No, davvero, non volevo parlare di Sanremo, del tatuaggio di Belen e del supponibile trappolone del team degli autori (“facciamo che le femministe bigotte attaccano la valletta per lo sketch degli slip?”). No, davvero, non c’è molto da dire se non che un rinnovamento di chi scrive i copioni sarebbe auspicabile, e possibilmente immediato.
Ne parlo, invece, ma in un’altra direzione.
Apro la posta elettronica e trovo una mail. La mail viene da “mammacheclub”, o anche “il social network delle mamme”, o anche uno dei luoghi più frequentati della rete. Ve la copio:
“Due tra le mamme blogger più seguite del web (Jolanda Restano di Fattoremamma e Veronica Viganò di Managerdimestessa), sono a Sanremo per condividere la loro esperienza con tutto il mondo della blogosfera. Le loro armi sono post, twit, video e interviste per svelare tutti i segreti del festival, visti attraverso gli occhi di due mamme 2.0.
Per essere aggiornate su tutto ciò che accade, basta leggere i post delle due mamme inviate speciali, tutte le mattine, sulla neonata Facebook fanpage di P&G.
I reportage delle mamme a Sanremo saranno pubblicati anche su blogmamma.it.
E per chi vuole chattare in diretta durante le trasmissioni tv, basta entrare in twitter cercando l’hashtag #mammeasanremo.
Da sempre vicina alle mamme, P&G ha scelto il Festival di Sanremo per presentarsi alle famiglie italiane insieme a Dash e Pantene, due delle sue marche icona.
Per sottolineare la sua vicinanza a tutte le mamme, P&G ha scelto di far raccontare la kermesse sanremese proprio da due mamme blogger inviate all’Ariston. Sulla sua pagina Facebook, P&G lancia anche il sondaggio “Mamma, che canzone!”, attraverso il quale è possibile selezionare la canzone preferita tra una rosa di successi musicali dedicati alla mamma e decretare la canzone italiana preferita dagli utenti della rete.”
Allora, vogliamo, prima o poi, discutere di come gli sponsor hanno intuito, divorato e reso in gran parte innocuo un fenomeno importante come quello del mommyblogging oppure facciamo finta di niente? Le mamme che scrivono sui blog sono in numero impressionante. Sono la maggioranza dei blogger adulti, e non solo in Italia. Sono, potenzialmente, una forza in grado di esercitare pressioni non indifferenti. La mia sensazione è che in buona parte stiano divenendo veicolo pubblicitario, più o meno consapevole, più o meno convinto di poter cambiare le cose nella valutazione di un prodotto. Ma è sufficiente ottenere un passeggino modificato secondo i propri suggerimenti per offrirsi come strumento di marketing? La scelta è legittima, naturalmente: ma credo che un paio di riflessioni in merito farebbero comodo: sia pure tenendo conto delle inevitabili generalizzazioni.
Mi inviti a nozze, perché anche se vengo dal mommy-blogging duro e puro, non penso di essere mai stata una mamma-blogger. Sull’ invito alla riflessione che fai, una cosa molto interessante la scrisse tempo fa Francesca Sanzo (io l’ho letto solo la settimana scorsa), la condivido in praticamente tutte le linee principali e ancora più illuminante è il putiferio che si è scatenato nei commenti: http://www.panzallaria.com/2010/03/25/di-marketing-mamme-blogger-e-carne-da-macello/
Detto ciò, non entro nel merito del veicolo pubblicitario, perché come qualcuno aveva anche risposto a Francesca: non siamo delle bambine, ci rendiamo conto, ma per me il blog è un divertimento e se un’ azienda mi propone una cosa carina da fare e mi va, la faccio.
Sono scelte che ognuno fa per se e la mia, in questa come in tante altre questioni della vita è: o il tuo progetto mi entusiasma come finalità ed è non-profit, o se tu ci guadagni, ho un bollino anch’io, mandami gli estremi della fattura e poi proseguiamo il discorso. O pensi che se so scrivere bene, questo è un lavoro e come tale va retribuito, o ti attacchi.
Il lato attivista del mio essere blogger e creare gruppi di pressione è invece un altro: tenere alta l’ attenzione su cose che ritengo/riteniamo importanti e segnalarle; denunciare allo IAP, a Facebook e altre piattaforme tutti i messaggi sessisti, svilenti, che incitano all’ odio, razziale, di genere o generico. Tre anni fa mi sarei detta: si, ma anche se scrivo che differenza fa? Adesso so che funziona benissimo proprio grazie al lavoro comune e che la differenza la fai anche tu.
Il discorso del dialogo con le aziende sarebbe una cosa bellissima se le aziende avessero davvero capito il potenziale favorevole che potrebbero ricavarne, cosa che poche fanno. Basti vedere il ribaltone di McDonald, recentemente, che dopo aver chiesto un parere ai propri clienti si è accorta di non essere preparata a tanto feedback tanto negativo e ha chiuso la pagina.
Nello specifico del mommy-blogging e prodotti affini, io trovo che un’ azienda che da 50 anni in tutte le pubblicità mi mostra un modello di donna stile vivalamammaanni’50 non mi sta prendendo seriamente né come interlocutore né come consumatore. quindi la boicotto e cerco di farla boicottare in entrambe le vesti. Il giorno che lo capiranno sarà un’ ottima cosa.
