La vostra eccetera legge storie, evita di guardarle in televisione, raccoglie piccole notizie al telefono e via mail (i volontari serravallesi partiti per l’Abruzzo, di cui parlava ieri il sindaco Rocchi), risponde – come può – a quelli che trovano folle l’idea di ricostruire case con muri in pietra.
E si prende qualche giorno di pausa. Lasciandovi l’intervista con Valerio Evangelisti uscita su Mente e Cervello. Buona Pasqua, comunque.
Valerio Evangelisti è lo scrittore che ha creato Nicholas Eymerich, l’Inquisitore domenicano che è protagonista dei suoi romanzi più noti, e che è fra i pochi villain (è crudele, spietato, misogino) a suscitare amore incondizionato nei suoi fan. Ma il ciclo di Eymerich (ultimo titolo, La luce di Orione) non è semplicemente un ciclo storico: perché le avventure del’inquisitore si incrociano con presenze sovrannaturali, scivolamenti nel futuro, miti arcaici. E’ un fantasy? Forse. Fantascienza. Anche.
Per giunta, non c’è solo Eymerich nella vasta produzione di Evangelisti: c’è Nostradamus, nella fortunata trilogia di Magus, c’è il ciclo del Metallo urlante, la ricostruzione storica di Noi saremo tutto e dei due libri dedicati alla rivoluzione messicana, e c’è il recentissimo Tortuga, con i Fratelli della costa fedeli a Luigi XIV re di Francia.
La bibliografia di Evangelisti (che è anche saggista e fondatore della più importante web-zine letteraria italiana, Carmilla) è indispensabile per capire come ci si dovrebbe muovere, oggi, nel panorama dei generi letterari. Attraversandoli, e non chiudendosi a riccio in una difesa più di casta che di purezza. Sembra un discorso ovvio: ma è la difficoltà maggiore che hanno riscontrato gli autori di noir e di gialli, negli ultimi cinque anni, quando hanno intrapreso una rifondazione del genere che passava proprio per la contaminazione. Laddove l’arroccarsi a difesa viene sia dal genere medesimo che dagli stessi editori e librai: per una questione di scaffali.
Partiamo da qui, dallo scaffale: che diventa difficile da decidere per quanto riguarda la tua opera. Romanzi storici? Fantascienza? Horror? Fantastico? Western? Avventura? Penso a Tortuga, anche. E penso a tutto il resto. E penso, e ti chiedo, quanto ha senso costringere la narrazione in una sola definizione?
Sono orgoglioso del fatto che i librai abbiano difficoltà a collocare la mia narrativa in un settore specifico. Inizialmente finivo regolarmente nell’angolo della fantascienza, anche con romanzi per due terzi storici e per un terzo fantastici come Magus. In realtà, pure i miei primi romanzi “fantascientifici” toccavano generi vari. Adesso ho rotto la gabbia (al prezzo di sacrificare un poco Eymerich, il mio personaggio più famoso) e classificarmi è diventato difficile. Era il risultato che mi prefiggevo fin dall’inizio. C’è chi mi inserisce nella categoria generale dei “romanzieri d’avventura”. La qualifica mi onora, però spero di sfuggire appena possibile anche a quella definizione. La narrativa che amo è libera e poco etichettabile.
Restringiamo il campo al tema del fantastico. Qui, mi sembra, le acque si confondono ulteriormente, e non è ben chiaro, nel nostro paese, cosa sia per esempio fantasy e cosa horror e cosa fantascienza. Ma la sensazione è che ci sia una parte di autori che insista per mantenere alzate le barriere, anziché abbassarle. Cosa ne pensi?
