Ho riflettuto parecchio, in questi giorni, su L’ubicazione del bene di Giorgio Falco. Per chi non lo conoscesse, è un libro di racconti, collegati l’uno all’altro dal medesimo sfondo. Ovvero, Cortesforza, uno dei quartieri residenziali che spuntano alle periferie delle metropoli promettendo idromassaggio nei bagni e la possibilità di vivere in un piccolo mondo perfetto, separato da tutto il resto ma assai ben collegato a quel “resto” che rimane imprescindibile.
Nei racconti, si parla – apparentemente- di misere esistenze: uomini che sognano improbabili successi nel lavoro e donne che sognano la maternità. E’ attraverso queste piccolissime vite che passa non la riflessione, ma la registrazione di cosa siano oggi Bene e Male. E ci viene mostrata quella che è una disperazione senza quarti di nobilità: il libro, in breve, affaccia sul vicolo cieco che gli esseri umani imboccano quando i loro sogni si fanno piccoli.
Non solo giusto, ma appropriato al tempo che in questo momento, nel nostro paese, viviamo.
Ma nel momento in cui riconosco la pertinenza con il reale, mi viene un dubbio. Mi aiuta a formularlo, inconsapevolmente, Giorgio Vasta, con un bell’intervento sulla pagina culturale di Repubblica di oggi. Nel quale dice fra l’altro:
Attraversando gli anni Settanta Ottanta e Novanta, siamo cresciuti nella percezione non semplicemente della fine del nostro presente quanto del presente come fine, obiettivo e conclusione, il tempo nel quale tutto si genera e contro cui tutto si arresta. Diversamente da quanto è accaduto agli scrittori del dopoguerra, quando la meditazione sul presente si connetteva in maniera imprescindibile a quella sul passato e a un impulso verso il futuro, la coscienza acuta del presente ha determinato in noi un´incapacità prospettica. Scorniciati dalla storia, in caduta libera dentro un tempo immobile, abbiamo dovuto trasformare il limite in vantaggio, l´incapacità in risorsa, facendo della nostra esitazione – intesa come il modo in cui si reagisce all´incertezza – la prospettiva dalla quale osservare il mondo.
Parole lucide e condivisibili. Il romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale (meritatamente candidato allo Strega) mi aveva suscitato all’epoca sensazioni simili a quelle che mi ha offerto Falco. Una prospettiva bloccata che porta ad una precisa scelta di sguardo: non il grande, ma il grande nell’infinitamente piccolo.
Macroscrittura, appunto.
Il piccolo gesto diventa grandissimo. Il dettaglio diventa il centro della narrazione. Diventa la chiave per raccontare l’universo. E, va da sè, diventa terreno per sperimentare virtuosismi linguistici di grande raffinatezza.
Bene. C’è un però, e ho esitato a lungo prima di porlo sul tappeto. So di rischiare parecchio, facendolo, e di chiudermi con le mie mani nella definizione di fanatica. Provo a farlo comunque.
Per dirla fuori dai denti, trovo atroce la visione del femminile esposta nei racconti. Ho detestato le donne di Falco. Sono tutte uguali. Tutte (quasi tutte, via) petulanti, castranti, invidiose, con la maternità come unica possibilità di esistenza e il matrimonio come traguardo. Certo, anche gli uomini sono spaventosi: ma hanno qualche ventaglio di possibilità in più dove esprimere la loro pochezza. Le donne, qui, aiutano i compagni a scendere nel baratro più in fretta.
Bisogna scegliere questo punto di osservazione quando si parla di un libro? So che la risposta, fra i miei amici e affini che di libri si occupano, sarà no.Forse hanno ragione. Ma forse la questione di genere/i mi permette di esprimere un secondo, piccolo dubbio.