Però io parlo facile perché una certa deontologia professionale e quadro etico di rifermento personale me lo sono potuta fare in 25 anni di lavoro come traduttrice, in cui i dubbi esistenziali sull’ accettare o meno una collaborazione sono molto simili. Capisco benissimo che chi si è aperta un blog per divertimento, sfogo o altro, possa sentirsi lusingata, o almeno apprezzata, gratificata, e quindi si presti a fare prestazioni non retribuite per la gioia della notorietà o la speranza, un giorno, di guadagnarci.
Comunque Jolanda e Veronica, che conosco virtualmente ed apprezzo come interlocutrici, sono l’ unico motivo per cui mi sono un minimo interessata a Sanremo, non ho ancora capito bene come ci siano finite, e non sarà nulla di tutto questo a rendermi cliente fedele dell’ azienda che le sponsorizza, che oltretutto neanche mi fa capire bene cosa stia vendendo.
Da questo punto di vista sia le aziende che la maggior parte dei blogger hanno ancora tutto da imparare sul potere di questo tipo di comunicazione, e quindi ben vengano gli inviti alla riflessione, che non andrebbero presi come un attacco personale.
Accidenti, mi è proprio partito il pippone, chiedo scusa, avrei fatto meglio a scriverlo da me, ma non mi sono resa conto della lunghezza.
Non è simile al modo in cui le grandi case editrici si comprano i litblogger o twitstar (e starlette) , al prezzo davvero stracciato di vassoi di tartine durante “segretissimi” “ambitissimi” meeting in cui si ascoltano le loro idee di marketing (proprio come i produttori di passeggini ascoltano le idee che mamme volenterose regalano) con finale omaggio di libri in uscita, con preghiera di parlarne il più possibile, così che poi twitter, per esempio, sia invaso per giorni da titoli hashtag di libri ancora a mala pena in commercio, commentati entusiasticamente da persone ben selezionate (colte, impegnate, con un buon seguito di followers) ben felici di dare una mano ” dal basso” a un colosso editoriale? (si veda, per farsi un’idea: http://www.minimaetmoralia.it/?p=6438) O sono io che non so vedere la differenza? La sponsorizzazione volontaria e volenterosa mi sembra l’ultima frontiera del marketing in ogni ambito.
Mammamsterdam: macchè lungo, è invece importante e ti ringrazio.
S. Infatti, a quel meeting ho opposto un gentile rifiuto.
ciao a tutti, come ha segnalato Barbara Summa, da qualche anno cerco di parlare anche io di questa deriva. Per quanto riguarda questa operazione sanremo, devo dire che a me quello che più mi infastidisce è stata la scelta veteropubblicitaria di dash di rivolgersi SOLO alle mamme, rinfocolando un vecchio assioma mamma-stira -lava-accudiscefigli – guarda sanremo. Ne ho scritto proprio ieri in un post, sono in attesa di una risposta da dash che – per altro – non ha una policy molto trasparente per i post di altri sul suo profilo pubblico di facebook…se vi va di leggere: http://www.francescasanzo.net/2012/02/15/le-migliori-amiche-del-detersivo-le-mamme/#more
Lalipperini: lo immaginavo. Aggiungo che le minacce di censura della rete mi preoccupano, personalmente, molto meno del tentativo in atto, sempre meno velato e marginale di comprare le voci “libere”, tentativo che se riuscisse, e riuscirà, temo, se non verrà di volta in volta smascherato e respinto, (anche solo per ingenuità, come scrive anche Mammamsterdam, perchè le persone si sentono lusingate dall’attenzione ricevuta), potrebbe disinnescare il potere della rete molto più efficacemente di qualunque legge censoria.
condivido con Barbara Summa che queste riflessioni non dovrebbero essere prese come attacchi personali e non lo sono. anche io stimo Jolanda e Veronica, ma comunque la loro presenza non è stata abbastanza per spingermi a guardare sanremo (che non mi piace a prescindere) ;-)) credo che il punto sia cercare di aprire una dialettica (e invece a volte ho le sensazione che le mamme blogger temano di farlo per perdere contatti professionali ed è un rischio).
Io trovo che si stia andando fuori strada. Iolanda e Veronica fanno questo di lavoro. Nessuno di sognerebbe mai di criticare me perché sono mamma, vado in ufficio e percepisco uno stipendio. Possiamo dire che anche andare in un ufficio e percepire uno stipendio è un po’ prostituirsi, ma credo che andremmo fuori tema.
Insomma, le riflessioni su sponsor e mommyblogging sono sicuramente interessanti, ma l’esempio in questione lo trovo poco azzeccato. Poi sicuramente è solo un mio punto di vista.
Polly, io non sto attaccando queste due blogger. E non ho usato la parola prostituzione, per favore. Sto dicendo che, come ha scritto Francesca Sanzo, ci sia una innegabile deriva in atto. Fare questo come lavoro è libera scelta: ma il tentativo di ricondurre i fini del mommyblogging a occasione per farsi non soggetto ma oggetto pubblicitario merita la discussione. E, sia chiaro una volta per tutte, non c’è attacco alle persone in questo post (magari alle aziende, volendo).
