ANALITICI: UN'APPARIZIONE DI WILLIAM GIBSON

Stiamo calmi, tiriamo un bel respiro (o almeno, data la temperatura, proviamoci) e cominciamo.
Il punto è che la vostra umile eccetera non ha nessuna voglia di trasformare l’intervento di Andrea Cortellessa di cui al post di ieri in un nuovo polemicone (abbiamo già dato fino al 2007 almeno, grazie).
Il punto è che mi piacerebbe capire quanto si possa forzare e curvare la rete per cercare di sviscerare alcuni punti che sono rimasti in sospeso, al di là della tentazione tutti-contro-tutti che è forte anche sulla carta, figurarsi qui.
E visto che giustamente mi si invita ad argomentare, provo a farlo, a modo mio e in più fasi.

Uno.

Scrive Cortellessa:

Si osserva (non a torto) che alcuni «generi» più di altri, specie la science fiction, hanno saputo «contaminare l’ambiente circostante e trasmutarlo, penetrare cioè nell’immaginario della "letteratura alta"». Commento: «il genere più nobile ha avuto il più nobile dei destini». Ma perché dovrebbe essere «nobile» accedere alla nefasta Torre «di chi […]vive di stile, snocciola nozioni e non dice niente» (come altrove è definito il mainstream)? Mistero.

Trasmutare l’immaginario della letteratura alta, per come la vedo io, non significa espugnare la Torre, ma invitare o dove possibile obbligare coloro che la abitano a guardarsi intorno, ad usare la propria lingua, i propri strumenti, la propria forza per raccontare quel che si vede dalle feritoie. Conosco l’obiezione: anche la letteratura che per anni è stata definita ombelicale, narrando un ombelico, narra il contesto che ospita il medesimo e dunque il reale.
Non è esattamente così. Proviamo a vedere cosa sosteneva, nel 1997, uno dei più illustri esponenti della science fiction come William Gibson.

Quell’anno veniva tradotto in Italia un suo libro considerato minore, Aidoru (Idoru in originale). Per chi non ricordasse, era una storia d’amore tra Rez, contante rock sino-irlandese e Rei Toei, un aidoru, un “idolo”, nata e vivente all’interno di un computer, naturalmente perfetta in sapienza e bellezza (Gibson la definiva una “architettura di desideri”). Come avvenne con Neuromancer, che anticipava molto della rete, Aidoru anticipava la nascita dell’Aidoru reale (che si chiamava Kyoko 96).

Fin qui, il rapporto fra scrittura e realtà sembra flebile e fatto di pura coincidenza. Da quel caso, però, si sviluppò una chiacchierata tra la vostra eccetera e Gibson che traggo dai miei Lip-files e vi metto a disposizione affinché tiriate le vostre conclusioni.

Mentre la fantascienza classica sposta molto in avanti i termini della propria narrazione, il cyberpunk si trova clamorosamente a ridosso del presente.

"Le dirò di più: io credo che il cyberpunk sia stato l’ espediente più naturale per comprendere un presente impensabile".

Ne parla al passato…

"Sì. Io sono molto lusingato dalla serietà con cui la cultura cyberpunk viene considerata dagli italiani. In America questa attenzione è prerogativa di una minoranza esigua. Per lo più, il cyberpunk è diventato tendenza: un ‘gusto’ colorato come quello dei gelati, una delle tante offerte della cultura pop".

Mentre la letteratura cyberpunk si proponeva un compito molto serio…

"Posso dirle quello che pensavo io, o meglio come mi ponevo nei confronti della fantascienza classica. Ecco: il mito centrale di quella fantascienza è la profezia. Invece io ho sempre creduto che il suo compito fosse quello, magari inconscio e comunque molto più difficile, di raccontare il mondo in cui già viviamo. Questa è davvero fantascienza".

Con Neuromancer ha centrato l’ obiettivo, non trova?

"E’ vero: in un certo qual modo, noi viviamo in una versione di Neuromancer. Naturalmente ho sbagliato alcune previsioni, ma questo è inevitabile. In genere la fantascienza non è tenuta ad indovinare il futuro. Non del tutto. Abbiamo previsto la televisione, ma nessuno poteva immaginare la cultura commerciale della televisione come la conosciamo oggi. Uno scrittore di fantascienza davvero presciente avrebbe dovuto descrivere nel 1925 i programmi di MTV: ovviamente, questo è impossibile. In Neuromancer, per esempio, avevo immaginato un’ Unione Sovietica che sopravvive uguale a se stessa, come un monolite immune ai cambiamenti, nel bel mezzo del XXI secolo. Oggi la cultura degli affari di Mosca è quanto di più simile al mondo di Neuromancer che io abbia mai visto. Voglio dire che diventa sempre più difficile capire la realtà contemporanea senza trovarci in situazioni che sembrano tratte da un romanzo. Sarà paradossale, ma le bugie della fiction sono quelle che si avvicinano di più alla verità".

