L'AVANGUARDIA E IL DISTALE

La parola distale, chiariamolo subito, non riguarda la letteratura (o forse, chissà, potrebbe, dal momento che riguarda la lontananza dal centro): in questo caso occorre però intenderla in chiave squisitamente ortopedica. Vale a dire: da stamattina, di nuovo due braccia e dieci dita (però anche dieci giorni di fisioterapia per recuperare un polso arrugginito e molti di più per  tutela e conservazione della benedetta ulna destra).
Per festeggiare, vi segnalo la seconda parte di una discussione in corso su Nazione Indiana a firma di Andrea Inglese e a proposito di avanguardia (qui il primo post). E già che si sono aggiungo la domanda finale, con relativa risposta, di una chiacchierata inedita fra la vostra eccetera e l’immaginifico Jenkins, che mi sembra pertinente. State bene.

La cultura delle avanguardie e la nuova popular culture sono
destinate ad incontrarsi?
Non
necessariamente: ma se questo non avvenisse, l’avanguardia diventerebbe sempre
più irrilevante. Gli artisti di avanguardia hanno prodotto contenuti lavorando
nelle insenature protette della società, accettando la marginalizzazione come
una conseguenza inevitabile della cultura di massa. E avanzando due scuse: uno,
le nostre creazioni sono troppo complesse per il consumatore medio, due, il pubblico apprezza solo i prodotti
patinati di Hollywood. Entrambe non sono vere. MTV utilizza tutti gli
espedienti formali dell’avanguardia storica e li rende accessibili al pubblico
di massa. La serie Lost traduce
le strutture narrative che si associano all’avanguardia nello show più popolare
della televisione americana. Il pubblico ha fame di maggior qualità, non è in
sintonia con quanto prodotto da molti artisti di avanguardia e al tempo stesso
apprezza i film amatoriali a budget basso o nullo che .circolano su YouTube, e
che sono tutt’altro che patinati. Cosa significa? Forse, che è tempo per
l’avanguardia di finirla con le scuse, di smettere di rinchiudersi nelle
proprie celle di clausura e di uscire a lavorare nella loro cultura. O, forse,
che il pubblico è ormai davanti all’avanguardia.

85 pensieri su “L'AVANGUARDIA E IL DISTALE

  1. @a.b.
    se il fumetto è un linguaggio che può fare tutto (parole tue), perchè non può esserlo quello videoludico???
    anche tu, che inviti la gente a leggere gipi, dovresti interagire con certe opere videoludiche e poi tornare.
    t’assicuro che troveresti visione, apertura, critica, potenza a un livello inimmaginabile se non lo esperisci. tutto qua.

  2. Ma che dici? Come ti permetti? Ho mai insinuato cose del genere?
    Vedi? Il tuo è ancora una volta uno spostamento di fuoco, insinuante.
    Ed infatti il salto di tono in questa discussione lo hai fatto tu. Tu mi hai dato dello snob, del parvenue, tu hai tirato fuori l’esempio improprio della Corea per dire, poi:
    “per me VOI avete da imparare, perché non sarà la PL2 ma qualche altro impedimento qui ci sarà no?”
    Qui dove? In Tutta Italia? Solo qui nei frequentatori della Lippa?
    E’ questo spostare il fuoco quando si discute che ti è tipico che tutte le volte mi dispiace.
    Che c’entra la Corea?
    Perché vuoi sempre dimostrare che c’è qualcuno che “fa meglio”, “che è più bravo”, e che conosci solo tu?
    Cosa sai di chi o cosa conosco io?
    E che comunque ci siano persona che fanno meglio, molto meglio di me, ne ho una certezza matematica. E sul loro esempio io cerco di instradarmi, cosciente della loro irragiungibilità.

  3. Sì hai ragione, Gipi per esempio ha interagito per parecchio tempo. Mi sono scaricato anche delle immagini di certi scenari (non è come giocare d’accordo) perché graficamente sono interessanti, e qualcuno mi ha spiegato su NI che alcuni sceneggiatori sono dei geni assoluti. Non ho dubbi che sia così.
    Ho invece dei dubbi a pensare che un videogioco possa diventare una narrazione sulla realtà, a mio parere potrebbe solo smettendo di essere videogioco e diventando videoarte o cinema diciamo “interattivo”.
    Poi se mi dici che i videogiochi sono divertentissimi, ancora una volta ti dico che ci credo. E che anche se ci sono altre cose divertentissime sulla terra, una non esclude le altre.

  4. Gianni, ma non capisci che cerco di scuoterti un po’…
    Tu vuoi essere un narratore e così WM1. E volete essere “popolari”. Questo secondo me è molto bello. Sono innamorato di quella parola, ma preferirei non usarla.
    Perché sono innamorato della parola? perché mi fa venire in mente una persona che vuole RACCONTARE qualcosa a TUTTI, e questo significa per me due cose:
    che le persone sono sullo stesso piano, e che le parole (o le immagini o le parole e le immagini) sono uno strumento portentoso per esibire la verità.
    Perché preferirei non usare la parola “popolare”?
    Perché per come viene fuori qui e altrove, il concetto di “popolare” diventa qualcosa di diverso da quell’idea semplice che ti ho detto sopra (e che sta alla base del lavoro dei WM, quando non si fanno trasportare altrove) dicevo quell’idea la trovo completamente stravolta in uno snob-pop (proviamo a chiamarlo così?). La capisci anche tu la differenza tra il “cantastorie” evocato spesso da WM1 e quello che oggi ci propinano. Allora dico: surgeliamo la parola “popolare” e cerchiamo di vedere dove quell’energia del cantastorie si trova. Io con tutti i miei limiti in questo colonnino ho detto dove la trovavo.

