I GENITORI DI ETHAN

Il 9 aprile scorso Jennifer e James Crumbley sono stati condannati a 10 e 15 anni di carcere per omicidio colposo. Sono i genitori di Ethan, il ragazzino quindicenne che tre anni fa sparò in una scuola del Michigan e uccise quattro compagni di classe. Ethan è già stato condannato all’ergastolo, mentre i genitori sono stati ritenuti colpevoli e, peggio, complici, per non aver capito che il figlio era in procinto di commettere una strage, ignorando un suo disegno violento e omettendo di custodire con attenzione una pistola presente in casa. Un precedente per tutto il paese, hanno commentato i giuristi. Lo è, ma non soltanto per il diritto: intanto manca, fra i colpevoli, il governo degli Stati Uniti e la sua politica nei confronti delle armi, da anni così ottusa da tollerare che il quaranta per cento delle famiglie possieda almeno una pistola. Peggio:  condannare per omicidio colposo i genitori significa considerare la famiglia una monade impermeabile al mondo, e dunque togliersi un problema, trovare il famoso capro espiatorio e, come faceva il generale Patton, continuare ad amare l’orrore e le macerie che si provocano.

DIRE LE PAROLACCE

Premessa non richiesta: dico le parolacce. Forse perché appartengo a una generazione dove la parolaccia era  trasgressione da far cadere casualmente durante il pranzo con le zie per vedere l’effetto che fa. Dico le parolacce, però, quando so di poterle dire: a casa, con amici e amiche, o quando mi scappano perché un’automobile passa correndo a un centimetro dalla punta delle mie scarpe. 
Non ne sono particolarmente fiera, intendiamoci: capita, quando ci penso mi rimprovero anche un po’, poi ripassa un’automobile a un centimetro dalle mie scarpe e io auguro al gentile guidatore di recarsi in un luogo non reperibile su Google Maps, ecco.
Però. Esiste una differenza che mi sembra a questo punto dimenticata fra discorso pubblico e discorso privato. E, no, non siamo negli anni Settanta di Zavattini e della sua provocazione radiofonica a due zeta. Nè, mi sembra, la parolaccia pubblica comporta la burinizzazione del mondo, né la solita divisione tra felici pochi e massa scellerata, dove i primi leggono Proust in treno e i secondi fanno i lanzichenecchi (cit.).
Mi sembra che l’uso della parolaccia in pubblico si debba a un motivo semplice quanto non nuovo: il cosiddetto popolo, di cui tutti facciamo parte, vive da un paio di decenni nell’equivoco che scambia spontaneità ed emotività della parola pubblica (ripeto, pubblica, sia essa scritta su un social, su un quotidiano, profferita durante un’intervista, pronunciata a un convegno) con la violenza verbale.

MICHELA

Oggi è il compleanno di Michela Murgia. Non riesco a trovare molte parole. Posto qui un breve articolo che è uscito sul Libro dell’anno di Treccani. Michela è con noi, ma non c’è, e questo è quanto.
“Per Michela Murgia la scrittura era politica. Non solo nei libri che ha scritto, tanti e importanti: da Ave Mary a Chirù, da Istruzioni per diventare fascisti, a Stai Zitta a God save the queer, e ancora il podcast Morgana con Chiara Tagliaferri, dove ha raccontato le donne di ogni tempo, fino a Tre ciotole, dove ha osato l’inosabile, raccontare la propria morte, con il coraggio e la gioia che solo una donna straordinaria poteva esibire.”

Molto velocemente, ma a tempo debito riassumerò le riflessioni che vengono dal pasticcio Buchmesse, oggi mi limito a postare la mia recensione a You Like It Darker di Stephen King, apparsa su TuttoLibri due settimane fa. 
Poi, ci sono i sogni.
L’incubo di Danny Coughlin è l’altro racconto lungo della raccolta: nasce davvero dall’incubo del custode di una scuola, che sognando scopre che nel terreno di una vecchia stazione di servizio è sepolto il corpo di una donna. Ma decide di andare a controllare, e scopre che è vero, ma sarà lui a finire in un incubo. “Cosa succederebbe”, scrive King, “se un uomo avesse un unico flash psichico? Un sogno che gli mostrasse dov’è sepolto un corpo? Gli crederebbero o penserebbero che sia lui l’assassino?”. I sognatori, infine, è una gemma sulla vecchia questione del fantastico: cosa succede quando una porta che deve rimanere chiusa inizia ad aprirsi, per colpa tua? Altro non si dice, se non che in controluce si intravede l’omaggio a Lovecraft e, a chiusura del libro, a quella che King considera la sua maestra, Shirley Jackson, e alla sua Hill House insana perché non sogna: “Il sonno della ragione genera mostri. Ho sempre pensato che questo tipo di sonno, e questi mostri, siano una componente necessaria della sanità mentale”. E’ vero, ed è vero che abbiamo disperatamente bisogno di storie così.