@polly ha ragione sulla necessità di differenziare tra lavoro e “marketta” e in questo caso loro sono a sanremo per lavoro. Detto questo, credo che la riflessione che bisogna fare è sul rischio (spesso inconsapevole) di autocensurarsi per non perdere contatti, quando un fenomeno diventa anche uno spazio dove si raccolgono proposte lavorative e che si riferisce allo stesso target da cui proviene. E’ giusto? si può e si deve trovare una giusta terza via per cui se una marca sbaglia, puoi dirglielo anche senza il rischio di perdere occasioni di lavoro? Se no, invece che le mamme che rincofigurano la pubblicità, potrebbe essere che la pubblicità riconfiguri le mamme. Mi rendo conto (anche sulla mia pelle) che è come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina, ma bisogna mettere sul piatto anche questi dubbi e farlo serenamente, per crescere tutti e tutte
Polly, proprio questo è il punto, nessuno sta criticando Jolanda e Veronica, che essendo delle professioniste sicuramente sanno bene quello che stanno facendo, e visto che qui abbiamo fatto subito a ricreare il circolo delle commari che si conoscono e si leggono tra loro, sappiamo di chi stiamo parlando e non ci facciamo illusioni.
Ma a me piace che Loredana abbia impostato il discorso in modo molto più ampio, perché la riflessione è utile a tutti e poi ognuno ne trae le proprie conseguenze. Facci caso, ogni volta che si scatena una discussione del genere con nomi, cognomi, sputtanamenti e offese, si tratta sempre di certe blogger.
Perché? Perché sono quelle brave, quelle che sanno scrivere, quelle che hanno un seguito per questi ottimi motivi, stile e contenuti. Sono quelle che a volte si pongono e risolvono in vari modi il discorso sponsor o meno, che si chiedono se non perdono i lettori affezionati, sono quelle chiare sulle loro scelte, sono quelle che conosciamo per nome e cognome e ci mettono la faccia (a questo punto specifico che Barbara Summa sono io). a questo punto se monetizzi la tua bravura, il tuo seguito, il fatto di saper dare contenuti e forme che piacciono, a mio avviso fai solo bene. Tutte queste donne poi non fanno solo marchette, fanno un sacco di cose carine, utili, etiche, capisci che ci credono.
Un esempio e so che non si offende, Anna lo Piano: mi piace come blogger, come scrittrice per bambini, come persona anche se la conosco solo telefonicamente e per net. A volte leggo i suoi post professionali per vari produttori di cui non sono cliente, ma mica mi verrebbe mai in mente di dire: eeeh, ma se ti fai pagare dalla Barilla allora non sei credibile come blogger quando mi fai dare le lezioni di sesso dalla Prof. Orgazmova. Come lettori e consumatori siamo tutti molto più smaliziati di questo.
Diverso è il discorso di quel finto blog aziendale sulle pulizie di casa, talmente finto che una che di mestiere sa leggere tra le righe lo ha sgamato subito, ma fatto talmente bene che c’ erano un mucchio di persone che commentavano come ci commentiamo noi, tra amiche di blog e persone vere. Bisognva cercare molto, ma molto a lungo prima di capire che era sponsorizzato da una grossa multinazionale (guarda caso, miei clienti come traduttrice). Ecco, io ci mettevo una telefonata a chiamarli e dirgli: volete che vi scriva anche post per il blog, visto che sono tanto brava e già vi fatturo? Ma contemporaneamente gli avrei spiegato anche un paio di dinamiche sul blogging per dirgli che il giorno che tutte queste lettrici entusiaste e in buona fede scoprono il trucco, ti si rivoltano contro.
Ecco, queste cose per noi sono scontatissime, ma sono competenze che dovrebbero essere pagate. Non stiamo a beccarci tra noi, perchè siamo troppo in gamba per questo. E comunque fra un po’ riprendo il discorso da me.)
Da questo punto di vista, chi mai si è incazzato
Discorso già fatto e sviscerato anni fa per il blogging in generale. Non appena un blogger iniziava ad avere seguito, diventava appetibile per le aziende e quindi bersagliato di prodotti, inviti e richieste di recensione. E allora nasceva la domanda: ma se i blogger si dichiarano onesti e trasparenti (cosa che spesso era in opposizione più o meno esplicita ai giornalisti), come facciamo a sapere se il consiglio così prezioso (il “suggerimento fra pari”) è attendibile o meno?
Impossibile pensare che una categoria di blogger come le mamme, fra le più appetibili come target marketing, ne sarebbe rimasta fuori.
Come sempre, quello che conta è la trasparenza. E’ tutto lecito, ma quando è lavoro va chiarito, quando è recensione spontanea pure.
Anche perché come bene sottolinea Mammamsterdam, ci pensano quasi sempre i lettori a fiutare la finzione e l’effetto boomerang, per i blogger ma soprattutto per le aziende, è pericolosissimo e controproducente.