Torniamo al suo Aidoru, allora, anche se il discorso riguarda anche gli altri suoi romanzi. Quello che lei ha descritto è sostanzialmente il prevalere dell’ immateriale sulla realtà tangibile. Questo si è realizzato in buonissima parte, però.

"Beh, diciamo che ho descritto una realtà di oggi invasa e colonizzata da una realtà prossima. Stavo per dire da una realtà del prossimo secolo, ma è più corretto parlare della prossima settimana. Sa qual è però l’ aspetto più interessante di tutto questo? E’ che le tecnologie relative al personal computer, al Net, al Web e alla Realtà Virtuale riescono ad esternare i sogni dell’ individuale. E dunque sono portatrici di una nuova, radicale potenzialità per la democratizzazione del ruolo dell’ artista. Voglio dire che offrono a tutti noi non soltanto i mezzi di produzione (in senso marxista), ma anche i mezzi di realizzazione artistica. Chiunque sia in possesso di un computer e di qualche software può farsi in proprio una rivista o un libro che non sono distinguibili dal prodotto di una casa editrice. Non ci stupiamo più se i musicisti di strada ci offrono i CD con la loro opera accanto al cappello dove lasciare gli spiccioli. E con programmi come Photoshop  ognuno può produrre immagini estremamente eccitanti o addirittura pornografiche: da una Bardot diciassettenne che esibisce una ragguardevole erezione a Lady D impegnata in una seduta di sesso sadomaso con O.J. Simpson. Ogni immagine, letteralmente, ha bisogno soltanto di un certo numero di clic del mouse per esistere".

Dunque, detta davvero in due righe.

Questo tipo di argomentazione si sviluppava un filone dichiaratamente di genere  Oggi, argomentazioni che possono essere definite assolutamente affini si trovano nella cosiddetta letteratura “alta”.

Questa, credo, è la trasmutazione di cui parlava Evangelisti quando si riferiva al nobile destino della fantascienza.

Ps. Ah, l’intervista a Gibson finiva così:

E’ curioso pensare che queste riflessioni vengano da uno scrittore che ha praticamente fondato il cyberpunk letterario scrivendo Neuromancer su una macchina da scrivere elettrica.

"La correggo: non era elettrica, era manuale. Ho saltato a piè pari l’ era elettrica per passare subito a quella del computer. Era una Hermes portatile del 1927: apparteneva al nonno di mia moglie, che faceva il giornalista, e sembrava proprio il tipo di macchina che Hemingway avrebbe potuto portare con sè per le sue corrispondenze sulla guerra di Spagna".

Che fine ha fatto?

"Ad un certo punto, si è rotto un pezzettino piccolissimo e non ho trovato il ricambio. Così, ho comprato il mio primo computer. La mia Hermes è ancora con me: ma è diventata una bellissima scultura".

Come va interpretata questa storia? Come un segnale di ottimismo tecnologico?

"Ma io sono ottimista. La crescita di Internet è un fenomeno straordinario, completamente nuovo. Forse non tutti se ne rendono conto: ma quello che stiamo vivendo può essere paragonabile, in termini di importanza culturale, al momento in cui vennero fondate le prime città".

71 pensieri su “ANALITICI: UN'APPARIZIONE DI WILLIAM GIBSON

  1. quasi OT
    e poi …così, forse perchè nessuno mi risponde, forse per aggiungere carne al fuoco, forse perchè anche noi siamo una piccola elite che è in contrasto con elite più grandi e cattedrate. Come se valvassini qualsiasi tirasse per la giacchetta Vittorio Emanuele.
    Dai, leggiamoci pure questo sguardo sul mondo e sul digital divide, che male non ci fa:
    http://www.informationguerr
    illa.org/rd.php/www.lsdi.it
    /dossier/digitaldivide/inde
    x.html
    besos e ‘notte

  2. @GIROLAMO. Un virus mi ha distrutto lo storico e gli indirizzi in rubrica. Puoi scrivere a Paolo Fabbri, che insegna alla Facoltà di Art & Design dello IUAV di Venezia, qui: pfabbri@iuav.it e chiedergli se il suo intervento su Neuromante al Telecom Future Centre di Venezia è reperibile da qualche parte. Io, purtroppo, non avevo la penna e ormai non lo ricordo più… sai com’è, noi anziani:-)
    @SPETTATRICE. Sei ingiusta. Io ti amo come il primo giorno in cui ti vidi spectare:-/