  5. Gianni, di Croce ne parliamo a quattr’occhi (occhiali esclusi) tu sai dove, davanti a tu sai cosa (scusa il gergo rowlingiano, ma sai noi sudici provinciali oltre non andiamo…). Cmq hai ragione, scrive bene come pochi, soprattutto rispetto agli storici e ai filosofi a venire: espressioni come “stanno messi male” o “non ci hanno una lira” non le avrebbe mai usate, e dire che non era laureato 🙂
    scusate se non partecipo alla discussione, ma ho buttato le vecchie agende tra la carta riciclata e così, su due piedi, non ricordo più in quali musei e a quali mostre sono stato, in definitiva mi mancano le credenziali, e mi intimidisco sempre davanti ai “tu non sai chi sono io” (soprattutto quando, purtroppo, lo so).

  6. a.b.
    suvvia. Qualche post fa stavo quasi pensando di fissare un incontro a BO tra me, te, wm1, Angelini e la Matilde di wm1 (se la cosa non la spaventa) per un faccia a faccia in cui io, che ho l’età mentale di Matilde, mi sarei divertita a chiaccherare con lei mentre di sottecchi seguivo le vostre dissertazioni.
    E’ quasi Natale e ho anch’io gli incubi, non pensate di essere i soli.
    Ebbene, no, a.b. mi guasti tutto. Non perchè hai idee diverse da quelle che professo, ma per questi modi ‘antipatichini’ di fare.
    Vergogna, tua nonna ti apparirà nel sonno a ricordare che lei faceva arte e non andava per lipperature a girare intorno a concetti male arrangiati e peggio difesi.
    Chissà perchè quando penso che una nonna (qualsiasi) appare in sogno mi raffiguro sempre nonna Abelarda (la ‘s-cultura’ spazzatura, neh).
    Come avrete avuto modo di leggere sono anche cattivissima e aggressiva. Però tendo a svicolare e a immaginare cose strane visto che al mio superIo (credo sia lui, ma potrebbe essere una componente non ancora identificata) risultano indigesti il sangue, le morti atroci e gli sbudellamenti. Di solito immagino le persone che mi disturbano come palloncini sospesi in aria. Con un gesto li slego dal filo cui sono appesi e che impedisce all’aria di defluire. Così possono volteggiare liberamente e perdersi nell’atmosfera riacquistando l’essenziale e informe aspetto dell’involucro.
    Con a.b. non succede. Non c’entra il fatto che non sappia com’è fatto. Non è importante.
    Con a.b. mi succede una cosa strana. Lo immagino chiuso in una stanza claustrofobica insieme a Arturo Carlo Quintavalle.
    Mi chiedo perchè un baronetto (parole di sue ex studentesse universitarie che non credo sapessero molto di gradi di nobiltà, mi scuso con lui se hanno cannato il titolo, magari è duca o conte) della storia dell’arte (romanica in particolare) debba subire l’onta dei deliri sull’arte di d.b.
    Deliri in senso buono d.b, a cuccia, quì, più o meno, deliriamo tutti (a volte e non solo).
    Non ho molto tempo a disposizione per queste cose, ma ho cercato di capire perchè.
    Ebbene, non sono storica dell’arte, di Quintavalle leggevo qualche articolo quì e là….però…però….grosso modo a metà degli ’80 ho seguito una sua dissertazione non so più dove e con chi. Non parlava del romanico, parlava di Arte e comunicazione. Se non ricordo male per lui o altri (eh, la memoria) le arti sono linguaggi, comunicazione. Vabbè. Sta di fatto che ACQ vedeva affinità tra l’arte sacra (che poi per molto tempo era quasi l’unica, almeno nell’occidente cattolico da cui, ahi-bò proveniamo) e la comunicazione pubblicitaria. Sostenva (se non erro e ..potrei) che l’arte antica (non solo sacra quindi?bho) aveva, nè più nè meno, le funzioni che hanno oggi le insegne pubblicitarie o gli spot televisivi. Vendevano il prodotto Chiesa o Potere attraverso le diverse rappresentazioni. Ergo l’Arte del nostro tempo era quella partorita dal mondo della pubblicità con i suoi creativi, grafici ecc. Forse la memoria mi sta giocando brutti scherzi o sto sintetizzando troppo. Sta di fatto che erano gli ’80 da bere e che CAQ da romantico romanico ha anche dato vita al CSAC. Qualcosa di vero nel mio ricordo deve esserci.
    Adesso dovrei stabilire chi tra i due nella stanza intendo ‘punire’.
    Contrariamente alle mie abitudini di ‘prendere posizione’ credo, in questo caso, di essere bipartisan.
    Memoria (scarsa), inconscio, a.b. e stanchezza ogni tanto mi fanno dei brutti scherzi. Ch’aggi ‘a fà.
    besos

