Ieri, parlando con i due ospiti di Fahrenheit, biologi, zoologi e ambientalisti, dell’orsa Jj4, mi sono fatta un bel po’ di domande. La prima me l’ero fatta da un po’ di giorni, e riguarda il fatto che tutti hanno detto tutto, su questa storia. Se volete sapere perché la tuttologia, in questo caso, è un errore, leggete l’articolo di Mauro Fattor docente al Master Fauna e Human Dimension dell’Università dell’Insubria, membro dell’associazione teriologica italiana, collaboratore di National Geographic Italia.
Dice tutto. Parlando con Filippo Zibordi, che appunto ne sa, ho riflettuto sulle sue parole a proposito dell’orsa. Ha premesso che rispondeva con il cinismo dello zoologo e che a suo parere doveva essere “rimossa” (che sta per due cose: messa in condizione di non nuocere o abbattuta).
Mi è venuto il cuore stretto, e mi sono chiesta perché.
Ed ecco la seconda considerazione. Che riguarda non il nostro rapporto con gli animali in genere, ma con quelli che ci sono compagni. Dove e come sbagliamo? Non lo so. Non sono in grado di rispondere. Però vi ripropongo quello che ho scritto qualche tempo fa sui gatti. Magari serve, magari no. Ci penso ancora.
Icona: un racconto di Borges, Funes el memorioso. Un uomo con una memoria prodigiosa, costretto a ricordare ogni singolo istante della sua vita. Non solo il bicchiere sul tavolo, ma tutti gli acini dei grappoli d’uva che formano la pergola sopra il tavolo. Non potendo dimenticare nulla, finisce col non avere ricordi.
Mi chiedo, allora, come si fa a trasformare la memoria in qualcosa di vivo. Perché esiste una contraddizione tremenda fra la ragazzina che svolge religiosamente il tema in classe sulla Shoah e, una volta a Birkenau, sorride allo schermo del cellulare. Ma non è, a mio parere, colpa sua. E’ un ripensamento generale della memoria e del come la trasmettiamo, che andrebbe fatto.
Nicolas Eymerich è una metafora impeccabile dei meccanismi del potere. Ma il potere mortale che rappresenta non è innocuo in quanto lontano nei secoli: pur accuratissimi nella ricostruzione storica, i romanzi di cui è protagonista mettono a confronto il crudele domenicano con avvenimenti misteriosi che quasi sempre aprono una o più dimensioni temporali parallele. Il che, di fatto, permette al lettore di capire che si sta parlando del presente. Se è fantascienza, è una fantascienza che conferisce al passato e al futuro ipotetico la stessa caratteristica di mondo alieno in grado di rispecchiare le inquietudini del nostro presente. E con un intento preciso: perché Evangelisti ha sempre sostenuto che la narrativa fantastica “con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisca un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”.
Un anno fa è morto Valerio Evangelisti. Oggi ne parleremo a Fahrenheit. In realtà non si è mai smesso di parlarne, e grazie al cielo di leggerlo. La speranza è che sia così ancora e ancora e ancora. Un anno fa scrivevo questo, per La Stampa. Lo ripropongo, e lo riproporrò ancora e ancora e ancora.
Succede che sulla bacheca facebook della rivista Focus il social media manager faccia una domanda (fessa): “Qual è la puzza più puzzolente al mondo?”. Posso lasciarvi immaginare il tenore dei commenti: razzismo a valanghe, un po’ di goliardia di bassa caratura. Poi però c’è questa signora che si chiama Sara Ferrero (sì, certo, nomi e cognomi), di Torino. Una signora elegante, da quanto si intravede dall’acconciatura dotata di un bel fiocco nero sulla nuca, e non giovane, immagino della mia età. La signora posta direttamente una mia foto, ingrandita sul sorriso. Insomma, io puzzo, solo perché in quella foto si vede la mia imperfetta dentatura. Non racconto questa storiella per lamentarmi, ma per l’ennesima considerazione sui social a cui facevo già riferimento un paio di giorni fa. Non solo abbiamo un problema di parole, come detto: ma di autoinganno. Pensiamo, cioé, di poter scrivere qualsiasi cosa contando sulla nostra invisibilità.
Quanto alla signora Sara, posso dirle che dopodomani, sabato 15 aprile, sarò alla Rocca di Arignano (non lontano da Torino) per Castelli in giallo, e che alle 18.30 leggerò La lotteria di Shirley Jackson. Sarà l’occasione per conoscerci, parlarci, e magari pure per mostrarle la mia dentatura nuova, a cui finalmente sto lavorando. La aspetto.
Chi frequenta Facebook, e si muove in una bolla letteraria, conosce, spero, Monica Rossi. Monica Rossi è dichiaratamente un uomo, la cui identità resta misteriosa. E’ persona che conosce benissimo il mondo editoriale in ogni sua piega, ne saggia vizi e virtù ed è ricca di arguzia e franchezza. Da qualche settimana, ha deciso di intervistare altri frequentatori del mondo editoriale: scrittori e scrittrici, soprattutto, ma non solo.