  3. Il cyberpunk identifica una corrente della fantascienza ben precisa.
    Ciberspazio (cyberspace) è un termine fondamentale della letteratura cyberpunk. La paternità è attribuita a Gibson, coincide con il racconto “La notte che bruciammo (Burning Chrome). Naturalmente, anche in questo caso ci sono pareri discordi, ma i vocabolari di lingua inglese fanno riferimento a W. Gibson.
    Il cyberpunk ha introdotto nella narrazione il non luogo cyberspazio, metaverso, rete, con l’antologia Mirrorshades curata da Bruce Sterling.
    Si inizia a parlare di cyberpunk nel 1884 e nel 1886, con la pubblicazione dell’antologia, il temine vine istituzionalizzato.
    Naturalmente è una mera convenzione, ma gli americani ci tengono molto a cronostoricizzare le correnti artistiche e/o letterarie.
    Quindi, no, il magnifico lavoro di Tamburini e Liberatore non è cyberpunk, come non lo è l’opera omnia del peovero Dick. Oddio viste alcune trasposizioni cinematografiche, più che cyberpunk, in questo caso si può parlare di cybertrash.
    Neanche gli scritti, antecedenti al 1886, di John Shirley sono consideri cuberpunk, anche se tutti gli autori di tale corrente considerano Shirley il vero padre del genere, o del sottogenere…
    Tre anni fa mi è capitato di passare due ore in compagnia di Bruce Sterling, alla domanda: “Si può parlare ancora di cyberpunk?” Lui ha risposto: “Il cyberpunk si è strasformato in una bieca visione new age del futuro prossimo, o se preferisci del presente”.
    Chi ha iniziato questa triste corrente, Paulo Coelho con il romanzo “L’Alchimista”?
    E tale corrente porterà in alto o in basso la visone pop della fantascienza sociale?
    Ai posteri o ai blogger l’ardua sentenza.

  4. Lucio, grazie per l’interesse, ma Fabbri lo conosco bene (sono persino riuscito a pubblicare un suo “scritto”), e sono di quelli che condividono il convincimento che il Paolo da Rimini, ossia il Doctor Agraficus del *Nome della rosa*, sia davvero lui (Eco pare non ricordi più se era voluta o no…), quindi so bene che non si era portato dietro niente di scritto ed è andato “a braccio” (salvo essersi preparato l’intervento con perizia e maestria). Pazienza, ho sperato che comparissero dei frammenti inediti del Dct. Agraficus 🙂

  5. sorry,
    ma questo è un bellissimo refuso
    e pure questo
    Neanche gli scritti, antecedenti al 1886, di John Shirley sono consideri cuberpunk
    Alessandra non volermene, il senso di quello che hai scritto resta invariato
    besos

  6. Lucio,
    maddai, per me rinunci ai tuoi sogni di carriera cinematografica? vuoi dire che continueremo a incontrarci sul web? non ci posso credere, potrei addirittura innamorarmi 🙂
    besos

  7. due copie nell’ovest e due in francia e due in a. latina per gli irriducibili dell’immonnezza
    tutto il mondo è paese

  8. Ammaniti intervistato a tutta pagina sull’Independent dell’altro giorno. Da qui si capisce che deve aver venduto più di una copia o due, in Gran Bretagna… :-)))
    Ecco il link.

  9. apparterfatto che sono ben felice – e vorrei pure vedere – che il mondo non sia formato da cloni del sotto-scritto, altrimenti davvero un incubo sarebbe.
    apparte questo dico che è vero che il cyberpunk nasce con l’intuizione della rete, dello spazio virtuale, but contiene molte altre notazioni, meno inventive certo, sullo spazio reale, su un mondo dominato da un gruppo di immense corporation in lotta tra loro, sull’ipertrofia dello spazio metropolitano, sul degrado e il riuso di manufatti che oggi sono icone della modernità (come il Golden Gate, metti), che il cyberpunk tratta invece come rovine, lacerti di un passato non più smagliante, le cui promesse non sono state mantenute, il cui futuro è un fallimento totale: in QUESTO senso l’opera di tamburini/liberatore è cyberpunk e molto attuale, dato che il futuro che delineano è già pienamente alle viste.