  7. Lippa, tu non ci aggiorni. Bisogna scorrazzare su internette per aggiornarsi 🙁
    ecco una ‘news’ risolutiva, soprattutto per le inquietudini di a.b.
    Orsù a.b. comincia a porgere le tue sinapsi per l’analisi mentre contempli Gipi. Innestati un peacemaker mentre visiti palazzo Grassi o dei chip sottocute mentre passeggi per la Biennale di Venezia.
    http://www.neuroestetica.org/
    Fin dalla preistoria, la fantasia creativa dell’uomo si è manifestata attraverso l’arte: un mezzo di comunicazione universale che permette il dialogo fra i popoli attraverso lo spazio ed il tempo.
    A migliaia di anni di distanza, infatti, i nostri lontani antenati ci parlano ed emozionano attraverso l’arte senza la necessità di ricorrere alla mediazione della scrittura. Ciò avviene perché, oggi come ieri, l’immaginazione e la percezione possiedono delle basi fisiologiche comuni, ritenute il punto di partenza per lo studio di qualsiasi attività umana.
    Per indagare a tutto campo sull’uomo, recentemente è nata la Neuroestetica. Questa disciplina si propone di esplorare, in particolare, le differenti espressioni artistiche dal punto di vista neurobiologico, per cercare nella fisiologia della mente (e quindi nel nostro cervello) le ragioni fondamentali delle complesse attività umane.
    I sentimenti di amore e odio, così come l’abilità di realizzare ed apprezzare l’arte, hanno origine nella mente e nel suo equivalente fisico: il cervello.
    :::::::::::
    Adesso devo proprio dormire, che non sto in piedi.
    besos

  8. Volta: se ascolti il Miles elettrico di qualche anno dopo, lì dentro ci senti fortissima l’eredità del free. Spesso quel che denunci a parole con veemenza ti entra sotto pelle, a tua insaputa lo interiorizzi e rielabori, e quella che sembrava avanguardia per quattro stronzi si trasmuta alchemicamente in musica popolare, musica per cui lo stesso Miles fu chiamato “venduto”. Questa cosa l’ha fatta notare Archie Shepp qualche anno fa: “Bitches Brew” è un album risultato di sessions dove si improvvisava in una maniera molto simile a quella del free.
    La musica colta tipo Berio o Stockhausen era un interesse più di Anthony Braxton e qualcun altro dell’AACM che dei musicisti della “new thing” vera e propria, che erano più interessati alla tradizione nera (Albert Ayler, Archie Shepp), ai raga della musica classica indiana (Coltrane), alle poliritmie della musica africana e afro-brasiliana (Coltrane, Sanders etc.)
    Poi, dai, non è così vero che il mondo dell’improvvisazione radicale oggi sia solo una roba per intellettuali pipparoli, esistono collettivi come l’Improvvisatore Involontario ed ensembles come gli Switters con cui ho collaborato che lavorano moltissimo sui linguaggi pop e hanno pratiche musicali trasversali (Vincenzo Vasi è un improvvisatore radicale e suona il basso nella band di Capossela).

  9. Certo, d’altronde lo stesso Miles a un certo punto fece “ammenda” (per modo di dire: troppo orgoglioso per dire “ho sbagliato”). Anche lui però a proposito di Bitches Brew e seguito, parla di Stockhausen come influenza primaria – trasmessagli tra l’altro da chi? Da Ornette. Quando però dici “quella che sembrava avanguardia per quattro stronzi si trasmuta alchemicamente in musica popolare” cogli esattemente nel segno, e non vale solo per la musica. In questo, se vuoi, sta la mia difesa d’ufficio a quei percorsi (e vabbè, chiamiamoli ancora così) “d’avanguardia”, non elitari ma semplicemente “di ricerca”.
    Infine:
    No WM1, mi spiace: nella scena impro contemporanea ho molti amici, e molti sono simpatici, aperti e tutto. Ma la stragrande maggioranza, soprattutto in ambito jazz, sono dei poveri nerd segaioli, condannati a ripetere all’infinito le “ascensioni” e le “forme che verranno” di quarant’anni fa. Viva il metallo, piuttosto!

  10. Anch’io difendo i percorsi di ricerca. Che sono anche i miei. Non credo nelle antinomie tra cultura “alta” o “bassa”, tra “ricerca” e “intrattenimento”, tra “d’autore” e “di genere”, tra “artistico” e “commerciale”. Attraverso tutto, felicemente. Io, semplicemente, contesto chi pensa che la “ricerca” stia tutta in determinati percorsi e milieux anziché essere ovunque, disseminata in tutti gli ambiti della creazione culturale.
    [Frequenti i musicisti sbagliati. Brave persone, mica discuto, ma musicisti sbagliati 🙂
    Ti faccio un nome: Francesco Cusa. Batterista. Improvvisatore e showman, vero e proprio cabarettista delle poliritmie, un manico della madosca. Ri-musicatore di film di Buster Keaton. Insieme a Gianni Gebbia e Roy Paci costituiva il “Trionacria”: un catanese e due palermitani. Dal vivo, una performance durissima ma esilarante. Per non dire di “Bandiera gialla” di Gianni Pettenati rifatta dagli Switters!]

  11. Spettatrice, questa è la mia mail:
    titonco@hotmail.com
    o tu mi chiedi scusa per questa frase:
    “Vergogna, tua nonna ti apparirà nel sonno a ricordare che lei faceva arte e non andava per lipperature a girare intorno a concetti male arrangiati e peggio difesi.”
    o io non ti rivolgerò mai più la parola.

