Laputa, l’isola volante degli scienziati pazzi, viene descritta ne I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift con una base d’adamante, che può essere manovrata dai suoi abitanti utilizzando un gigantesco magnete e abitata da eruditi nella tecnologia, nell’astronomia, nella matematica, ma di scarsissimo senso pratico. Swift attribuisce agli astronomi di Laputa la scoperta di due lune di Marte in un tempo in cui i due satelliti Deimos e Fobos non erano ancora noti: ma questa non è che una delle curvature delle cose cui non è possibile dare spiegazione. Invece, nel film Il dottor Stranamore (1963) di Stanley Kubrick, l’immaginaria base missilistica sovietica di Laputa viene indicata come obiettivo di attacco primario per il B52 fatale. Nel film Laputa: castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki, il nome dell’isola di Swift viene attribuito a una misteriosa isola volante, quasi in tutto identica.
Corsi. Ricorsi. La figura dello scienziato pazzo, quello che desidera varcare i limiti, e infine sciaguratamente li varca con gravi conseguenze, appartiene alla storia della letteratura prima che si chiamasse tale: c’era il vecchio peccatuccio di Hybris in cui era facile incorrere, ed è facile ancora, che punisce chi quel limite varca, e così via.
Ora, ci sembrava di esserci assestati su una felice o quanto meno dignitosa via mediana, dove alla scienza veniva dato il giusto valore e dove i saperi, per così dire, umanistici non fossero in contrapposizione con la medesima, e dove infine non ci si scannasse come Naphta e Settembrini nella Montagna incantata (il duello finisce comunque male per tutti e due, in modi non simili). Ci sembrava in effetti questo, se si escludono i rigurgiti anti-scientifici di alcune parti della popolazione: parte e non tutta, vorrei ricordare.
In questi giorni la nostra fiducia nella scienza è invece illimitata: nessuno si sognerebbe di piazzare un virologo su un’isola volante, tutti pendiamo dalle labbra di un uomo o di una donna che sanno, e che possono di volta in volta confortarci, o spaventarci, comunque informarci. Mai mettiamo in dubbio quel che dicono, da qualunque tribuna parlino, e probabilmente è giusto e sano così. Ma.
Perdonerete se insinuo un dubbio: evidentemente, e lo sottolineo subito e lo metto anche in grassetto, non sulla scienza, mai sulla scienza. Bensì su una dinamica che mi fa riflettere, perché in questi giorni mi è capitato di imbattermi in scritti di persone che fanno un mestiere scientifico, e in una discreta casistica l’atteggiamento era “zitti voi, cosa volete saperne?”. Discreta e non maggioritaria, la casistica: quel che mi fa un poco paura è il modo in cui annuiamo, e diciamo beh, certo, se questa persona ha studiato, che so, biologia, ma comunque basta una laurea in medicina, ne sa più di me, che non capisco niente, e figurarsi, che so, di un Agamben o di un filosofo qualunque, perché comunque un filosofo non trova il vaccino contro il Coronavirus, e lo scienziato sì, e dunque lo scienziato può permettersi di rampognarci e anche di sbatterci in foto su twitter se per caso scendiamo sotto casa, e noi siam contenti.
Mi chiedevo come scrivere tutto questo senza essere fraintesa, finché un amico caro non mi ha inviato quel che ha scritto Carlo Rovelli, che è uno scienziato (ma anche un umanista, ammesso che la divisione abbia senso) sul Corriere della Sera. E il mio antico amore per Rovelli è diventato ancor più grande.
“La realtà forse più difficile da accettare è che quello che sta succedendo non è colpa di nessuno. Non è come la guerra, scatenata dalla follia di noi umani. Certo, ci sono stati errori, negligenze. Ne stiamo commettendo probabilmente ancora, ce ne renderemo conto fra un po’. Ma prendere decisioni in situazioni inedite è difficile: facciamo quello che possiamo, a tentoni. La prossima volta ci prepareremo meglio, faremo meglio; ascolteremo di più la scienza quando lancia allarmi preventivi. La tentazione è di dare sempre colpe a qualcuno: ai politici che dovevano svegliarsi prima, alla Cina che doveva dare l’allarme prima, all’impreparazione nonostante gli avvertimenti, o quant’altro. Ma la realtà è che questo disastro non ha colpevoli. Abbiamo imparato a proteggerci da tante cose, ma siamo nelle mani della natura, che a volte ci riempie di regali, a volte ci maltratta brutalmente, con sovrana indifferenza.
È rassicurante vedere come governi e pubblico, ora, nel momento del pericolo, ascoltino la scienza. La conoscenza è il miglior strumento che abbiamo. Ci permette di evitare errori gravi, come quelli che commettevamo nel medioevo quando per scongiurare la peste facevamo processioni, col risultato di infettare tutti. Ma mai come adesso vediamo che la scienza non sa, ovviamente, risolvere tutti i problemi. Il nostro splendido sapere si arrende davanti a una cosa che è poco più di un granello di polvere. La scienza è la nostra forza, l’utensile migliore che abbiamo trovato, teniamocela cara, ma restiamo fragili, in una natura indifferente e immensamente più grande e più forte di noi”.
Restiamo fragili, tutti quanti, scienziati e filosofi e noi sciocchi umanisti (ammesso che, eccetera). Cerchiamo di non dimenticarlo, cerchiamo di mantenere la stessa tenerezza gli uni nei confronti degli altri, che piccoli siamo, e questo dovremmo impararlo a questo punto, abbandonando i piedistalli, che sopravvivono sempre a chi ci sale sopra.
Concordo con quel che dice Rovelli, ma non dimenticherei le lettere di Paolo Rumiz e di Annie Ernaux
Mi sembra che tocchino altri piani.
A me pare anche chiaro che si debba sempre più parlare di “scienze” al plurale, visto che molte sono le voci che si esprimono, talvolta in contraddizione. E auspico che le “scienze” possano approfittare come le “lettere” di questa situazione per riflettere su sé stesse. Su come migliorare, su come affrontare i propri limiti.