Perchè quando i personaggi diventano stereo(tipi) c’è qualcosa che a me non torna. Mi lascio trascinare dalla bravura di Falco, indubbia e degna di assoluta ammirazione, nel delineare un universo privo di speranza e destinato non all’apocalisse sfarzosa e drammatica che si immaginava, ma a consumarsi in sordina, a incenerirsi un po’ alla volta, grazie alla mancanza di etica e di utopia e di dignità degli abitanti di Cortesforza.
Eppure vorrei che almeno qualcuno dei suoi uomini e delle sue donne bucasse la pagina. Vorrei sentirlo vivo, e non limitarmi a raccogliere il suo messaggio. Tutto qui.
Ps. Sottolineo che su vari blog troverete recensioni assai più accurate della mia e decisamente più meritevoli: quella di Demetrio Paolin, di Giuseppe Genna, di Ade Zeno, e tante altre che sarà facile trovare.
Il problema è che la tua recensione la capisco (e la condivido, ma ciò è del tutto inessenziale), quella di Giuseppe Genna (scrittore che pure mi piace tantissimo; anzi, forse è il mio scrittore italiano preferito), come spesso capita, tanto più al crescere del suo entusiasmo per un libro, no.
Questo tuo post me lo sento moltissimo in sintonia Loredana – per quel che può valere. Io litigo spesso con questa sensazione che denunci quando leggo, e quando parlo con molti miei illuminati amici sinistri colti e ti giuro tantissimo in buona fede, magari legittimamente scornati per la loro buona fede ecco. A essere onesta, litigo pure con me stessa quando cedo alla giorgiofalchitudine – oh tempora oh mores! – tipo er giorno dopo le elezioni.
Da una parte è tutto facilmente molto vero. Anche per noantri che non scegliamo la vasca con l’idromassaggio ma il sacro conforto delle lettere. E’ una sensazione questa della fine come vantaggio, l’unico rimasto, molto europea, e riguarda anche chi scrive, chi produce cultura, e la difficoltà di investire in progetti nuovi. In Italia è soffocante.
Ma mi chiedo, nell’appioppare questa concentrazione sul piccolo, sul se, sul portiere e il portierato, solo a certe donne e certi uomini, non c’è qualcosa di amorevolmente classista? Ma siamo proprio sicuri che sono tutti così? O Giorgio Falco si è perso la capacità di farsi stupire dalla narrazione altrui, di provenienza insospettata? Ho pensato a due miei ex compagni di scuola, votanti destra che abitano in quartiere analogo con passioni analoghe. Due ragazzi giovani che non ho mai stimato troppo. Un giorno a lei arriva un tumore al cervello. La operano guarisce, ma le rimane una brutta epilessia. Lo lascia perchè non vuole la sua pietà. E lui la rincorre per due anni e la ritrova. E una sera a un matrimonio li ritrovo insieme, e lui mi racconta. Mi racconta di un amore alto, di un’etica raggiunta. Scopro due bellissime personalità letterarie due grandi dignità ecco. Mi sono rimproverata.
–
Sulla questione del genere. Mah faccio un’osservazione banale. Non si possono mantenere due piani critici diversi? Uno estetico e letterario e uno politico e socioculturale? Siamo tutti abbastanza grandini per ammettere che Celine era un grande scrittore, ma anche per tollerare il fatto che almeno io l’avrei mandato gentilmente ar gabbio. Possiamo interpretare e relazionarci agli oggetti culturali sempre su questi due piani, mantenendo la lucidità. Non di rado lo stereotipo sociale scivola nell’idiozia e magari il prodotto in quanto a complessità ne risente. Ma in altri casi no. A te sta sulli zebedei ma per esempio Houellebeque, di cui non bisognerebbe sottovalutare la bellezza per niente sessista dei personaggi femminili, a lui piacciono le femmine intelligenti ancorchè tromberecce – è uno che costringe a tenere i piani separati e a farli incontreare con particolare cautela.
Pardon la lungaggine.