E’ la prima volta che intervengo sull’argomento, di cui tra mamme blogger si parla da un sacco di tempo. Anche io questa mattina ho aperto la posta e ho ricevuto questo comunicato stampa di P&G, che non mi è piaciuto affatto. A me sembra che, prima di tutto, ci sia un grosso problema di stili e di capacità di comunicazione: le aziende pensano di poter comunicare con le mamme blogger/ sulle mamme blogger con approcci antiquati (riflettiamo su come è stato costruito questo comunicato stampa, per esempio) utilizzando stereotipi di genere sulle madri (per esempio) che si autocontraddicono da soli (ma quando mai la classica mammina abbandona a casa la prole per quattro giorni per andare a Sanremo?!?). E’ un modo vecchio e un po’ aggressivo di comunicazione.
C’è poi un problema di complessità: per molte mamme fare la blogger è diventato un lavoro: vogliamo fargliene un torto? E attenzione, è diventato un lavoro non perché sono mamme, ma perché sono brave.
Il mommyblogging è sterminato, e all’interno ormai ci sono enormi differenze (di approcci, di stili comunicativi, di scelte personali riguardo alla propria presenza sul web). Non corriamo il rischio di considerarlo un mondo con un’unica voce… Per questo (in tutta onestà) non credo che il mommyblogging sia stato reso innocuo, credo che ci sia ancora spazio per esprimere le proprie opinioni liberamente, nel marasma della comunicazione online. D’altronde guardate cosa è successo di Facebook, ormai non è più (solo) un social network, è un suk con venditori che strillano da ogni dove. E gruppi come #donnexdonne che hanno ormai quasi 500 membri, con un’attività e una partecipazione che raramente ho visto sui social network…
mi è piaciuto molto il commento di @lorenza. concordo. il problema è lo stile, spesso antiquato. L’ho scritto nel mio post e l’ho riscritto stamattina a dash che risponde alle nostre critiche. Se si fa comunicazione alle mamme reiterando gli stereotipi sulle mamme, allora non vince nessuno. E comunque ognuna di noi deve sentirsi libera di scegliere e di poter dire quello che pensa alle aziende e a volte diventa difficile, quando ci sono di mezzo potenziali clienti. Questa è una criticità, non va sottovalutata perché entrano in gioco molti fattori, tra cui la possibilità di essere cittadini critici e attivi.
Sono stata tirata in causa 🙂 e quindi mi sembra giusto intervenire direttamente, anche perché ormai ho qualche anno di esperienza alle spalle in materia di blogging, mommyblogging, comunicazione aziendale ed editoria. Da sempre ricordo che il web è un media a tutti gli effetti. Le aziende hanno visto nei blog uno spazio mediatico interessante e hanno pensato di sfruttarlo come facevano con riviste e giornali, pensando di trarre vantaggio dal fatto che raggiungono direttamente all’obiettivo (il famoso target) con un insider, che fa parte di quel target, e ne sfruttano la popolarità (li chiamano influencer). Quello che non hanno capito è che questa influenza si manifesta solo a determinate condizioni, che non sono sempre lineari. Per esperienza vi dico che alcuni blogger hanno una reputazione talmente salda che possono fare qualunque cosa, altri appena si muovono fanno danni. Da che dipende? secondo me da una coerenza interna, da un modo di porsi e di fare le cose che però non è facilmente decifrabile. Ma anche i magazine, le riviste si sono accorte dei blogger. Molte blogger scrivono per riviste femminili e gli articoli sono sempre più simili a post, con buona pace del giornalismo e della deontologia professionale. Anche le riviste cercano la popolarità, i followers e la capacità di influenzare dei bloggers. Il problema di chi fa comunicazione per mestiere (come me, che scrivo per campare) è che ti devi destreggiare tra i lavori che richiedono la tua professionalità e competenza e quelli che ti chiedono solo di essere presente perché magicamente aumenti gli accessi o la gente crede in te. Devo dire che non è facile, anche perché non ci sono manuali e regole scritte. Personalmente sia con le riviste che con le aziende ho sempre cercato di attenermi a una certa coerenza personale. Ho evitato progetti con modalità che non condividevo (rinunciando a lavori, collaborazioni ecc), privilegio aziende che non abbiano policies in contrasto aperto con le mie idee (se cercassi la perfezione non lavorerei, è chiaro), cerco di essere me stessa anche quando scrivo per altri. Credo da sempre che nelle situazioni complicate, quando le regole non sono chiare, ti salva sempre un modo professionale di fare le cose. Scusate la lunghezza ma l’argomento è davvero molto complesso. Spero di essere riuscita a spiegarmi.
In bocca al lupo mamme bloggers, posso soltanto osservare che all’apparire di ogni nuovo fenomeno critico nella società, c’è un mercato che se ne appropria, svuotandolo del potenziale critico, e scusate la generalizzazione.
E’ nella natura delle cose (qualcuno direbbe del capitalismo, ma anche negli altri sistemi funziona così) che ogni nuovo fenomeno tanto più si degrada quanto più vasta è la platea che raggiunge. Pare che non ci sia niente da fare, se non denunciare la cosa, volta per volta, senza stancarsi. E’ quello che ha fatto Loredana. Grazie.
Dai, Belen con la farfallina all’aria ci sta: l’ha detto anche Papaleo, la gente ha bisogno di poesia… 🙂
Una discussione molto interessante. Nel 2009 dopo aver vinto il premio Donna&Web categoria blog ho avuto la possibilità di entrare in un circuito simile dove mi si proponeva la possibilità di ricevere da alcune aziende prodotti da testare essendo plurimamma (5vm = 5 volte mamma).