  10. appare piuttosto evidente da questa e simili discussioni che non si possiede un criterio univoco di qualità letteraria (come già qualche critico avveduto avvertì decenni orsono) e quindi nemmeno di letteratura.
    Si potrebbe gioirne alla buon’ora come della fine del sonno dogmatico o della necessità di maggior studio e distinzione, ma sarebbe troppo: per lo più si pensa di averlo invece, il criterio (il che non vuol dire averlo chiaro e definito) e di poterlo inculcare a verbose mazzate – snobistico/iniziatiche o democratico-populiste poco conta – sulla capa altrui.
    Come si dice: la scrittura è la guerra condotta con altri mezzi.
    (persino al più ingenuo pare chiaro che kafka non è dick e questi non è evangelisti. Ma in che senso “non lo sia”, si sa dirlo?)
    Si capisce che si dovrebbe cambiare l’ordine del discorso, non per parlar d’altro ma parlare in altro modo. Almeno per non vanificare all’istante quel poco che la letteratura, di per sé “inutile”, può farci di bene, per non ridurla al suo proprio mostro, cioè al piccolo sogno di afferramento di sé e del mondo in forma di significato.
    Ma siamo in grado? O tra l’apparente neutra anatomia del testo e la guerra dei tifosi c’è in mezzo solo il silenzio? E non è forse giusto così, o almeno non è l’ovvio, per noi?

  11. “in QUESTO senso l’opera di tamburini/liberatore è cyberpunk e molto attuale, dato che il futuro che delineano è già pienamente alle viste.”
    Ho specificato che trattasi di classificazione di una corrente della fantascienza sociale.
    Ha mio avviso non basta parlare di gomi o di moeru gomi, città a livelli o droghe sintetiche per rientrare nella dicitura specifica. E questo non ha niente a che vedere con quello che penso dell’opera di Tamburini e Liberatore, che trovo modernissima e difficilmente ripetibile in Italia.
    Ma è come dire che Andrea Zanardi di Pazienza sia il capostipite di tutta la letteratura pulp italiana. A mio avviso, potrebbe essere anche vero, ma…
    Era 1984 e 1986… va be’ so proprio rincoglionita.

  12. @angela
    anch’io sono un tarantino italiano (un tarantino di Taranto, che è ancora Italia per volontà del popolo sovrano: ), detesto Kill Bill e in generale tutto quello che Tarantino (che non è tarantino) fa, cammino piuttosto bene e non mi sono ancora accorto di essere morto – ma *Il sesto senso* è il film che avrei voluto scrivere io 🙂
    @bg
    “appare piuttosto evidente da questa e simili discussioni che non si possiede un criterio univoco di qualità letteraria (come già qualche critico avveduto avvertì decenni orsono) e quindi nemmeno di letteratura” – concordo, e aggiungo: la ricchezza di discussioni come quella innescata dal post su Gibson (a parte il solito troll livoroso, che evidentemente è una tassa da pagare) deriva proprio da questa mancanza
    @WM3
    a proposito dei leoni da tastiera: conosci la Trilogia Galattica (che è poi diventata una pentalogia) di Douglas Adams, dove compare un personaggoi che atterra su un pianeta, insulta qualcuno e riparte perché la sua funzione nell’universo è quella di insultare in ordine alfabetico ogni essere vivente?

  13. Avevo scritto un commento per rispondere a Canzian, si è perso, era il secondo a perdersi e dunque rinuncio, scusa @canzian, ma di ricominciare non ho voglia, vediamo se ti arrivano almeno le mie scuse per la non risposta

  14. oh suvvia, canzian.. come ti paghi l’affitto? non con l’accademia immagino, perchè se no sapresti che quei convegni che citi -al pari di tutti gli altri -sono solo occasioni per far viaggiare una popolazione altrimenti sedentaria come quella accademica, a spese del dipartimento di turno, e magari riuscire anche a farla riprodurre (in senso biologico, ovvio, lodge docet): gli interventi vengono ovviamente fatti su testi poco impegnativi, altrimenti ci si rovina la vacanza. così si prende il primo libro all’aereoporto -e quindi è più facile trovare i libri da te citati: magari un evengelisti su urania o un mito mondadori di ammaniti -leggerlo in volo e sfangarsi il convegno con un’amabile chiacchierata tra colleghi…

  15. Quindi riassumiamo:
    Piace ai lettori? Non conta, quelli non capiscono un cazzo ecc.
    Piace ai recensori? Non conta, quelli sono dei marchettari ecc.
    Piace agli accademici? Non conta, quelli sono mangiapane a ufo ecc.
    Quindi la conclusione:
    un libro, per essere di qualità, deve far cagare a tutti quanti.

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