire con cosa abbiamo a che fare, con quali ostacoli e forze si trovano a combattere gli editori di progetto, e noi con loro. Non sono catastrofista, ho sempre guardato con sospetto gli apocalittici, e l’articolo di cui stiamo discutendo si chiude con l’affermazione che i giochi non sono mai già tutti fatti.
Grazie a tutti, la discussione è sempre più interessante. Fra poco posto la risposta di Carla.
Penso che sarebbe bello ospitare nella home page di questo blog la replica di Carla Benedetti. Allo stesso modo, penso che sarebbe bello che su Nazione Indiana ospitassero in home page il post di Loredana Lipperini e la risposta di C. Ben.
Ehi, scusate l’OT, ma vedo che il Genna interviene qui e nel suo sito non si può commentare. Perché sotto la testata dei Miserabili scrive GIORNALE DI LETTERATURA E MONDO FONDATO DA GIUSEPPE GENNA NEL 2002? Non è mica vero. I Miserabili sono in rete da settembre del 2003.
Su Nazione Indiana l’hanno già fatto.
Pure io, araldo: ho giornate complicate…
E va be’, sarò pignola. ma non va tradotto in italiano, dai! Comunque grazie per aver risposto