Non sono tagliata per queste cose, e rifiutai, ma fu difficile perché per come mi era stata posta la questione era molto affascinante. Il poco tempo e la mia poca costanza in tutto ciò che faccio ha avuto il sopravvento.
A distanza di anni non me ne pento ma certamente ho perso opportunità, visibilità ecc. e forse anche la possibilità di ricavarne guadagno seppur minimo.
Sono scelte
posso dire che però, non necessariamente, lavorare con la comunicazione web deve essere una scelta che esclude la possibilità di fare scelte consapevoli? No perché se no diventa un’inutile dicotomia e non credo fosse questo l’intento di Loredana. Mi spiego: tra chi fa il blogger e sceglie anche di farlo per lavoro ci sono mille sfumature, mille strade e scelte possibili, e non tutte significano “svendersi”. Le cose si possono fare in tanti modi, si possono DIRE in tanti modi e dai propri errori si può imparare e cambiare. Si può scegliere di fare la blogger professionale senza rinunciare al proprio spirito critico, si può scegliere di emanciparsi da un’etichetta troppo stringente (e secondo me quella di mamma blogger lo è se rimane solo quello). Insomma è tutta una questione di policy personale. Il problema è quando non ci poniamo il problema e pensiamo che tutto possa filare liscio a prescindere. Non è così: qualunque scelta implica responsabilità, ma non è detto che tutti dobbiamo fare uguale a tutti per portare avanti un lavoro che – tutto sommato – offre grandissimi spazi di creatività e anche di dialettica critica e costruttiva con clienti e utenti.
Io sono un po’ diffidente verso il fenomeno, le mamme blogger sostengono di farlo perché si divertono e di scegliere consapevolmente prodotti che davvero apprezzano, ma anche quando questo succede realmente gli effetti negativi non mancano. Tempo fa avevo chiesto ad una di loro di commentare la vicenda della pubblicità ingannevole dei Piccolini della Barilla, mi sembrava interessante e sapevo che collaborava con quel sito, risultato? Commento censurato!
Ecco, questo è uno di quei post che danno un po’ di ossigeno e fanno discutere. Quello che noto io ultimamente è che dei gruppi della rete, in questo caso le mammeblogger, vengano serviti su un piatto alle aziende. Le ‘mammeblogger’ sono tante singole persone con idee diverse, modi di esprimersi molto diversi tra loro e accomunate forse solo dall’essere mamma, ormai c’è stata una tale evoluzione in questo settore dei blog e social network che è molto difficile prendere le ‘mamme’ tutte e considerarle target omogeneo. Quello che esigo dalle aziende e dagli utenti in genere, è la trasparenza: se lanci un’iniziativa rivolta a me come mamma devi dirmi tutto, non catturare la mia attenzione e poi propormi qualcosa. E poi se usi la rete devi essere abbastanza elastico da capire che non puoi solo spingere un messaggio, ma accettare il rimbalzo delle idee e anche critiche che ti torna indietro.
Ricordo anche io benissimo il post di Francesca Sanzo sul mommyblogging e il marketing, post che condivido ancora oggi a due anni di distanza.
Insomma, siamo sempre le solite che stavolta invece di farsi la pausa caffe/pranzo su Facebook, ci siamo invitate qui. Posso concludere citando una nostra ineffabile amica che mi ha appena scritto di smetterla di perdere tempo qui e parlare di cose serie perché: “E sempre a discutere di questa fuffa!”
È vero, noi tra noi se ne parla da anni, ma trovo cosa buona e giusta per una volta far uscire la discussione, che ce n’ è di gente qua fuori che è convinta che il mommy-blogging sia solo quella roba di cui scrivono sui giornali.
Già il mommy- blogging. Il pericolo più grande che vedo in questo fenomeno non è il connubio con il marketing (purché sia esplicito e non ingannevole).
Il pericolo più grande che vedo, e forse vado fuori tema, è che le donne si sentano emancipate perché sono mamme, ma in rete.
Che si generi insomma l’equivoco che se finisci per far ruotare tutto intorno alla tua maternità (lavoro, interessi, relazioni sociali) ma lo fai nel web allora sei un passo avanti rispetto alle altre.
Molte delle donne che hanno commentato le ho conosciute tra i blog e facebook e sono donne che dopo aver cominciato a parlare della maternità si sono anche però interessate ad un ventaglio più ampio di temi.
Sono una mamma, non voglio sminuire quello che faccio per mia figlia e i sacrifici eccetera, che sia chiaro. Vorrei solo che non finissimo per autoghettizzarci convinte invece di essere finalmente libere dalla schiavitù dei ruoli (la donna a una dimensione).
