Francesco Forlani fa due chiacchiere. Il suo interlocutore
è Francesco de Core, scrittore e giornalista del Mattino. E dal momento che me
le manda, io le pubblico. Voilà.
Aggiornamento: Carmilla .
A distanza di quasi un
anno dall’uscita di Gomorra possiamo dire che nel frattempo sono successe tante
cose. Ho letto in alcune interviste accuse al libro di malapartismo ( per me
ovviamente sarebbe un complimento) e comunque una certa difficoltà, a volte
fastidio, a confrontarsi con questo libro. O con l’autore. E non parlo solo di
Baricco e Sanguineti, lo stesso Silvio Perrella, sull’Indice, solitamente
fluido. brillante critico, in questa recensione lettura di Gomorra mi è parso
in difficoltà, tutto preso a manovrare con i se e con i ma. Da dove viene
questa difficoltà? Dal semplice, incomprensibile "successo" di
un giovane autore o da una certa diffidenza degli addetti ai lavori,
letterati o giornalisti che siano, verso un autentico giornalista scrittore?
Caro Francesco, quanto accaduto
a Roberto Saviano ed al suo libro è un caso forse unico nel nostro panorama
letterario. Dunque, non mi meravigliano certe reazioni prima beatificatorie poi
vagamente snobistiche. Il successo, si sa, spesso produce questi cortocircuiti,
soprattutto in Italia. Saviano nasce ed emerge a sorpresa, non viene a galla
come evento costruito a tavolino (ha pubblicato per Mondadori, ma come decine
di altri scrittori), è un 28enne che non ha radici nella società culturale né
ha alle spalle esperienze editoriali di spessore. Forse anche per questi motivi
Gomorra ha sorpreso, spiazzato. Quindi la vicenda personale dell’autore – il
grido lanciato contro i camorristi nel corso della presentazione a Casal di
Principe, le minacce più o meno velate, l’eco di Eco e del Tg1, la scorta
concessa, l’intervista in anonima campagna con rudere industriale (quasi una
immagine tra il rurale e il metafisico) al direttore del più importante
telegiornale di Stato – ha nei fatti contribuito al ri-lancio di un libro che
ne contiene almeno tre al suo interno. Ma se ci fossimo trovati in presenza di
un fenomeno transitorio, Gomorra non avrebbe stazionato nelle classifiche dei
libri per settimane, anzi mesi (a piacere tra la graduatoria della saggistica e
quella della narrativa, chissà poi perché….). Non l’avrei visto in mano ai
ragazzi in metrò a Roma e Napoli più e meglio di un Boccia o di un Camilleri.
Non avrei sentito parlare di "sistema" tra gli studenti o nelle
conversazioni al bar. Eppure faccio il giornalista. E della faida di Scampia mi
sono occupato quotidianamente: delle vittime innocenti come della barbarie di
agguati portati a termine da killer imbottiti di droga. Niente a paragone del
dibattito (e usiamola senza timori, questa parola….) suscitato da Gomorra.
Certo, mi si dirà che ogni
evento rischia di diventare moda. E citare Saviano e Gomorra, in qualche
salotto, era un dovere prima ancora che un piacere. Ma questa è una annotazione
marginale. Perché Saviano ha avuto un doppio merito: entrare nelle viscere di
un fenomeno criminoso così pervasivo come la camorra e di un fenomeno
ulteriormente in espansione come la zona grigia del mercato parallelo a quello
malavitoso (ma qui siamo ancora al trattato sociologico), descrivere
quest’intreccio – e gli eventi e gli eroi e i delinquenti e i preti di
frontiera e i creatori di armi – con una lingua che parte dallo stomaco, dalla
pancia, una lingua forte, fortissima, talvolta barocca, ma che sa rendere
l’orrido e il malefico, l’allucinazione e la realtà, con una carica che bisogna
risalire a Malaparte per ritrovarla.
Vogliamo fare le pulci a quanto
scritto? Come ha avuto modo di spiegare proprio sul Mattino il giudice Cantone,
anch’egli nel mirino della criminalità casertana (più ramificata e potente
negli affari persino dei tanti clan disseminati sul territorio napoletano,
oltre cento), Saviano racconta cose vere. Nel senso di realmente accadute. Da
questo punto di vista, il riferimento che egli fa a scrittori-padri come
William Langewiesche non è affatto fuori luogo, anzi. Reportage no-fiction.
Tutta verità. Ma per Sanguineti, il grande sacerdote dell’avanguardia (e oggi
assistiamo con colpevole ritardo alla "riabilitazione" di quegli
scrittori che furono messi all’indice, valga per tutti Carlo Cassola), il libro
di Saviano è l’esempio di come la realtà si faccia racconto, "ovvero di un
piegarsi modaiolo al reale". Mentre a Genova si celebra il tempo che fu, e
l’odio di classe, uno scrittore (giovanissimo) che porta il suo coltello nella
piaga purulenta della camorra fa moda…. Piccola precisazione: per sua stessa
ammissione, Sanguineti non ha letto il libro. Ergo: il diritto di critica,
legittimo e sacrosanto, almeno si alimenti di qualcosa di sostanzioso, non di
un paio di pagine lette ad un reading.
Rosanna
Bettarini, neopresidente del premio Viareggio, va oltre. Fosse stato per lei,
probabilmente Saviano non avrebbe avuto il riconoscimento per l’opera prima.