Zaub, è che i piani si mischiano. Quando vedo rappresentato non un personaggio, come in Houellebecq, ma un’idea del femminile, temo che il discorso non sia sociologico bensì, anche, letterario. O, se preferisci, culturale in senso ampio.
Mah, quando ho letto: “uomini che sognano improbabili successi nel lavoro e donne che sognano la maternità” mi è sorto un pensiero molto simile al tuo: possibile che tutti i personaggi femminili di un libro debbano sognare la maternità? Io sono donna, non la sogno, e mi guardano male quando lo dico ad alta voce.
Poi, dopo aver letto il resto del tuo intervento, ho deciso di lasciar stare, di non leggerlo.
Però Vale, leggilo invece, se puoi. Confrontare le idee è sempre importante.
Zauberei ok! Riflessione molto interessante. Separare la letteratura dalla politica, o meglio dalla ideologia tenuta come un santino nel portafoglio. E’ vero che la letteratura può inglobare aspetti politici, ma da questi non viene scalfita, ne raggiunta e confusa se alta. Appropriati gli esempi fatti di Celine e Houellebecq. Valérie nella “Piattaforma” di quest’ultimo non è una donna asservita al soggetto. Partecipa nelle vicende del racconto con un piglio ed una creatività di gran lunga maggiore dell’uomo. Non mi pare che possa essere ingabbiata come tipo nel modellaccio a cui ha fatto riferimento la Lipperini.
Cèline ar gabbio! Houellebecq sugli scudi!! Zaube ti tolgo il saluto!!!
(Peccato, c’eravamo tanto amati…)
Nietzsche, Shopenhauer e tanti altri grandi filosofi ci hanno descritte come “naturalmente” votate alla maternità, mentre agli uomini spetterebbe il pensiero…eppure, restano grandi filosofi. Non proprio filosofi in queste affermazioni insopportabili, ma forse è giusto raccogliere l’invito a scindere i piani di giudizio.
Ciò non toglie irritazione e fastidio.
Nautilus: amor vincit omnia:) troveremo il modo di tornare insieme!
Sulla questione dei piani.
Io credo che in verità la casistica è ampia, e le possibilità sono molte.
Concordo con Loredana quando dice, posso usare un testo letterario per leggerlo in una dimensione culturale, e questa è manovra che può toccare Le Particelle Elementari come Like a Virgin. E infatti se fa: CUltural Studies, e io ci vado pazza. Poi c’è la questione del giudizio estetico e letterario, e Loredana dice che qui i piani si mischiano. Ecco, io qui avverto una variazione individuale da lettore a lettore, e da autore a autore. Non so se riesco a dire quello che voglio, ecco. Boh Ma diciamo. Con le pippe è facile. Con le pippe la stereotipia salta all’occhio, e l’ideologia spicciola la mancanza di complessità torna sulla carta. Con gli scrittori forti, forti dell’elaborazione di un orizzonte di senso, l’operazione è più dura. E vi precipitano anche altre cose, compreso il cosa volgiamo leggere noi in un libro, cosa crediamo di trovarci, cosa c’è effettivamente, e una specie di decisione anteriore in termini di buona e cattiva fede. Io persino, non riesco a percepire Ullbèc (Mi rassegno: non imparerò mai come se scrive) come il cattivaccio che molti detestano. Essere d’accordo con Dinosauro un po’ mi angoscia:) ma anche io ho pensato a Valerie di Piattaforma, per non parlare dei due bellissimi e tragici personaggi femminili delle Particelle Elementari.
E poi c’è anche un altro problema.
E’ curioso come per noi tende al clichet ciò che non è affine al nostro stile di vita. Per cui si dice che un certo scrittore usa degli stereotipi nella misura in cui ha dei valori che ci sono lontani. Ma mi ricorda tanto quelli che mi dicono
“lei FA tanto l’intellettuale”
“lei FA quella di sinistra”
Ecco, l’uso di quel “fa”. Di solito so’ beceri e de destra. Ma la cosa impo è che proprio non ci credono che una possa essere appassionata di certe cose, e credere in certe idee. Eh perchè è a loro lontana questa cosa.