  12. OT(a metà)
    Siamo strani,orientativemente disponibili(con mostruosi dubbi laceranti almeno per il sottoscritto)all’eutanasia per gli umani ma sempre disposti a un accanimento all’ultimo sangue per tirare fuori dall’oblio fenomeni artistici che non riescono a farsi ricordare da soli.Forse perchè l’arte trascende ed è Santa

  13. Certo, i Trionacria me li ricordo. Ho un solo cd loro (ma credo che sia l’unico che hanno fatto), “The Mystic Revelation”: confezione spartana, ma il materiale era buono. Poi vabbè, Roy Paci ha fatto la fine che ha fatto, ma lasciamo stare.
    Che frequenti i musicisti sbagliati ci sta tutto, figurati (io ovviamente mi sforzo di frequentare quelli “giusti”). Ma che devo dirti, personalmente è da parecchio che ho lasciato perdere quella scena, proprio per quell’atteggiamento snobistico e castrante che, a suo tempo, percepii in maniera netta.
    Sulle influenze di Stockhausen (o di Varèse, o di chi vuoi tu): Ornette, Cecil Taylor, ma anche lo stesso Miles spiegarono bene “cosa” ripresero dal vecchio Karlheinz (che personalmente tra l’altro non ho mai amato, anzi). In fondo la questione è semplice: questi erano musicisti, e giustamente erano curiosi dei percorsi che giravano all’epoca, anche al di fuori del ristretto ambito jazz. Hanno trovato in Stockhausen spunti che credevano interessanti, e hanno tentato di renderli alla loro maniera. Niente double-speak: il free, come tutte le musice del ‘900, è una musica ibrida, bastarda, contaminata, ed è questo il bello delle musice popular, avant o meno che esse siano, no?
    Sul fatto che, come dici, la ricerca può stare ovunque, sono d’accordissimo, figurati. Ai milieux ormai non ci crede più nessuno, tranne forse… Jenkins! No, a parte gli scherzi: la risposta di Jenkins alla domanda della Lippa, come ho detto, mi pare fondata più su luoghi comuni che su una reale analisi/conoscenza dei fatti. Era solo su questo che mi sono permesso di obiettare (e ripeto: ho letto “Convergence C.” e mi è piaciuto, non discuto la pregnanza dei suoi ragionamenti). Tanto è vero che anche tu citi musicisti provenienti dalla “cultura delle avanguardie” che però le “culture popular” le frequentano e le incontrano. E poi, dai WM1: anche tu volendo appartieni alla schiera, su! 🙂

  14. se lo dico dalle mie parti ho paura che non ci rivedremo tanto facilmente.Ma qui non siamo tra giocatori di carte da quattro soldi,così azzardo.Secondo me Roy Paci vale Fresu

  15. a.b.
    ogni tanto esagero, ma mai vorrei mancare di rispetto alle nonne (comprese le mie che dall’alto delle nubi si incazzerebbero un po’).
    Mi spiace anche per la bimba di wm1 tirata in mezzo tanto per completare una facezia.
    se offesa vi fu (non era nelle mie intenzioni) fu fatta su lipperatura e nel medesimo loco mi scuso con le diverse sensibilità.
    Non offenderti se non riceverai nessuna e-mail, ho troppi casini da gestire e non mi va ampliare la casistica.
    besos

  16. Secondo me l’errore, continuamente reiterato, che tende ad ingolfare queste discussioni consiste nell’assolutizzazione autoritaria delle proprie disposizioni estetiche, dimenticando come esse siano frutto di tirocinii altamente selettivi, di frequentazioni reiterate basate su scelte sostanzialmente arbitrarie (dato che nessuno può “sperimentare” che una minima parte dell’enorme offerta) che lentamente innescano nel nostro corpo quelle sedimentazioni dell’abitudine, quei “meccanismi a molla” (per tacere dell’arbitrarietà dei “rinforzi” affettivi) che successivamente pretendiamo di valenza universale. In tal modo le dispute estetiche, anche quando totalmente disinteressate, non sono altro che una sorta di assurda rivendicazione di una maggiore “significatività” – nell’assoluto – del proprio peculiare percorso esistenziale rispetto a quelli altrui. Perché io non dovrei poter dire, senza con questo attirarmi odio o disprezzo da alcuno, che a me, per esempio, Gipi non piace? Pur riconoscendone l’abilità e il talento, il suo tratto mi richiama una mano molle, esangue, e le sue storie mi sono sempre apparse permeate da un eccesso di sentimentalismo: insomma l’incontro con il suo “stile” non mi ha, almeno per ora, spinto alla ripetizione e all’approfondimento dell’esperienza, con tutte le conseguenze che questa scelta comporta. Per tagliar corto, penso che le cose sulle quali “si deve” trovare un accordo siano quelle che faticosamente rientrano nell’ambito della scienza, mentre l’autoritarismo estetico mi pare una specie di imbroglio, per quanto possa talvolta essere perpetrato in assoluta buona fede, per una causa santa o luminoso scopo.

  17. VOLTA scusa, 11 ore dopo. Speravo continuaste.
    Sul possibile incontro tra cultura popolare e d’avanguardia, mi sento più in sintonia con la tua analisi possibilista, che con quella di Jenkins forse un po’ troppo critica, meglio, critico con l’avanguardia. Purtroppo ho dimenticato tutto il fantastico jazz ascoltato troppi anni fa, e nonostante la passione (vecchia) per Stockhausen, Zappa, Coltrane, e (nuova) per Roy Paci, non riesco ad apprezzare a pieno i tuoi scambi con Wu Ming 1. Sarei comunque molto interessato a conoscere meglio il pensiero racchiuso nel tuo ultimo rigo. E ovviamente la posizione di Wu MIng 1 stesso. Grazie, ciao.
    lucio