"Qua e là mi sembrava sopra le righe", ha detto. Come se descrivere
il cadavere di Gelsomina Verde – la ragazza bloccata, torturata, uccisa e
bruciata nella sua auto solo perché sentimentalmente legata ad un esponente di
un clan in guerra – possa avere lo stesso impatto letterario dalla madeleine di
Proust. Ecco, tanti distinguo un po’ cavillosi mi paiono fuorvianti, come se la
società letteraria avesse in qualche modo deciso di emarginare, se non di
espellere, un prodotto di qualità e di successo i cui connotati non sono
facilmente sezionabili e distinguibili. Di più, Saviano – in Gomorra – ci ha messo la faccia e il
corpo. Ci ha descritto cose che conoscevamo solo in superficie. Lui ci ha
portato nel cuore, anzi nel ventre, del fenomeno. Con una parola prepotente,
che incalza, che toglie il respiro. E
che fa esplodere una rabbia covata a lungo. Ecco, Gomorra è un libro
splendidamente impuro. Non un prodotto da laboratorio.
Che dibattito se c’è stato un dibattito ha suscitato al Mattino?
In che
modo la figura di Siani, anche
attraverso il bellissimo romanzo di Antonio Franchini, L’abusivo, si ricollega
al fenomeno Gomorra?
Molto si è discusso, ed era logico che così fosse,
sull’entità del fenomeno Saviano. Ed è chiaro che una ferita ancora aperta come
quella dell’omicidio
di Giancarlo Siani non potesse non riemergere in circostanze come queste.
Ma il romanzo di Franchini e il reportage di Saviano sono molto diversi, come
impianto e come scrittura. A mio avviso, rappresentano due momenti molto forti
e molto alti che la letteratura di questa città ha saputo esprimere negli
ultimi anni. Il nervo scoperto di Napoli e dei suoi lati oscuri, torna
costantemente a galla.
Tempo fa si parlava di
nouvelle vague della narrativa napoletana.
personalmente credo che solo ora sia
veramente esplsa quesa nuova energia, anche se c’è chi la miccia l’aveva accesa
da tempo. E penso soprattutto a Pino Montesano e alla capacità che ha di
dialogare con narratori come Roberto Saviano, Diego de Silva,Davide Morganti,
Mauro Braucci… per citarne alcuni.
C’è – ed è giusta
la tua sottolineatura – una presa di coscienza netta da parte degli scrittori
della nuova generazione. Ognuno a modo suo, ognuno con il suo stile, ognuno con
il suo mondo di riferimento, ognuno con il suo punto di partenza. Non c’è una
scuola, ma ci sono esperienze differenti che convergono in un "coro"
complessivo. E spesso amaro più che dolente. Tu hai citato Braucci e Montesano,
Morganti e De Silva. Io aggiungo Arpaia, Serio, De Santis, la Parrella, la
Cilento, scrittori geograficamente vicini come Piccolo e Pascale, un nome nuovo
come Mastroianni (e spero di non dimenticarne altri), saggisti come Picone e
Perrella. Alcuni di loro non vivono più a Napoli e non sono
"napoletanocentrici". Ma si avverte nei loro lavori, in maniera più o
meno pressante, l’urgenza di non sottrarsi alla realtà e ad un ancoraggio alla
terra che si esprime, ovviamente, in stili differenti. Per questo non parlerei
di nouvelle vague: siamo in presenza di una generazione di scrittori diversi
che non si astrae ma che sa calarsi nel proprio mondo di riferimento.
Quello che spaventa del panorama "napoletano" è
che non esista un editore dalle nostre parti capace di capitalizzare queste energie. Non so se in Italia esista ancora la possibilità di avere un Giulio Einaudi della Torino del dopoguerra, ma un editore che più di tutti rappresenti quel tipo di
vocazione.Comunque sia, credo che Napoli sia la sola grande città in
Italia a non avere un grande Editore, ma forse piccoli “grandi”…
Quanto all’editore, è una vecchia questione. Fermo restando che un Giulio
Einaudi non è più replicabile ovunque, qui come al Nord, il Sud sconta un gap
terribile non sul piano delle idee (che pure ci sono) ma su quello della
imprenditoria editoriale. Non mi preoccupa, comunque, il moloch che manca;
trovo che la Grande Sigla rappresenti una concezione vecchia. Mi preoccupa
invece la strozzatura distributiva, che rappresenta il vero assillo delle tante "case" che si vanno affermando con prodotti di altà qualità – e
tra tutte cito l’Ancora del Mediterraneo di De Matteis.
Marino Niola, in
una conversazione pubblicata proprio su Nazione Indiana, parlava di una sindrome di Penelope. Diceva
"Napoli è una città che disfa, o dissipa, incessantemente ciò che fa, o cumula. Ma qui siamo a mio avviso più
vicini a quella che Bataille, nel saggio sulla dépense, chiama la “proprietà
costitutiva della perdita”. Come ti rappresenti Napoli?
Infine,
la rappresentazione di Napoli. Non mi piace questo continuo, convulso oscillare
tra la speranza irriflessiva e l’orrido più cupo, tra il Rinascimento e
l’Inferno. Credo che siano teoremi semplicistici, slogan di copertura, analisi
poco attente. Serve altro, per capire una realtà strutturata e de-strutturata
come quella partenopea. In questo, forse, molto ci è stato d’aiuto Saviano.
*avere successo nello sport, nel cinema, in tv, in economia, in politica, etc. etc. in Italia è lecito, lecitissimo, anzi doveroso. Tutti, anzi, ti leccano i piedi. Tutti saltano sul carro del vincitore.
Ma il successo nel *virgolette* mondo della cultura *virgolette* per chi in quel mondo ci vegeta è davvero INACCETTABILE!*
ma ‘ndo’ vive ‘sto qua?