Spero di non essermi troppo intortata.
“Eppure vorrei che almeno qualcuno dei suoi uomini e delle sue donne bucasse la pagina. Vorrei sentirlo vivo, e non limitarmi a raccogliere il suo messaggio. Tutto qui”.
Ho questo problema con larga parte della letteratura italiana under 40 anch’io. Pausa Caffè, il primo libro di Falco mi piacque moltissimo e questo nuovo non l’ho ancora letto. Mi piace molto anche Peppe Fiore. Però con le emozioni, la vita, la spontaneità, non abbiamo risolto. Sono scritture algide. Sono prodotti perfetti. Prodotti.
Però… pensate a Madame Bovary: invidiosa, velleitaria, mitomane, invidiosa, grandiosamente mediocre… eppure, chi negherebbe che è uno dei più importanti ritratti femminili mai usciti da un libro?
Non ho letto il libro di Falco.
Ma: se i suoi personaggi femminili sono bidimensionalmente mediocri, sono pienamente d’accordo con Loredana.
Se sono tridimensionalmente (n-dimensionalmente) mediocri, allora il tema del genere qui viene usato per castrare la letteratura.
Giordano Tedoldi: hai ragione.
Posso trovare alquanto buffa l’ipotesi di castrazione letteraria? E per quale motivo, poi?
E’ una letteratura schiacciata dall’ansia, sembra sudare freddo dalla pagina. Programmaticamente involuta, programmaticamente contorta e introversa. La narrazione, se c’è, scorre gelida come un ruscello di montagna tra aggregati di parole dal timbro immancabilmente cupo, tetro. Credo anche una cosa: che se David Foster Wallace temeva l’ironia, il problema non era l’ironia, ma la psicosi di David Foster Wallace. L’ironia è una forza vitale. Molti di questi autori “macrografici”, per riprendere la definizione di Lipperini, vogliono espungerla, censurarla, oppure rivoltarla. Ma l’ironia è più seria dei loro seri capovolgitori. In fondo l’ironico Socrate ebbe una fine tragica, e il tragico Nietzsche una fine comica (doppia ironia).
Il concetto di castrazione letteraria non l’ho ben capito nemmeno io. La mediocrità bi- n- dimensionale sempre mediocrità è, o sbaglio?
…veramente io credo che il più superficiale degli esseri umani non sia mai bidimensionale: ma interessante, complesso, fatto di doppi e tripli fondi pur nella sua idiozia. don Abbondio è un personaggio poliedrico, per come la vedo. E molto umano.
quindi, se si riesce a rendere anche la stupidità o la mediocrità in maniera umana, allora a mio parere si può fare grande letteratura, e obiettare che il libro in cui viene fatto è discutibile per questioni di genere sessuale, mi sembra appunto castrante.
E a me sembra di aver precisato che la mia osservazione non nasceva soltanto da una questione di genere. Semmai, la medesima era spunto per altro tipo di riflessione. Immaginavo anche, scrivendo il post, che di tutte le mie argomentazioni sarebbe stata evidenziata solo questa, però.
…veramente se tu che mi hai chiesto il motivo del mio post (che evidentemente non avevo fatto capire) e io ho solo cercato di rispondere.
la prossima volta, per non essere delusa dai nostri interventi, evidenzia le parti su cui vuoi che i lettori discutano.
Gino, capiamoci. Ho semplicemente detto che “castrazione letteraria” mi sembrava una definizione fuori di luogo, ad essere gentili, e che non stavo “usando” un tema (riprendo le tue parole) per pugnalare uno scrittore. Stavo ponendo sul piatto una questione INSIEME ad altre. Punto. Chiuso. Basta.