La discussione di ieri sugli anni Settanta che ha occupato tutta Fahrenheit, ha, spero, restituito quella che ne è stata la caratteristica: la volontà di cambiare se stessi insieme alla società, in ogni ambito. Letterario, sociale, politico. E personale, certo.
Per questo non è possibile raccontarli per dicotomie, anche se le dicotomie restano.
Per questo, ho trovato incredibilmente indicativo il messaggio dell’ascoltatore che, da figlio di divorziati, ha trovato “orribile” la legge sul divorzio. E’ la mia ferita, quindi parlo per tutti. Questi sono i nostri anni, e dobbiamo farci i conti, ogni giorno.
Ps. Nota personale. Ho ricevuto un altro messaggio ieri, che rimproverava, auspicando altre conduzioni, la mia “poca grazia”. Ma quella, Ursula Le Guin alla mano, è per me un onore. Perché rovesciare la caraffa del té, e anche, il tavolo, è qualcosa che mi rende fiera.

BRUCIARE

Bruciare. E’ la parola che non può non venirmi in mente davanti agli orrori di questi due giorni. La riprendo, la uso, provo ad allargarla. Fra due giorni ActionAid presenterà i numeri del cosiddetto decreto flussi. A marzo sono morte 39 persone, bruciate nel centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. Allora ne ho scritto per La Stampa, posto l’articolo qui. Oggi penso a Rafah, ad altri morti fra le fiamme, a una violenza che sembra non avere fine. Ai bambini. Alla nostra impotenza, che le parole non bastano a scalfire. Tutto qui. Cessate il fuoco, ora, subito.

Comincia il mio ultimo turno di Fahrenheit, che durerà fino al 28 giugno (con una pausa nella settimana di Gita al Faro). Sarete dunque pazienti se userò il blog per riproporre vecchi articoli. Questo, per La Stampa, parla di Grammamanti di Vera Gheno.
Conoscere le regole è ovviamente importante, e la grammatica è essenziale: ma conoscere la lingua implica qualcosa di più. E poi? Sforzarsi, sempre, non irrigidirsi, capire:  “amare richiede fatica: nessuna relazione prospera se non ci si impegna a farla funzionare. Cosí, anche quella con le nostre parole deve essere curata. È una fatica che viene ripagata, perché grammamare ci fa vivere meglio. Per me, la salute passa anche dalle parole: salus per verba, per usare il latino”.”

Si vota fra una manciata di giorni e io mi chiedo se esista un altro modo di parlare di politica. Ma anche di cultura. Ma anche di qualsiasi argomento. Ieri riflettevo su Facebook sul confronto televisivo tra Vera Gheno ed Emanuele Trevi pensando proprio, al di là del tema, alla prassi consolidata per cui si va in televisione per annientare l’avversario, e che si parli di linguaggio o di qualsiasi altro argomento a questo punto poco conta. 
Salutammo la Neotelevisione di Angelo Guglielmi, quella che trasformò RaiTre dal 1987 al 1994, come il cambiamento necessario, come l’avvento di un progetto intellettuale e insieme popolare fino a quel momento inedito. E così era. Ma oggi non c’è un Angelo Guglielmi a ragionare sui progetti: e quelli che allora erano programmi o modalità innovative hanno oggi esasperato i toni e svuotato i contenuti, prendendo su di sé la brevità dei social, e rendendo inutile ogni possibilità di approfondimento reale.
E allora, come ci si informa, come si va al voto?

Ieri pomeriggio ho partecipato a una discussione molto interessante organizzata da Pandora Rivista presso la sede di Treccani, coordinata da Giacomo Bottos, compagni di chiacchierata Paolo Di Paolo e Giorgio Zanchini. Interlocutore prezioso, Giuseppe Laterza in platea.
Occasione rara, quella di potersi confrontare allargando il campo in un momento complesso e, sì, frammentato da ogni punto di vista, dove è difficile progettare a lungo termine e dove è difficile anche trovare i luoghi dove prendersi il tempo per discutere. Il web e i social, certo. Ma servono anche i luoghi fisici. E, come scrivevo qualche giorno fa, i grandi festival si stanno orientando più verso l’enfasi del numero che verso l’occasione dell’incontro. Come, forse, era fatale.

L’umana pietà è quella che dovrebbe sempre guidarci, quella che dovrebbe impedirci di gioire per la morte altrui, in ogni circostanza. Ammetto, però, che stavolta mi è difficile: non esulto, non gioisco, ma quando ho saputo della morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi ho pensato che, se esiste una morte giusta, forse è proprio questa.
Ho pensato ai crani fracassati di Mahsa Amini, di Armita Garawand, di Nika Shakarami e delle loro coetanee, alle sei pallottole che hanno ucciso Hadith Najafi, alle migliaia di esecuzioni (numero ufficiale nel 2023, 853: ma secondo Amnesty International è molto più alto). Ho pensato al rapper che ha sei mesi in più di mia figlia, Toomaj Salehi, e che è stato condannato a morte per aver partecipato alle proteste. E penso che abbia ragione Azar Nafisi: “I Paesi europei dovevano scegliere tra il regime e il popolo iraniano e hanno scelto il regime”.

Loredana Lipperini
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