  18. Ragazzi, torno dopo 24 ore off line. Una semplice mozione d’ordine: quando si cita un virgolettato di un autore specificando che è uno stralcio di un testo più lungo e per giunta dialogico, linkandone il blog e facendo riferimento ai libri che ha scritto, l’invito implicito è: non fermatevi qui, manca il contesto, andate a dare un’occhiata. Il problema delle discussioni da blog è che questo invito non viene accolto quasi mai e ci si comincia a dividere in “pro” e “contro” quell’affermazione estrapolata senza curarsi minimamente di conoscere il pensiero che ci sta dietro, i percorsi etc.
    Jenkins fonda tutta la sua ricerca (non dico semplicemente “riflessione”, perché c’è ricerca vera, sul campo e con dati) porta ad alcune conclusioni supportate, negli ultimi suoi libri, da centinaia di esempi:
    1) la cultura pop contemporanea tende ad essere *partecipativa* e formare comunità aperte di fruitori-riutilizzatori, reti di intelligenza collettiva, e per certi versi re-inserisce tratti della cultura folk pre-industriale all’interno di un contesto iper-tecnologico (io stesso ho fatto molti esempi di tale partecipazione, nelle discussioni passate su questo blog);
    2) Al contempo, adotta anche soluzioni espressive che prima erano esclusive dell’avanguardia, perché il fatto di essere “partecipativa” tende a disinibire chi la vive nei confronti di molte più soluzioni e molti più approcci;
    3) La cultura pop contemporanea costruisce “narrazioni trans-mediali”, che proseguono da una piattaforma all’altra, si tratti di cosa programmata fin dall’inizio o di “dirottamento” del prodotto culturale da parte dei suoi consumatori.
    Ecco, lo vedete che alla luce di questo cambia anche il senso del virgolettato? Jenkins non ragiona affatto per milieux, ma bacchetta chi, magari in nome dell’arte vera, o per difendere il proprio ruolo di mediatori, o perché crede in teorie post-francofortesi sulla malvagità della cultura di massa, o per semplice snobismo (e dai, non ditemi che queste cose non ci sono perché anche in Italia il dibattito ufficiale sulla cultura è *dominato* da queste spinte), tarda a riconoscere i tratti positivi e anche potenzialmente emancipativi di questa nuova *partecipazione*.
    Tratti negativi ce ne sono e anche Jenkins li evidenzia, ma se non la si smette di considerare i videogame *in blocco* roba per cretini, se non la si smette di sparare giudizi su cose che ci si rifiuta di conoscere, non si va da nessuna parte. Quindi Jenkins sta spronando gli artisti che credono la loro opera superiore a quelle della cultura di massa a sporgersi dal parapetto e dare un’occhiata, ché magari gli viene voglia di mescolarsi ai passanti.
    ***
    @ Volta. ça va sans dire, io non nego che la musica contemporanea abbia offerto spunti anche ai jazzmen, non sono un “differenzialista identitario”, non credo che i neri abbiano la loro cultura e i bianchi un’altra. Certamente dodecafonia, musica concreta (Pierre Henry) ed esplorazione delle dissonanze (ad esempio per il tramite di Copland) hanno ispirato la musica afroamericana (ma è vero anche il contrario, si parla troppo poco dell’influenza del jazz sulla musica colta novecentesca!), però – come anche fa notare Cecil Taylor – ciò avvenne più in termini di *attitudine* al superamento (e anche di legittimazione, da qui il discorso sul double-speak) che di soluzioni formali realmente portate da un contesto all’altro. Per questo dico che ascoltando il free jazz non ci sento Stockhausen, al di là delle parole. Poi puoi dirmi che “Skies of America” è fortemente influenzata dalla musica colta europea, ma a quel punto io ribatto che “Skies of America” non è free jazz, ma una composizione sinfonica orchestrale. Il fatto di essere composta da Ornette Coleman negli anni Sessanta non fa di qualunque musica un esempio di free jazz (espressione che, ricordo, i musicisti in questione presero a odiare, e che noi utilizziamo principalmente per capirci).
    [Tieni conto che io non sono ostile a Stockhausen: l’ho pure visto dal vivo eseguire prima “Gesang der Juenglinge” (ma non ha fatto un grande sforzo!) e poi dirigere un estratto da “Donnerstag aus Licht”.]
    In realtà quasi tutto ciò che c’è nel free jazz è rintracciabile nella musica afroamericana precedente, senza andarlo a cercare altrove. Il modo di suonare il piano di Cecil Taylor è percussivo, tratta ciascun tasto come un tamburo, e questo è non soltanto nella tradizione afroamericana, ma viene direttamente dall’Africa nera. I suoni aspri e ferini di trombe e sax derivano dallo “honking” del Rhtythm&Blues. L’esplorazione timbrica e l’imitazione della voce umana da parte degli strumenti: tratto tipico del modo di suonare afroamericano. Le dissonanze: tutta la musica afroamericana è irriconducibile alla scala temperata e suona(va) quindi come dissonante agli orecchi dei bianchi. Dentro Albert Ayler ci senti la New Orleans anni venti. Il Coltrane del periodo free immetteva nella propria musica elementi dell’intera tradizione musicale afro-atlantica (si pensi al brano afro-brasiliano “Ogunde”, nel live all’Olatunji). E via così. Tant’è che il free viene visto da studiosi come Kofsky o come lo stesso Amiri Baraka come un prepotente ritorno alle radici nere, non come un momento di corteggiamento nei confronti dell’avanguardia musicale europea.
    L’improvvisazione radicale diventa altro quando si sposta armi e bagagli in Europa. Ma questa è un’altra storia.