Io ho una posizione difficile su questi temi, che può risultare irritante. Conosco luminose eccezioni – anna lo piano è una di quelle e anche mammamsterdam o in genere le mamme bloggher che possano venire in contatto con questo post, ma la pretesa di una dirompenza da una classe di blogger che si qualifica in quanto mamme scusami loredà ci ha del paradossale. Non c’è assolutamente niente di male nel volersi definire mamme bloggher, il fatto che a me non interessi un fenomeno è da ascriversi ai miei gusti personali non a una eventuale sanzione in merito, ma la stragrande maggioranza delle signore in questione nel momento in cui si definisce mamma bloggher e scrive post in coerenza con la definizione (e orco se lo fa) non è che proprio ci abbia tutta sta voja de fa la rivoluzione, se le capita di essere mezzo di interessi di qualcun altro se ne frega poco, anzi alle volte riconosce un’identità tra se e la pampers, è contenta se pampers fa li quatrini. Cioè Loredana vedi anche oggettivamente cosa scrivono, li giochi a premi che una vince na spugnetta, la cronaca giornaliera dei dentini.
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(Sanremo pessimo che te lo dico a fa. E la gag della povera mentecatta che fa a gara de puppe con Belen? Io co ho puppe grosse no ce le ho io? sorvoliamo)
Io, a titolo personale, trovo davvero triste che Rocco Papaleo, dopo essersi creato un’allure meridionalista colta e militante presentandosi al pubblico con Carlo Levi stretto in pugno, dica quella stronzata sul bisogno di poesia in presenza di un festival che, facendo calare un velo d’ignoranza su tatuaggi, spacchi di gonne, celentanate e collari ortopedici, è dal punto di vista artistico (traduco: combinazione di testi+musica, che questo dovrebbe essere un festival canoro) uno dei peggiori di sempre. Dopo Veltroni che difende i lucchetti di Moccia a Ponte Milvio credevo non si potesse scendere più in basso, ma a quanto pare si può sempre scavare.
Non vorrei risultare antipatica, ho capito benissimo che non si vuole criticare una scelta, ma è da stamattina che ho una domanda in mente nello specifico del contesto evocato all’inizio del post. In molte siamo ancora in attesa di una risposta in merito al servizio del TG1, e quanto a sessismo del festival direi che non c’è nemmeno bisogno di parlarne (della cornice, perlomeno, di cui mi sono bastate manciate di secondi di visione – le canzoni non ho avuto la forza davvero di ascoltarle). Ecco, andarci e fare reportage come quello che ho letto, non è un po’ autolesionistico, non è un colludere con chi non ha il minimo dubbio sul fatto che quella della “mamma” sia e debba restare una gabbia? Se può accadere con qualunque prodotto, lì il rischio mi sembra aggirabile, quantomento dalle blogger più avvertite. (Questo è quel che mi è rimasto della discussione). Ma in questo caso io la domanda la devo porre, perché la retorica della mamma è fagocitante e il festival non è un qualunque prodotto. Io i mommy-blog non li leggo, e sono certa di perdermi qualcosa. Meglio, potrei leggere quelli che davvero vanno oltre, e oggi ne ho avuti esempi. Dunque, nessun pregiudizio, e però il fastidio mi resta.
Ah, su Belen: interessante come la telecamera è partita proprio da lì, e si è ben soffermata, prima di inquadrare altro.
Non credo ai miei occhi.
Ma veramente, tutte queste signore mamme-non-mamme commentatrici di Lipperatura si sono sedute in poltrona e hanno passato la serata a guardare il festival di sanremo?
Sono sessista e cattoreazionario e stronzo se vi dico che il tatuaggio di Belen e il papaleo e il profeta celentano ve li siete meritati?
Vi linko l’indirizzo di un blog fantastico di un’artista, che è anche madre e parla delle sue giornate con la figlia, a me piace tantissimo. http://nicozbalboa.blogspot.com/
E’ abbastanza famoso, lei è pure una disegnatrice, ed è anche simpatica.. bellobellobello.
Ilaria secondo me senti – no. Cioè non mi sembra neanche corretto dire che l’unica significanza del festival sia il fatto di avere un linguaggio spesso e volentieri sessista, è un grande prodotto nazional popolare che oscilla nella qualità – quest’anno decisamente bassa – ma che dice un sacco di cose del paese reale, dei piacere e dei desideri del paese reale, del suo immaginario. Inoltre in ogni festival c’è sempre il gusto della canzonetta ben fatta e scovarla almeno per me è sempre fonte di grande soddisfazione. Ossia, io l’inviata al festival la farei ben volentieri. La libertà rispetto a certe cornice non sta nel non incontrarle ma nel modo di parlarne.
Scusate, forse vi sembrerà OT, ma io mi sono sempre chiesta perché il fenomeno si chiami mommyblogging e non parentalblogging. Il tema di cui queste mamme parlano non è forse il loro modo di vivere e di essere genitore?
Guardate che la domanda non è banale.
Un po’ come si fa con i foodblogger, i greenblogger, i techblogger etc etc che individuano nel nome della categoria la tematica di cui parlano e non ciò che essi sono o rappresentano.
Sembrerà una stupidaggine, eppure a livello percettivo e di comunicazione antistereotipi secondo me una definizione simile incoraggerebbe molto la diffusione della percezione che l’essere genitori è una cosa che non definisce in modo univoco una persona (in questo caso una donna).
Da qui deriverebbe una serie di corollari fra cui anche la facilità di offrire il fianco a una comunicazione aziendale già di per sè stereotipata.
giorgia la maggior parte di loro credo non considerano le funzioni di accudimento intercambiabili, e rifiutano per prime la genericità del parental. A molte molte di loro, aggiungo, le tematiche femministe provocano risoluti conati di vomito. Va detto anche che aprono quando i figli sono molto molto piccoli e in quel momento si la differenza è anche più ragionevole.