Abituati al ghetto, esistono scrittori che lo scambiano per il mondo intero. Finiscono per adattarvisi e per ritenere ostile, in nome del loro comfort, tutto l’universo “esterno”, che li ignora. Li comprendo, li stimo, ma ho fatto una scelta diversa dalla loro. A me interessa una narrativa che si scontra-incontra con grandi temi storici e sociali, che si confronta con il presente (anche se mascherato da passato o da futuro). Io non ho una formazione letteraria, ho studiato e per un po’ insegnato scienze politiche – storia, sociologia, economia. La grande fantascienza che lessi da ragazzo era piena di suggestioni di quel tipo. Si parlava del futuro per riferirsi all’oggi. Chi si chiude nei recinti dell’horror, della science fiction, del giallo ecc. rischia di creare da solo il proprio campo di concentramento.
Penso al lavoro fatto sul genere, nei campi del noir e del giallo. Nobilitato, portato al massimo livello di visbilità, e giustamente dissolto dentro il mainstream. Credo che in Italia la nebulosa di testi che ora “risuona” nel New Italian Epic debba molto a quell’esperienza. Ma due settori sembrano ancora essere immuni, o poco toccati, da questo discorso. E penso proprio a fantasy e horror. Perché?
Il giallo-noir di Macchiavelli, Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, Camilleri, Fois e altri, è stato il primo a sfondare le barriere. Parlava di società italiana proiettandole contro una luce fredda, mentre i bestseller correnti mettevano in scena drammi individuali magari interessanti, però avulsi dal contesto socio-economico, ed evitavano di prendere posizione. Qualche volta si limitavano a esercizi linguistici. Il noir, dunque, è stato importante, anche se poi ha generato una serie di romanzetti hard-boiled che dei modelli americani o francesi traevano solo le frasi sincopate e ciniche dei dialoghi.
Diverso il discorso per il fantasy e l’horror. Il primo ha preso piede (relativamente) in Italia quale antitesi alla fantascienza e alla sua logica. Prevalgono tra noi i testi poetici e carini, scritti da donne o ragazze per compiacere un pubblico di adolescenti – salvo occasionali scene “hard” di duelli, per tenere alta l’adrenalina. Quanto all’horror, non mancano in Italia autori di genio (Gianfranco Manfredi, Danilo Arona, Chiara Palazzolo, Alda Teodorani, Gianfranco Nerozzi), ma spesso ignari, salvo i nomi che ho citato e alcuni altri che non ho citato, delle profondità psicologiche che dovrebbero sondare. Insomma, il “genere” regge solo se è sorretto a sua volta da un progetto e da una filosofia. Altrimenti si riduce a trame stente e marionette spacciate per personaggi.
Quali sono, a tuo parere, i modelli dell’horror italiano? Ho spesso la sensazione che si
fraintenda, per esempio, Stephen King e si tenda ad applicare l’etichetta horror anche a sue opere che non rispondono al canone stretto di horror. Insomma, il mondo del genere va avanti, altrove, e da noi si resta fermi ad una concezione del genere “da nerd per nerd”, dove la cura del linguaggio e del meccanismo è minima. Eppure ci sarebbe un pubblico predisposto ad accogliere il mutamento. Cosa lo impedisce?
Il guaio delle etichette è che poi è difficile staccarle. Anche se scrivesse un manuale di architettura, King finirebbe ugualmente tra i romanzieri horror, nelle librerie, e ciò è per qualche verso naturale. Il libraio che si informa sui testi che vende è, non solo da noi, una specie in via d’estinzione. Io però non credo troppo all’efficacia dei modelli, si tratti di King, di Manchette o di Tolkien. Generano imitazioni non all’altezza dell’originale. Bisognerebbe essere capaci di violare sistematicamente la fonte ispiratrice, e sovrapporvi necessità di espressione personale. Faccio un esempio in positivo. Una giovane scrittrice palermitana, Alessandra Daniele, è diventata nota nel web per una serie di racconti brevissimi e fulminanti pubblicati nel sito Carmilla. Recentemente Urania le ha chiesto una serie di racconti più lunghi, da pubblicare in appendice. Poteva essere una specie di consacrazione. Lei ha risposto: no, io mi esprimo in altra maniera, la brevità dei miei pezzi è una scelta artistica. Temo che non sarebbero in tanti, in Italia, a reagire allo stesso modo. Specie se gli eventuali modelli di riferimento sono di origine non letteraria, ma televisiva.