  19. Spettatrice, nessuna offesa. Sarei un autentico mentecatto e dimostrerei di aver grattato anche il fondo di barile della retorica di ultima se fingessi di sentirmi offeso per la tua innocente (e bonaria) battuta su nonne e bimbe.

  20. per mè è la puzza di furbizia il discriminante tra moda e avanguardia.E’ comunque un peccato non essere spongiformi abbastanza da contenere tutto il creato

  21. @ Volta, ovviamente la mozione d’ordine non era rivolta a te, ché quelle ricerche già le conosci. Semplicemente, rileggendo questa discussione l’ho trovata informe e largamente basata su qui pro quo e contrapposizioni in realtà inesistenti. Imbecilli a parte, mi sembra che i pareri espressi siano tutti sfumature della medesima posizione!
    P.S. Non mi dire che i mileux non esistono, suvvia, questo è wishful thinking scambiato per realtà 🙂

  22. Be’, in effetti nei miei interventi c’è forse una piccola dose di “wishful thinking”… Ma il mio presupposto in realtà è semplice: attenzione, noi tutti che crediamo che nella pop culture (ehm…) “alberghi il futuro”, a non sottostimare quei percorsi che, all’apparenza, pop non sono. E anzi, dicevo di più: guardate che anche quei percorsi che all’apparenza pop non sono, in realtà sono popular nel senso più visionario – e spesso efficace – del termine. Secondo me bisogna rivedere non tanto la categoria “avanguardia”, quanto proprio quella “pop” – fermo restando che alle categorie non credo (e tantomeno alle dicotomie). Lo so che può sembrare una questione di fino, o da fissati, ma io credo che finché non capiremo che (ritiro fuori il solito esempio) “l’astruso pezzo di elettronica isolazionista” è anch’esso diventato un’espressione pop, finiremo per ridurre i nostri ragionamenti entro steccati superati dai tempi. E te lo dico per esperienza: c’è gente che – per dire – ascolta un William Basinski e dice “ah, che palle ‘st’avanguardia”… e tu vagli a spiegare che Basinski se lo sentono i pischelli, che lui fa le cose con Antony ecc ecc ecc…
    P.S. Sul free: d’accordo su tutta la linea, figurati. Anche se forse sei troppo generoso coi free jazzer: molti di loro, quando descrivevano il loro lavoro, tiravano fuori citazioni e teorie da far rimpiangere un Pierre Boulez qualsiasi. E io, quando sento Pierre Boulez, mi viene voglia di darmi agli acquarelli, diobòn…

  23. Sacrosanto. Su quel che dici non c’è contrapposizione, volenti o nolenti, consapevoli o ignari, ci muoviamo tutti nel popular. Anche per via della “coda lunga” della produzione culturale. Riporto qui un vecchio commento lipperaturico, da una discussione sullo stessa tema di qualche mese fa:

    Oggi il “popular” non si identifica col mainstream: come dicevo prima, è un proliferare di nicchie. Alcune molto grandi, altre molto piccole. Non è un’immediata dimensione di massa a caratterizzare il popolare: sono le modalità produttive e di messa in circolazione, è l’approccio non pregiudiziale né snob ai materiali da utilizzare, è la dinamica con cui si crea una comunità intorno all’opera e alla sua fruizione, è la quantità di “rimbalzi” che l’opera ha nelle reti e nell’immaginario ecc.
    Forse non è chiaro cosa significhi “pop”, contrazione di “popular”.
    “Popular” non è il contrario di “colto”. Frank Zappa, per fare uno solo tra milioni di nomi possibili, è “popular music” (per quanto di nicchia), e si tratta di uno dei musicisti più “colti” del Novecento.
    “Popular” è la cultura che si forma e riforma nell’immaginario creato dalla perdita dell’aura di cui parlava Benjamin. E’ la cultura nata dalla democratizzazione dell’accesso a “materiale letterario, illustrativo e sonoro” tecnicamente riproducibile che Huxley stigmatizzava. Libri, fumetti, cinema, musica, giornalismo, fotografia, televisione, moda, software, videogiochi e chi più ne ha più ne metta. Queste non sono affatto espressioni “incolte”. Anzi, deve gestire molta più informazione e “cultura” chi programma un videogioco di quanta ne serva per suonare un notturno di Chopin.
    Capisco da dove trae origine l’equivoco: “popular” = “popolare” nel senso di folk. Ma la dimensione “popular” non coincide con quella “folk” preindustriale, e comunque nemmeno il folk era “incolto”. Aveva, molto semplicemente, una cultura diversa, riottosa alle classificazioni (scala temperata semitonale ecc.) tipiche della cultura che si era (ideologicamente) autodefinita “colta” (cioè la cultura delle classi alte europee). Siccome sul pentagramma non erano visualizzati i quarti di tono, i musicisti “colti” dicevano che i cantanti folk erano “stonati”, cioè un’élite dalla mentalità ristretta rovesciava la propria ignoranza e limitatezza in autorappresentazione di superiorità.
    Un tempo la “popular culture” era chiamata “cultura di massa”. Oggi che il mainstream è in via di frammentazione e la rete sta rivoluzionando i modelli produttivi – estendendo l’area del do-it-yourself e trasformando tutti in “prosumers” (consumatori che sono a loro volta produttori) – è un’espressione che ha ancora senso, ma meno di un tempo.