Ora va bene tutto ma almeno la lipperini ha letto il libro. Non credo nella sua analisi che trovo pretestuosa ma il libro lo ha letto.
Ecco dire prodotto, senza leggere, mi sa di un certo genere di invidia dalla quale alcuni scrittori di questi anni non riescono proprio a liberarsi. Troppa competizione. Sono troppi. Pochi lettori. Alcuni se ne stanno con posa da consumati disperati altri sono coloro che sanno tutto. Non è tra questi Giorgio Falco che ho sentito in un paio di occasioni, mi è parso un uomo onesto con gli altri e con se stesso. Basta ascoltarlo davvero e guardarlo. E’ uno che vive in conseguenza alla parola, un religioso forse, ricorda Trevisan anche se diverso. Uno che sta in disparte dalle parrocchie. Ecco, proprio prodotto Falco no. E’ uno degli scrittori consapevoli, insieme ad altri, che abbiamo in Italia. Forse non essere tra coloro che sono stati nominati da Vasta ha ferito qualcuno, ma suvvia se si parla solo di antidepressivi e filonazismo si è piuttosto convenzionali, no?
se c’è una maschilista vero qua, quello è Tedoldi!
“se David Foster Wallace temeva l’ironia, il problema non era l’ironia, ma la psicosi di David Foster Wallace”
Premessa semplicistica, conclusione arbitraria. Il monito sull’ironia di DFW era *giusto un filino* più complesso, e proprio lui è stato uno dei più bravi a usarla, questa forza vitale che tanti, troppi hanno usato senza criterio, a sproposito, come schermo o corazza caratteriale. In DFW l’uso (non l’abuso) dell’ironia va sempre insieme alla compassione, allo struggimento per le potenzialità tarpate di questo meraviglioso zòon politikon, per la ricchezza di legami sociali che potrebbero esserci e non ci sono. Avercene altri, di “psicotici” del genere. Gli ironisti volgari te li portano a carriolate, ammassi di corpi che strizzano l’occhio nell’ultimo spasmo. I dieffedoppiovù te li devi sudare, son tuberi preziosi nascosti nel terreno.
Caro Pinna, mi piace Giorgio Falco, e m’impegno a leggere il nuovo libro. Il libro di Giorgio Vasta, da persone che l’hanno letto e che stimo, mi è stato descritto come molto bello. Io non l’ho letto perché mi sono annoiato, ma sono pronto a dichiarare che annoiarsi non è una categoria critica. Quanto all’invidia: dico quello che penso, al netto di una fisiologica invidia che credo ci attraversi tutti in quanto uomini e non divinità omeriche. Questo, per fortuna, si può ancora fare. Wu Ming 1: ti prego, dammi un nome, un cognome, un codice fiscale. Comunque, Roberto Bui, DFW è uno scrittore geniale. Non credo che uno scrittore geniale sia necessariamente un maestro di vita, di morale, né credo che l’uso di DFW di compassione, struggimento e altre cose che citi sia sempre disgiunto da un pericolosa incrinatura narcisistica. E allora? Allora come scrittore ben venga la pericolosa incrinatura eccetera. Come maestro di vita e filosofo morale, se permetti, preferisco Socrate.
Gemma: ERO maschilista, ERO. Ora sono semplicemente filonazista e antidepressivo-dipendente.
Ragazzi, infine, un appello (forse è solo un problema mio): si può discutere senza questo piglio “ah invidioso!” “ah non hai capito un cazzo” “ah emarginato” ecc? Cioè, dai, che sappiamo farlo.
(E poi dicono che sono antipatico).
Una ulteriore – pant pant! – precisazione sull’attribuzione dell’etichetta di “prodotto”. Non intendo prodotto in quanto merce costruita dal mercato per adescare il consumatore nei suoi bisogni indotti bla bla e Marcuse che mette il gettone nella macchinetta della Coca Cola nell’università americana.