Valter: no, io ieri sera leggevo, guardavo pezzi de Gli intoccabili sul gioco d’azzardo e le dipendenze da gioco, e ogni tanto davo un’occhiata. Giusto per controllare. Purtroppo ho beccato inizi di canzoni terribili e scene di presentazione terrificanti. Tutto qua.
Zaub: capisco, è che quell’immaginario lo trovo in buona parte sessista, ma accolgo l’obiezione. Qualche bel pregiudizio ce l’ho. Io poi quel margine di libertà sono felice quando lo trovo. Qui mi domandavo se la cornice del premio per le canzoni sulla mamma, all’interno della cornice “son tutte belle le mamme del mondo” (i miei vecchissimi ricordi del Festival mediati da mia madre), non fosse un po’ troppo potente per lasciare grandi spazi di libertà. Poi leggerei volentieri reportage davvero innovativi rispetto agli stereotipi, non solo sulle donne, ma nazionali in senso lato. Forse non ho letto abbastanza delle blogger, continuerò a cercare.
Mi piace molto l’idea di Giorgia.
Poi, proprio ieri ho partecipato a una riunione per parlare di educazione sessuale a Milano. Ho portato la mia esperienza di uno sportello di ascolto in una scuola media e quella di genitrice (che significa anche rappresentante di classe e partecipante alle attività della associazione dei genitori), oltre all’esperienza dei lavori fatti in precedenza (tra cui insegnamento) e un sacco di ricerca – ero davvero molto ben documentata. A un certo punto un interlocutore mi ha chiesto: ma lei, oltre a fare la mamma, di che cosa si occupa? La riunione è andata molto bene, anche lui è stato davvero pieno di idee, e però quella domanda mi ha lasciata piena di tristezza. Sia perché fare i genitori non è poco, sia perché tutto il resto che faccio è stato coperto dal mio essere una “mamma”. Sicuramente quel che mi è capitato ha a che vedere col mio fastidio.
Non ce l’ho con lorsignore, eh!
Solo mi ricordo di quando chiesero a McLuhan (erano i giorni del rapimento Moro), cosa si poteva fare per indurre i terroristi, con una comunicazione sapiente, a desistere dal crimine.
Lui rispose: “Smettete di parlare di loro in TV e sui giornali”
(I blog ancora non c’erano).
Sogno un Italia dove anzichè criticare la merda (continuando a riattizzare curiosità e audience nei suoi confronti) ci si gira dall’altra parte e ci si occupa d’altro.
Papaleo tornerebbe a fare brutti film e Belen dovrebbe cercarsi un lavoro vero. Ma non c’è niente da fare, medium is message ma prima di capire McLuhan bisognerebbe provare a osservare i media dall’alto di un silenzio impraticabile per chi è tossico di chiacchiere.
PS – Resta inteso che alle mammeblogger commentatrici di sanremo preferisco di gran lunga la crostata di mele di mia nonna non-blogger
@ Binaghi
però la frase la cambierei con “medium could be the message”, o con altre varianti spiritose ( o spiritiche ).
Poi scusa che lavoro faceva McLuhan?
Prima insegnante di letteratura.
Poi ha praticamente inventato la massmediologia.
Qualcosa di meglio di Aldo Grasso, neh!
Non sono solita segnalare miei articoli però in questo caso faccio un’eccezione perché il tema è proprio quello delle strategie di marketing sempre più insidiose e aggressive nei confronti delle mamme, un target quanto mai appetibile.
Qui ho raccontato quanto i social network e internet in generale abbiano dischiuso alle aziende le porte del contatto diretto con le donne in attesa e le neomamme: http://www.acp.it/blog/Sole24OreSanit%C3%A0_IlCodiceviolato7nov.2011.pdf
Io non discuto la libertà di ognuno di scegliere se e da chi farsi sponsorizzare. Quello che mi lascia molto perplessa è il grado di consapevolezza generale sulla sottigliezza di certi messaggi e di certe tecniche (infatti giustamente Mammasterdam scrive che”non sarà nulla di tutto questo a rendermi cliente fedele dell’azienda che le sponsorizza, che oltretutto neanche mi fa capire bene cosa stia vendendo”) e sulla portata degli interessi economici in gioco.
So che i mommyblogging sono un fenomeno complesso – tuttavia (al di là dei gusti personali) prima ancora del marketing mi chiedo se questi genitori si mettano nei panni dei figli di cui spesso postano le foto e di cui raccontano dettagli anche intimi. Tutti parlano di fare attenzione al modo in cui gli adolescenti si relazione con Internet tuttavia nessuno pare occuparsi dei loro genitori. Foto, descrizioni dettagliate di problemi psicologici, rapporti con le maestre, dettagli. Ora, l’anonimato non è che li protegga un gran che questi poveri figli/e. E magari al colloquio di lavoro – quando avranno venti anni – non sarà la bravata postata su you toube a fregarli ma il diario solerte di mamma. A fronte di questo il marketing mi pare quasi irrilevante.
Ecco barbara ha tirato fuori un punto che anche se non proprio in tema mi ha sempre lasciato perplessa.