  24. Volta e Wu MIng 1, ringrazio voi e chi prosegue il discorso e vi seguirò con interesse anche se doveste ignorare questo mio nuovo tentativo. Apprezzo voi e Jenkins e mi interessano gli argomenti in discussione. Viva la popular cultur e viva l’avanguardia.
    Mi sento in sintonia con l’analisi di Volta perchè almeno dagli anni ’70 scambi, incroci, ibridazioni tra avanguardia e popular mi sembrano talmente naturali e innumerevoli da divenire quasi non catalogabili. Calvesi ha scritto “Avanguardia di massa” nel ’78.
    Sottoscrivo in pieno tre brani sottostanti, e poi ritento la domanda che è retorica ma sono realmente interessato e comunque pronto a rivedere la mia posizione. A dalla risposta di Wu Ming 1 a Marcello (Volta?) su questo blog del 4 ottobre; B dall’introduzione all’intervista di Jenkins a Wu Ming, a firma Wu Ming 1 (che ho letto su Carmilla il 10 ottobre); C da un intervento di Jenkins nel suo blog in cui parla dei Wu Ming edi Luther Blissett (Carmilla 10 ottobre):

    A – Ultima osservazione nata da un tuo spunto: davvero credi che oggi esiste ancora una distinzione netta tra avanguardia e popolare? Il fenomeno di oggi, se mai, è proprio il fatto che strumenti e linguaggi che un tempo erano monopolio dell’avanguardia (collage, cut-up, detournement etc.) sono patrimonio potenziale di tantissime persone, grazie alla democratizzazione dell’accesso a tecnologie un tempo distanti dall’esperienza quotidiana. Wu Ming 1.
    B – La cosa che più lo incuriosiva [incuriosiva Jenkins] della nostra- e non soltanto nostra- prassi era il superamento della barriera che separa “avanguardia” e “popolare”, cosa che nella fan culture americana si verifica più di rado. Wu Ming 1.
    —-
    C – Il successivo scambio di mail su temi come la fan fiction e gli ARG [Alternative Reality Games, NdR] mi ha intrigato: questo movimento europeo d’avanguardia è anche pienamente dentro la popular culture. Henry Jenkins III.
    La domanda, personale in un blog tra avanguardia e distale, è se Volta e chi fosse interessato ad occuparsene, ritiene Wu Ming 1 rappresentante di un movimento d’avanguardia. Grazie comunque.
    lucio

  25. La domanda è rivolta a Volta (scusate il bisticcio) quindi io non rispondo, anche perché – sinceramente – non ho risposte.
    Prendo spunto da quel che scrive Lucio e propongo un esercizio.
    Facciamo giocare l’espressione “avanguardia di massa” con le seguenti, e vediamo che succede:
    “popolare di nicchia”
    “media personali”
    “fine dell’underground”
    “fine del mainstream”

  26. Lucio, la tua domanda è capziosa…
    Rispondo “furbescamente”: se prendiamo per esempio Luther Blisset come tappa ultima (o non ultima) di un percorso che parte da Marinetti, arriva al neoismo, attraversa Fluxus e la mail art (giusto per citare certa nota pubblicistica molto in auge nei ’90), allora ecco che, magicamente, il curriculum avanguardista di WM1 diventa dato di fatto 🙂
    A parte gli scherzi: scusa se ti non rispondo in maniera esaustiva, ma la tua domanda presuppone un ragionamento sul progetto WM nel suo complesso. Di ragionamenti “attorno a WM” praticamente ne spuntano fuori tutti i giorni (l’ultimo, che personalemente ho trovato esilarante, su Satisfaction), e spesso (quasi sempre) vanno a finire in vacca perché… beh, limitiamoci a dire “non per colpa dei WM”, tiè.
    Ma a parte tutto:
    Le definizioni proposte da WM1 sono pertinenti: io ho dei dubbi sulla fine del mainstream, ho dei dubbi sulla fine dell’underground, mentre mi pare innegabile il dilagare del “popolare di nicchia”. Questi sono discorsi centrali. La posizione di WM è chiara da tempo; i miei dubbi al momento me li tengo, ma non sarebbe male ragionare più approfonditamente su questa traccia.
    P.S.: che “i linguaggi che un tempo erano monopolio dell’avanguardia sono patrimonio potenziale di tantissime persone” è un dato incontrovertibile. Che però – attenzione – non coinvolge solo le innovazioni storiche della fu avanguardia (cut up ecc). Non dimentichiamoci che tanti dei linguaggi in uso nella Rete, furono sperimentati per primi proprio da alcune entità “di ricerca”. Su due piedi mi viene in mente il fenomeno degli streaming happenings, tanto per dirne una.
    Insomma, il mio mesto suggerimento è: d’accordissimo sul concentrare le nostre attenzioni su playstation e Lost, ma occhio pure a non perdere d’occhio quello che si agita nei sottoboschi (sigh) “avant”… Da lì, magari, si può ricavare qualche anticipazione su quello che verrà. Non sempre, ma a volte sì. Mtv, per esempio, è attentissima a questi circuiti… Perché non noi, allora? (Ma noi chi? boh) Se no il rischio è quello di aspettare che Mtv tiri fuori il prossimo spottino mirabolante (fatto dagli stessi che due anni prima presentavano il loro lavoro in qualche deprimente galleria per esperti), e noi tutti a dire “eh, però Mtv quanto è all’avanguardia”… Insomma, non notate un certo strabismo in questo? Come un’alterazione prospettica?