Leggetele tutte. Quelle che mi hanno colpito di più sono le ultime due: ad Alfonso Signorini e Veronica Tomassini. Quella a Signorini è un fake: molto scoperto, non individuato da molti commentatori, e che pure contiene una parte di assoluta verità. Quella a Tomassini fa male, e fa pensare parecchio.
Dodici anni fa Tullio De Mauro ci diceva che solo il 20 per cento degli italiani possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura per orientarsi nella società.
Partiamo da qui. Come mai non leggiamo quello che gli altri scrivono e interveniamo prima di farlo? Come mai non riusciamo più a leggere? L’urgenza è semmai quella di scrivere subito quello che pensiamo, prescindendo dai testi. Ma l’arricchimento delle nostre vite (tutte) è dato dall’ascolto e dalla lettura degli altri e delle altre. Se questo viene meno, e sta venendo meno, ci ritroveremo privati delle parole necessarie, e ne balbetteremo poche, sempre le stesse, senza neppure rendercene conto.
Forse bisogna cominciare a prenderci spazi e tempi sempre più ampi di disconnessione.
Andai a trovare mio padre, appena sposata e non ancora trentenne: sarebbe stato uno dei nostri ultimi incontri. Gli feci una visita a sorpresa, e parlammo molto, quel pomeriggio: alcune cose le ho dimenticate, altre sono ancora con me, e con me restano.
Ma ho voglia di condividerne una, perché è il regalo più grande che mio padre mi abbia fatto. Non vengo da una famiglia benestante, e dunque il regalo non riguarda la stabilità economica o il raggiungere traguardi altissimi o posizioni di potere. Quel che mi disse allora, ma me lo aveva già detto altre volte, è di fare quello che mi faceva sentire bene. Male non fare, paura non avere, ripeteva sempre. Qualunque cosa tu scelga, diceva, fai in modo che non contrasti con quella che sei davvero. Non forzarti, diceva, non frequentare le persone per obbligo, non mentire né agli altri né a te stessa. Non censurare le tue idee sperando di ottenere qualcosa in cambio. Non sedere ai tavoli dove si bara (era un bravissimo giocatore di poker: sapeva bluffare, ma non ha mai barato). Non fare nulla di cui non saresti fiera.
Dopo la trilogia del dollaro di Sergio Leone, e dopo il successivo C’era una volta il West, il western all’italiana o spaghetti western conobbe una proliferazione inarrestabile. Ma dopo quel boom, che contagia gli anni Sessanta e Settante, il filone si dissecca e muore.
Ci ripensavo ieri sera tornando dal live di Omissis al Teatro Palladium. Che è andato benissimo, come tutti i podcast live. Vanno bene anche i podcast, intendiamoci: però comincio a chiedermi se non stiano correndo il rischio degli spaghetti western.
Questo post parla di speranza partendo da una distruzione. Quella di Gondolin, la città degli elfi che dalle forze oscure viene distrutta. Muore, in quella distruzione, l’elfo Glorfindel, che precipita nel baratro avvinto alle fiamme fredde di un Balrog, come nel Signore degli anelli avverrà a Gandalf (eppure Glorfindel, in qualche modo, tornerà, come Gandalf). Ma si salva e fugge Eärendil, figlio di un’elfa e di un uomo,il portatore della luce del Silmaril, e chiamato anche “stella dell’alta speranza”. Che lo splendore di quella stella sia sempre di conforto.
Ci sono giorni, come questo, dove è importante ricordarlo.
La ridicolizzazione degli intellettuali e la riduzione dei medesimi a “conventicola” è faccenda antica e insieme attualissima: rappresentarli come un gruppo di annoiati conservatori pronti a sollevare l’indice per ammonire funziona sempre, come le barzellette sui carabinieri, e “intellettuale” (come “femminista”) è ormai una parolaccia, almeno in Italia. Un gran peccato (per chi racconta le barzellette e parla di conventicole).
E però. Siamo sicurissimi che le colpe stiano solo dalla parte dei ridicolizzatori?
Un paio di esempi di lavoro culturale: gli articoli di Annamaria Testa su ChatGPT e AI, (su Nuovo e Utile) e lo strepitoso Festival di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti. Operai e letteratura, lotta di classe e intellettuali: come ai vecchi tempi? Eh no, esattamente in questi tempi, nei modi e nelle forme da scoprire insieme. E con migliaia di persone che partecipano, peraltro.
In poche parole: i ridicolizzanti di cui sopra hanno ragione nel momento in cui chi fa lavoro culturale o dice di farlo non si guarda intorno. Ma, grazie al cielo, non funziona (sempre) così. E poi, come diceva Leonardo Sciascia: “L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi”. Ecco. Eccetera.