Intendo che sì, sono bravissimi, scrivono da Dio. Ma “un personaggio che buchi la pagina”, come diceva Lipperini? Cioè, l’illusione che quella vita NARRATA possa esistere in un altrove ILLUSORIO/MITICO? Zero. Sono personaggi-funzione, sostenuti da una lingua algoritmica. Tutto molto bello, poco divertimento, molta cupezza.
Mi piace una letteratura un po’ più puttana.
Però, oh, sono BRAVI. Non fraintendete.
Ehi, stasera faccio più gaffe del Berlusca. Per poco si scatena un casino d’origine sessista e me ne esco con “letteratura un po’ più puttana”.
Riformulo e faccio ammenda: letteratura un po’ più oscena.
Un po’ più.
Quoto Zauberei: “E’ curioso come per noi tende al clichet ciò che non è affine al nostro stile di vita. Per cui si dice che un certo scrittore usa degli stereotipi nella misura in cui ha dei valori che ci sono lontani.”
E chioso: solo una scrittura davvro grande, solo autrici o autori davvero persi (come si dice innamorato perso) nei loro personaggi sono capaci di far uscire dalla sfera poké quasi tutte le loro creature, e di colpirci sia con quelle che amano sia con quelle che odiano. Penso a Coetzee, per esempio.
“ti prego, dammi un nome, un cognome, un codice fiscale”
Roberto Bui, BUIRRT70D30G184E
E adesso? Ti giochi i numeri al lotto?
No, mi sento un po’ meno alienato.
Fiscoterapia. Una nuova frontiera.
@ Wu Ming1
Occhio con cifre e nomi resi pubblici… con tutta la gente a cui, nei mesi scorsi, hai fatto girare le scatole, sia mai che finiscano su una *tabula defixionis*!
Ogni tentativo di tal sorta andrà a vuoto 🙂
E poi erano tutti dati già noti. Nome, data di nascita (è nei titoli di coda di “New Thing”), luogo di nascita (un noto troll ha menato il torrone a tutti a furia di nominarlo) 😀
Però a pensarci bene, fare il malocchio usando il codice fiscale sarebbe una gran trovata ;-))
per l’occasione speciale ho adottato un codice fiscale
WSNSMN08T31Z138A
@diamonds
Vuoi una *tabula defixionis* pure tu? 😉
Ecco, Simon Wiesenthal è proprio l’esempio del fatto che le tabulae defixionis non funzionano. Gli occultisti nazi, dal ’47 in avanti, ne avranno prodotte a migliaia, ma lui è andato avanti imperterrito, diritto come un fuso.
l’ultima volta che Charun è venuto a a reclamarmi si è ripetuto il dialogo di eracle con Litierse(e io non impersonavo quest’ultimo contrariamente ai pronostici)
http://lozibaldonedidave.blogspot.com/2007/11/sogno-damore-e-di-violenza.html
Tanto per chiarirci, era solo una battuta, la mia. Mai stata fanatica di malocchio&intrugli magici.
E soprattutto… non ho mai bruciato materassi ai crocicchi, ripetendo tre volte di seguito “piripicchio e piripacchio”. Lo giuro :-))
😀
http://www.youtube.com/watch?v=edokG9l1XGg
Un grande classico, splendido!!
si gioca,Anna Luisa(“la ludica è l’attività che preferisco.Anche se è sempre più prossima a una fine che a un inizio”)
Tranquillo diamonds, sono una personcina ironica ;-))
Loredana, ho avuto la tua stessa impressione di personaggi che non hanno una voce individuale, che sono ‘silenziati’. Specialmente le donne, vero, ma anche i bambini quando compaiono.
Invece le ‘cose’ parlano meravigliosamente.
Non so, è un bel libro, con quel difetto lì (secondo me) ma è un bel libro, da leggere assolutamente.
ciao
Io ‘L’ubicazione del bene’ l’ho quasi finito di leggere, per la precisione devo iniziare il penultimo racconto.