Molti blog mammeschi sull’onda di quelli americani stile “soulemama” mettono foto bellissime dei pargoli alle prese colle mirabolanti avventure dei primi passi/disegni/paciughi vari, ecco da figlia a posteriori mi sarei inca**ata parecchio.
Comunque non c’è niente da fare se un consumatore è attento non c’è blog che tenga, sceglie in base alla qualità e al prezzo. Mi spiace dirlo ma alcuni blog ho smesso di frequentarli quando capivo che tra le righe si nascondeva il tentativo di farmi conoscere un prodotto nuovo o lo stesso di sempre rilucidato e impacchettato a dovere.
Si, anche quello della riconoscibilità dei figli su Internet è un argomento di cui si parla spesso. L’ autocensura ne è un altro.
Insisto comunque per distinguere tra i blog terapeutici e quelli fatti bene. Ognuno ha le sue motivazioni per cominciare, credo che raramente siano: adesso mi apro un blog in cui racconto come l’ allattamento uno di questi giorni mi fa commettere atti inconsulti, e poi la Nestle mi scopre e mi sono creata una professione. Uno comincia e si, quando cominci perché hai figli piccoli e stai sciroccata inevitabilmente fai le scivolate nel mommy-blogging, che, attenzione, ha davvero delle caratteristiche diverse rispetto al daddy-blogging (mica ce lo potevamo far mancare?).
Quando l’ esperienza stessa della maternità ti rinchiude in quel cerchio a due tra madre e neonato hai due vie: o ci rimani immersa perché se i svegliano ogni tre ore e magari hai altre sfighe tue la terapeuticità e l’ opportunità di scambio con chi sta nella stessa barca è la cosa più semplice. O hai anche altre cose da fare oltre alla maternità e visto che la mancanza di tempo è quella che è, blogghi sulle altre cose che fai o che vorresti fare se non ti svegliassero ogni tre ore. Credo che altre forme di blogging siano meno ‘inevitabili’, nel mommy invece ci scivoli fino al collo.
Valter, capisco come la crostata sia un faro nel disordine quando stanno tutti a parlare di cose che magari non ti interessano. Se te ne avanza una fetta, io sto qui:-).
La crostata è un faro, un picco, una nicchia.
shhhh zitti, non nominate le crostate, senno’ attaccano col food-blogging e siamo spacciati 😛
Naturalmente no che non potevamo farci mancare i babbi-blogger, tanto per citare Barbara Summa. E pare se ne stiano accorgendo anche i maestri del marketing visto che cominciano a comparire articoli di giornale che ne parlano: vedrai che qualcosa da venderci lo trovano, anche a noi.
Tornando alle categorie merceologiche, l’orticaria sul tema m’è venuta più volte e più volte me la son fatta passare ma resto affezionato all’idea che se uno/una apre un blog dove, in soldoni, parla dei fatti suoi lo fa per mettere in relazione tra di loro alcune cose: emozioni, crisi, sfighe, esperienze, etc. Insomma, lo vedrei più come un oggetto, scusate il termine, politico (dove cioè tentare di conversare e far circolare aria fresca e nuova su alcuni temi. Quello della paternità non è affatto affatto banale. Sappiamo che eredità ci portiamo dietro, altrimenti, noi uomini).
Io sono una food-blogger, e quello dei blog di cucina è un settore che quanto a “collaborazioni” (così le chiamano eufemisticamente) non è secondo a nessuno.
Ma sono stata per tanti anni nella redazione di un sito di genitori http://www.officinagenitori.org/ che ha scelto di non ospitare pubblicità.
È una scelta che paga, che ti lascia lo spazio di dire e pensare liberamente.
Farsi invece strumento di marketing delle aziende ti condiziona eccome, e vanifica spesso quello che di buono potresti dire. Anche perché si perde subito la credibilità.
Eppure i blog potrebbero, e molti a dire il vero lo fanno, fare comunicazione su temi importanti.
Penso all’ambito in cui mi diverto io, quello della cucina appunto, e anche lì si potrebbe parlare di tante cose. Di truffe alimentari, di consumo critico, di km zero, di gruppi di acquisto: anche parlando di bigné si può fare informazione critica. Eppure… eppure no. Alla fine la stragrande maggioranza dei food-blogger parla di quant’è buona la margarina montagné, sapendo benissimo che fa schifo, e se si affronta un tema che esce dal seminato, molti si tirano indietro e ti boicottano, dicendo “ma il mio è un blog di cucina cosa c’entra la politica” e questo lo dicono anche quelli che invece, letti in altri contesti, la pensano come te su molte cose. E allora perché non esprimere queste idee anche nel proprio blog?
È qui che si vede che la battaglia è quasi persa: lo fanno perché hanno paura. paura di perdere contatti. paura di compromettersi. paura di perdere l’OCCASIONE della loro vita, come se l’occasione della vita potesse solo derivare dal mercato.
c’è una convinzione diffusa che tutto sia mercificabile, in primis noi stessi. è così diffusa che è un convincimento spesso inconsapevole, è una sovrastruttura invisibile.
in questo senso è anche peggio di come l’hai raccontata tu, loredana.
ecco, non avevo letto supermambanana. mi scuso per il mio intervento 🙂