  27. Volta forse t’è andata bene, non so se WM è stanco o sta invecchiando ma non t’ha ancora strapazzato per aver scritto Blissett senza la doppia t. Ok, giocando con l’ espressioni: “media personali” dovrebbe rappresentare lo strumento che permette all’ “avanguardia di massa” di realizzare/fruire una cultura “popolare di nicchia” e mi permetto di aggiungere un altro ossimoro “il laboratorio in piazza” dal titolo di un articolo di Eco per l’Espresso del 10 aprile ’77 in cui riferendosi al Movimento scriveva “Ora forse ci siamo: le nuove generazioni parlano e vivono nella loro pratica quotidiana il linguaggio (ovvero la molteplicità dei linguaggi) dell’avanguardia. Tutti insieme.” .
    Le espressioni finali, e non solo queste ma un po’ tutte, la fine della storia, la fine dell’Arte, di Dio, del Comunismo, e del fascismo purtroppo, mi convincono sempre meno e mi sembra che anche chi ne parla intenda trasformazione e non fine.

  28. @ Volta, il tuo invito è giusto, però al momento mi sembra altrettanto giusto – anche solo per compensare uno squilibrio – dedicare maggiore attenzione a media, linguaggi, soggetti e contesti per i quali si registrano – soprattutto in Italia – assenza di discorso critico, carenza di strumenti interpretativi, pregiudizi a valanga e – sempre più spesso – demonizzazione da parte dell’intellighenzia.
    Non confondiamo le discussioni “illuminate” che avvengono in nicchie come questa con i discorsi che si fanno fuori. Pensiamo all’ignoranza arrogante e censoria nei confronti dei videogames, pensiamo alle campagne d’allarme scatenate dal videomaking diffuso (a sentire gli opinionisti, il problema non è il bullismo violento, bensì l’esistenza del medium che ci ha permesso di scoprire episodi di vessazione e punire i colpevoli!). La nostra classe intellettuale (perlomeno i settori che hanno più accesso ai media) si crogiola nell’insipienza e non comprende nulla dei fenomeni che pure avrebbe sotto gli occhi.
    Ecco perché si cerca di produrre, a mo’ di antidoto, un discorso intelligente sul “pop” odierno e le trasformazioni culturali e cognitive di cui è al contempo causa e conseguenza, basandosi anche sugli ultimi saggi di Jenkins, di Steven Johnson, di Chris Anderson, di Howard Rheingold, cioè lo stato dell’arte del ragionamento sulla produzione (e diffusione) della cultura nell’epoca della rete.
    Ho proposto di far giocare l’espressione “avanguardia di massa” e “popolare di nicchia” con “fine dell’underground” e “fine del mainstream” non perché io creda che oggi non esistano più mainstream e underground, ma perché se la cultura oggi è proliferazione di nicchie disposte “orizzontalmente”, l’una accanto all’altra, lungo una direttrice potenzialmente infinita, mi chiedo dove vada a finire la vecchia rappresentazione “verticale”, a strati, implicata dall’espressione “cultura sotterranea”. In ogni caso, non esiste più “un” underground. Ed è anche difficile identificare una cultura “alternativa”, con tutto l’immaginario para-carbonaro che tale definizione si portava appresso, nel momento in cui il “catalogo infinito” della rete rende potenzialmente raggiungibile e avvicinabile ogni forma di produzione artistica e culturale, anche la più estrema.
    E’ poi un dato di fatto che oggi il mainstream si sia ridimensionato: i dischi di successo vendono venti volte meno di vent’anni fa, i film in sala sono visti da un minor numero di spettatori etc. E’ possibile che il mainstream sia destinato a divenire, semplicemente, una nicchia più grande delle altre.
    Su Blissett: boh. Di certo Fluxus (che è la mia avanguardia preferita, se si può dire una cosa del genere: considero George Maciunas, Henry Flynt, George Brecht e compagnia molto più importanti del sopravvalutato Debord) ha influenzato Blissett, ma lo ha fatto per il tramite dell’arte postale, era nata dall’avanguardia ma nel corso degli anni si era talmente estesa e democratizzata da divenire cultura folk. Blissett ha ereditato precisamente quel tipo di orizzontalità e abbattimento delle barriere, quindi l’eredità meno “avanguardistica” dell’avanguardia.

  29. Wu MIng 1 mi hai, quasi, stregato anche stavolta, e per seguire meglio il “ragionamento sulla produzione (e diffusione) della cultura nell’epoca della rete” leggerò il saggio di Jenkins.

  30. Ok WM1, sono d’accordo con te, ma non mi dici niente che ho scritto Blisset con una t sola? Mancava che lo pronunciassi “blissè”, tiè.
    P.S. Ooooh, Henry Flynt, che bello sentirlo citare ogni tanto!… Una delle mie figure preferite, un uomo a cui istintivamente “voglio bene”, e poi i suoi dischi di “hillibilly minimalista”, le sue cassettine autoprodotte… Tra l’altro recentemente è tornato di gran moda, presso certe fette “weird/folk/noise/neobrutaliste”.

  31. l’unica prova che sia mai esistito un connubio tra avanguardie e popular lo riscontrai dalla lettura dell’Ulisse quando in quel famoso 14 giugno in quella magnifica taverna lurida imprecisati alcolici scioglievano menti e lingue per favorire una discussione su storia,arte classica e in divenire che pareva uscita da un’utopia del tutto estranea a una realtà dove lo snobismo e il campanile mi pare prevalgano quasi sempre

  32. ma poi,quasi per incanto,mi viene da contraddirmi e affermare che si,certo,la tanto vituperata pubblicità è sempre stata la motrice delle vanguardie e dei nuovi generi(ok,ora potete farmi la puntura)

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