Io non la conoscevo, Savina Disanti, ma la conoscevo attraverso le parole delle amiche. Io non la conoscevo, la “libraia di Vieste”, ma conosco molte, moltissime libraie, e moltissimi librai, perché in questi anni di cammino sono stata loro ospite, e ho sempre pensato che senza librerie chi scrive non raggiunge nessuno, e che quando si piagnucola sulla propria bravura non riconosciuta si pensa sempre a se stessi, come al solito, e pochissimo a chi fa di tutto perché chi scrive abbia il suo riconoscimento.
Sapevo, di lei, che organizzava incontri e collaborava con manifestazioni estive, e sapevo che era un punto di riferimento, come sono molto, molto spesso, le libraie e i librai. Per questo la ricordo anche io, scegliendo le parole di chi, invece, la conosceva bene, Lucia Tancredi.
Rendere i libri una cosa possibile. Questo dovremmo fare, invece di piangerci addosso, ogni santo giorno, rinchiudendoci sempre di più nella gabbia della nostra autostima ferita. E ricordare chi lo ha fatto, con amore.

Gli scrittori e le scrittrici, incluso Stephen Markley di Ohio, tornano a raccontare il piccolo, il minimo, i campi di soia o di mais o di radicchio o di lenticchie, le fattorie e le botteghe e i negozietti sfigati. Però quando si racconta di quei luoghi piccoli si può provare a scardinarne i confini, e vedere quello che abitualmente non si vede. Inoltre, quel tipo di scrittori e le scrittrici, se letti davvero, e se letti non facendo il contropelo all’estetica (o almeno non solo, e sicuramente non per dirsi e dire quanto si era più sperimentali e intelligenti e colti in giovinezza), illuminano il presente, e ci fanno capire cosa sta accadendo. Oggi su La Stampa c’è un bellissimo articolo di Simonetta Sciandivasci che racconta non solo JD Vance, l’autore di Elegia americana e oggi vice di Donald Trump, ma coloro che hanno raccontato le zone rurali e impoverite. Non sono solo storie, ma finestre.
Succede anche in Europa, succede anche in Italia. Quando, in questi giorni, leggo le polemiche un po’ retrò sugli scrittori che non sono più i ribelli di una volta (peraltro ci sono, solo che non se ne parla: penso, per fare un paio di nomi, a Girolamo De Michele e ai Wu Ming e a Claudia Durastanti e ai working class di Alberto Prunetti), resto sconfortata ancora una volta per l’autoreferenzialità della discussione. Parlare di sè, sempre di sè, e mentre qualcuno ti sta dicendo che il mondo è davvero in fiamme tu pensi alla noia della leggibilità.

E’  legittimo, naturalmente. Ma se solo si leggesse davvero, e si leggesse con curiosità, e se magari persino coloro che fanno politica leggessero per capire, non dico che cambierebbe tutto: ma forse cambierebbe qualcosa.

CONDOTTA INCAUTA

Il 31 marzo del 2009, Guido Bertolaso, capo della Protezione Civile, convocò la commissione Grandi Rischi per rassicurare la popolazione: nonostante le scosse continue che duravano da giorni, non ci sarebbe stato un terremoto. Il giorno prima chiama l’assessore regionale Daniela Stati. Le dice: “Questa riunione non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente” ed “è più un’operazione mediatica”
Nella notte del 6 aprile 2009, muoiono fra gli altri, Nicola Bianchi, Ivana Lannutti, Enza Terzini, Michele Strazzella, Daniela Bortoletti, Sara Persichitti e Nicola Colonna, gli studenti che rimasero in casa perché rassicurati dalle parole della commissione. E’ stata colpa loro, è stato deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila. Sono morti “per condotta incauta”. La loro, non quella di chi ha invitato la popolazione a farsi un bicchiere di Montepulciano e stare tranquilli. Loro. E le loro famiglie dovranno naturalmente pagare le spese processuali. Che altro? Chiedere scusa a Bertolaso? Peraltro, il medesimo è stato assolto per non aver commesso il fatto nel 2018, quindi potrebbe persino pretenderle.

Il fatto è che questa faccenda della colpa di chi muore non è nuova. Dopo il terremoto del 2016, ho letto con questi occhi commentatori famosi e sconosciuti che dicevano che, insomma, chi abita in un territorio sismico un po’ se la cerca e che – parole di una nota blogger, non riesco a dimenticarle – potevano pur trasferirsi in città.
Ricordare sempre. Anche se c’è chi non viene ritenuto responsabile di quanto ha fatto, detto, fatto di nuovo.

Stephen King definisce su X “underused” Shelley Duvall, scomparsa ieri, che fu protagonista della versione di Shining girata da Stanley Kubrick, da sempre tormento dei kinghiani, oltre che di King medesimo. Naturalmente ognuno ha le sue ragioni, e i cinefili venerano Kubrick così come i lettori del romanzo provano ad alzare la manina e dire che, davvero, il romanzo è un’altra cosa, perché i suoi personaggi, soprattutto Jack Torrance, sono diversi, attraversati da chiaroscuri e, soprattutto, redimibili. Che un padre, in King, sia redimibile è il centro della narrazione.
Però lascio la parola direttamente a King, in un intervento del 1983 su Playboy.

Ho scritto di Alice Munro su La Stampa di oggi e rimando all’edicola per l’articolo.
In compenso, sul New York Times esce un pezzo di Alexandra Alter, Elizabeth A. Harris e Vjosa Isai dal titolo A Silence Is Shattered, and So Are Many Fans of Alice Munro.
Riporto qui alcune reazioni di scrittrici e scrittori. “Perché è rimasta?”, ha scritto Atwood sulla decisione di Munro. “Penso che appartenesse a una generazione e a un luogo che nascondevano le cose sotto il tappeto”. E ha aggiunto: “Mi sono resa conto di non sapere nulla di chi pensavo di conoscere”.
C’è altro, come leggerete, ma non ho molto da aggiungere. Chi desidera continuerà a leggerla, chi non se la sente non lo farà. Il resto fa parte degli abissi in cui ci specchiamo, tutte e tutti, anche i puri.