Ho cercato di leggere con molta attenzione, ma non mi pare di aver notato delle distinzioni tra uomini e donne. O meglio, mi sembra che nei racconti il maschile e femminile siano rappresentate come le due modalità, rigidamente e schematicamente determinate, in cui si articola la variabile dell’Umano. Posso trovare atroce questa visione, ma tracce di sessismo non ne ho viste, ognuno, Lei e Lui (come Falco definisce i due personaggi in un racconto, esattamente come M e F delle tavole statistiche) fa la sua parte di stereotipo nel plastico di Cortesforza, di cui mi pare che Falco offra un ironico doppio nel racconto Alba.
E tra i due plastici ho colto solo una differenza di scala, perché sembra proprio che la vita sia defluita da entrambi, a parte la vitalità degli animali, tanti diversi e presenti in ciascun racconto.
Sinibaldi nell’intervista già citata da Loredana parla di sensazione di asfissia, sì, l’impressione è quella.
Sempre nella stessa intervista Falco parla di una consapevole ricerca del bene da parte di alcuni personaggi. A meno che non siano i personaggi degli ultimi due racconti, io questa ricerca non l’ho vista. Ho visto la pietas dell’autore (dice Falco: questo libro è impietoso nello stile, incociliato, ma non privo di pietas), ma come lettrice non sono riuscita a provare nessuna empatia. Sono rimasta a guardare con occhi asciutti me stessa, come dice Sbarbaro in una bellissima poesia in cui descrive puntigliosamente la sua depressione.
Perché poi il libro parla di noi, è innegabile. E questo mi ha fatto paura: riconoscermi.
Nonostante questa paura, o proprio per questo, ho trovato il libro molto bello.
Su Nova Paolo Cognetti fa una lettura molto interessante del libro di Falco.
Oltre al fatto che offre molti spunti di riflessioni, anche a me che condivido la sua lettura solo in parte, la segnalo perché Cognetti, citando esplicitamente Loredana, si dichiara d’accordo con l’accusa di sessismo.
Io continuo a non essere d’accordo, ma questo è un dettaglio inessenziale.
A me pare che Cognetti abbia sbroccato, non so che c’ha ma non mi pare che Loredana Lipperini abbia fatto una lettura così stupidamente letterale, è come dare del nazista a Littel. E non mi pare che abbia mai parlato di sessismo. Ha detto che è un’ottimo libro, scritto benissimo come quello di Vasta ma che c’è qualcosa che a lei non convince del tutto, dopo di chè leggo la Lipperini da anni e mai si sarebbe permessa una caduta del genere. Non li accosterei proprio i due. Sono due mondi lontani.
Cognetti fa la figura del blogghettaro pieno di livore, fine.
Io sono a metà dell’ubicazione al momento e sono abbastanza dell’idea che Falco ha una lucidità e una forza difficile da egualiare, ma non ho finito.
Mi è piaciuta anche la lettura dello Scorfano e di Flavio qui http://scorfano.wordpress.com/2009/06/21/giorgio-falco-lubicazione-del-bene/
Non ho letto tutti i commenti e mi scuserete se qualcun altro ha forse già detto la stessa cosa, ma concordo pienamente con la recensione, senza condividere la reticenza e il tono di scusa con cui si conducono analisi di genere in letteratura. Queste dovrebbero essere non solo legittime, ma a mio parere obbligatorie assieme a tutte le conquiste recenti della critica letteraria: analisi di classe quindi, di genere, e ultimamente anche ambientali. Se la letteratura non trattasse dei problemi odierni più urgenti in modo polemico e quasi militante, non potrebbe avere nulla di pedagogico, nessun fine etico di educare lo sguardo ad accorgersi di cose che è disabituato a vedere; avrebbe smesso insomma di essere utile già da un bel po’, e sarebbe solo un magnifico svago. Avanti di questo passo dunque, brava così. Un saluto