Appunto. Veniamo agli stereotipi. Purtroppo molta narrativa fantastica italiana è blindata dentro i medesimi. Specie quando si parla di personaggi femminili. A cui tu, invece, hai sempre posto grande attenzione. Penso al grande antagonista del femminile stesso, Eymerich. Solo per fare un nome. Quanto occorre lavorare perché il narratore acquisti questa consapevolezza?
Di solito mi ispiro a donne che ho incontrato nella mia vita. Forse questo mi aiuta a comporre personaggi credibili. Normalmente si tratta di persone che per quanto vinte, umiliate, schiavizzate, mantengono una loro irriducibilità. Alla fine trionfano. Lo stesso Eymerich, nemico giurato del femminino in assoluto, finisce per soccombervi. Nella narrativa di genere prevalgono invece ancora oggi la figura della bambolona, della donna passiva, dell’intrigante o, di converso, della super-donna capace di battere un uomo sul suo stesso campo, che sarebbe quello della forza bruta. Non so quali siano state le esperienze personali degli autori (e in qualche caso delle autrici) verso l’altro sesso. Nel mio caso quel rapporto mi ha arricchito, e fatto superare lo stereotipo secondo il quale “tutte le donne sono uguali”, “tutti gli uomini sono uguali” ecc. Il semplicismo che alimenta, ormai da decenni, una trasmissione radiofonica come Fabio e Fiamma, inno quotidiano alla convenzionalità più vieta, porcheria da abolire.
Infine, una domanda sulla storia. Esplorarla per restituire la meraviglia che un tempo la
fantascienza riservava all’esplorazione del futuro è una, credo, delle tue chiavi narrative. Anche qui: quanto si fraintende il concetto di romanzo storico?
La scena geniale del film 1492 è lo sbarco di Colombo. Approda in America come in un altro pianeta, non sa cosa si nasconda dietro i cespugli e la nebbiolina. Pare scendere su Marte. La storia è ricettacolo di abitudini strane, di forme di dialogo oggi incomprensibili, di costumi totalmente diversi. Chi rilegga oggi il Satyricon di Petronio, primo romanzo della latinità, fatica a ricostruire la logica delle conversazioni tra aristocratici romani adagiati sul loro triclinio. E il fenomeno si ripete anche in prossimità dei nostri tempi. Una donna ritenuta bella in un film del 1910, oggi la definiremmo grassa e basta. Un romanzo storico non può restituire un passato quasi inconoscibile per intero. Può solo indurre nel lettore il “sense of wonder” di chi si curvi sull’ignoto, allo stesso modo della vecchia fantascienza. Fantascienza e romanzo storico hanno coltivato, e coltivano ancora, l’arte sublime del meravigliare.
come si fa a non volergli bene?
Ecco, io già adoravo Alessandra Daniele per i suoi interventi su Carmilla, ora, dopo aver letto l’intervista, se è possibile la amo il doppio !!
D’altra parte, è il Magister. Stima infinita.
Concordo con Anna Luisa. Alessadra Daniele scrive pezzi formidabili. L’ultimo, amarissimo, ha dato parole alla mia rabbia. Le esprimo qui la mia gratitudine.
Quello che dice Evangelisti è tanto profondo: è la sua cifra, nasconde la profondità in apparente superficie e dissolve la distinzione.
Quanto ad Alessandra Daniele, giuro che mi taglio una mano se non riesco a contribuire alla pubblicazione delle sue cose: è uno schiaffo stilistico all’Italia intera, la brillantezza che luccica in forma di “Shining”, un colpo di katana emotiva e intelligente…
Grande Valerio. Un abbraccio.
Elisabetta
Ringrazio tutti, e spero che Giuseppe receda dai suoi propositi di auto mutilazione, perché non credo proprio di meritare tanto 😉