FALSA VICINANZA

Facciamo un esercizio collettivo. Cosa ci spinge a identificare gli scrittori che leggiamo con una persona che conosciamo? Perché immaginiamo che siano tutte persone belle? E cosa ci succede quando chi amiamo sulla pagina commette un atto che ci ripugna? Non parlo di Alice Munro, oggi (dovrebbe uscire nei prossimi giorni un mio commento sulla Stampa, quindi rimando a quello), ma di tutti coloro che ci hanno sorpreso e da cui ci siamo sentiti traditi: non tanto  quelli di ieri ma quelli che crediamo di aver sfiorato davvero perché nostri contemporanei.
Marion Zimmer Bradley muore nel 1999 a 69 anni. E’ stata accusata di pedofilia della figlia, Moira Greyland, di essere stata abusata da lei e dal padre. In modo orribile. Leggere la sua poesia, Mother’s Hand, fa malissimo. E nessuno dovrebbe mettere mai in dubbio la versione della vittima, a mio parere.
C’è un ma. E non si tratta di “contesto”, non si tratta di “guarda le femministe fetenti che difendono le loro autrici”, come qualche imbecille pure sta scrivendo in giro. Si tratta del nostro rapporto, sbagliato, con i nostri eroi e le nostre eroine letterarie. 
In proposito, per ora, mi limito a postare qui quanto dichiarò in un’intervista del 2018  Michela Murgia. Che di Bradley era appassionata lettrice.

Si sta parlando moltissimo di letteratura, e insieme non se ne sta parlando, in queste ore. Ed è per questo che per un po’ sospendo ogni parola su Alice Munro e sulla rivelazioni della figlia Andrea: è una vicenda così atroce e dolorosa che occorre prendersi il tempo, anche qualche ora, per dire qualsiasi cosa.
Però parlo anche io di letteratura. Stamattina aprendo la newsletter del New York Times, ho trovato la prima parte della lista dei cento migliori libri pubblicati dal 1 gennaio 2000: la lista è stata stilata grazie ai voti e ai contributi di Stephen King, Bonnie Garmus, Claudia Rankine, James Patterson, Sarah Jessica Parker, Karl Ove Knausgaard, Elin Hilderbrand, Thomas Chatterton Williams, Roxane Gay, Marlon James, Sarah MacLean, Min Jin Lee, Jonathan Lethem,  Jenna Bush Hager, e altri. Vengono pubblicati venti titoli alla volta, partendo dagli ultimi posti.
Bene, la prima cosa che mi è venuta in mente è che ne conosco pochi.

Un post lungo, e forse avrei dovuto scriverlo prima: perché, e questo è un mio errore, dopo tutti questi anni avrei dovuto sapere che le polemiche non si fanno sui social. Ricapitolo: qualche giorno fa, Walter Siti rilascia a Rivista Studio un’intervista. Segue polemica.
Le considerazioni di questo post contengono: un piccolo riepilogo sul perché ho sempre considerato Siti un grande scrittore (anche quando altri e altre lo linciavano); la questione del non vedere la questione stessa; il perché odio il politicamente corretto (paura, eh?); il perché si confonde la cosiddetta cultura woke con il problema dell’autorevolezza delle scrittrici; il perché a volte e non sempre etica ed estetica vanno anche di pari passo in letteratura.
Con una rivelazione finale: Michela Murgia, per dire, lodò “Bruciare tutto”, laddove altre e altri lo avevano già messo sul rogo.
Buona lettura.

Intanto, un benvenuto a chi segue da pochi giorni questo blog, dopo il lungo addio a Fahrenheit che di fatto ha occupato l’intero mese di giugno. Ma ora è tempo di ricominciare, e approfitto per ricordare dove sarò nei prossimi giorni.
Nel frattempo, alla luce di quanto sta avvenendo in Francia, ripubblico una lezione esemplare di Tolkien che forse Macron dovrebbe apprendere: avviene nel momento in cui il professore dà il giusto significato a una parola, e quella parola è ofermod. Non audacia, ma orgoglio. Vale la pena, allora, rileggere quello che Wu Ming 4, ormai dodici anni fa, raccontò in L’eroe imperfetto. E farne tesoro, proprio ora.

Sono poco presente perché questa è la mia ultima settimana a Fahrenheit e a Radio3 (vado in pensione venerdì 28 giugno), ma prometto che dall’8 luglio il blog riprenderà regolarmente. Sul futuro, vi darò notizie.
Intanto, visto che si infittiscono le discussioni sul linguaggio dei politici, sulle gaffe e gli spropositi che li rendebbero più vicini al popolo, pubblico qui una Cosa Preziosa scritta a gennaio per L’Espresso.
Si chiede da tempo alla leader dell’opposizione di adeguarsi: la stessa cosa che, non ovunque, si chiede agli scrittori per venire incontro alla diminuita capacità di comprensione di chi li leggerà, perché, insomma, è tempo di farla facile. Forse, allora, bisognerebbe chiedersi invece se questo processo vada sempre e comunque sostenuto: volendo guardare al passato – cosa che non si dovrebbe fare, lo so – il procedimento era, a grandi linee, l’esatto contrario, e si provava comunque ad alzare la famigerata asticella, magari un passo alla volta.

Loredana Lipperini
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