PRIMA LA MUSICA, POI LE PAROLE

Gianni Biondillo riporta su Nazione
Indiana
un articolo uscito su Stilos, che comincia così:

È da sempre una
(doverosa) ossessione filosofica dover cercare l’essenza di ogni cosa del
creato. Ma è innegabile che l’ontologia sia una disciplina che molto ha
caratterizzato il Novecento. Roman Ingarden, ad esempio, ne
L’opera musicale
e il problema della sua identità
si chiedeva: dove sta l’opera musicale? L’esecuzione
influisce sull’autonomia dell’opera? La musica, asseriva il fenomenologo
polacco, ammette l’unicità dell’opera anche nella molteplicità delle esecuzioni
perché la sua essenza stava, in soldoni, nello spartito musicale. Cosa dire
allora di tutta la musica improvvisata (jazz, rock, ma anche classica), mai
scritta su carta, e, per definizione, irripetibile, o sulla musica concreta
impossibile da annotare sul pentagramma?

Tutto ciò mi ha
fatto tornare in mente il divertimento di Antonio Salieri che si chiamava Prima la musica e
poi le parole
.
Nient’affatto casualmente: di fatto, quello era un manifesto di estetica. Come
diceva Fedele D’Amico:

L’opera seria nel Settecento era una composizione nella
quale quello che poteva caratterizzare i personaggi, comunque l’azione, era
affidato totalmente al recitativo semplice, cioè a qualcosa che valeva per le
parole, per il testo, per quello che veniva detto e che era tradotto in formule
musicali molto convenzionali che potevano animarsi solamente in seguito alla
recitazione, a una particolare recitazione dell’attore, del cantante, ma di per
sé non avevano un valore musicale: quindi la musica non si impegnava affatto a
dipingere un’azione drammatica. C’erano poi le arie. Ma le arie erano un
momento riassuntivo; non miravano affatto a esprimere un personaggio o
un’azione; erano puri fatti lirici, che esprimevano quello che allora si
chiamava un affetto, ma un affetto preso nella sua astrazione platonica, non
legato a un determinato personaggio tanto è vero che era comune uso prendere
l’aria di un’opera e trasportarla in un’altra: andavano tutte bene così come
avviene con le scene in dotazione di certi teatri che rappresentano un cortile,
un giardino, un palazzo.

Questo ha a che vedere con
la letteratura, e con la nostra idea attuale della medesima? Accidenti, sì.
Riprendo Biondillo:

Dico che, semmai,
cercare l’essenza di una scrittura solo dentro un unico ambito (la capacità
d’innovazione linguistica) non basta a spiegare la letteratura. È ancora un
modo Novecentesco (il secolo delle avanguardie a tutti i costi) di porsi il
problema.
Intendiamoci: non si può narrare senza una lingua, è ovvio. Di più: non si può
raccontare senza una tecnica, che, a dirla con Vittorini, non è quella da cui
si parte, ma quella a cui si arriva. Il percorso per raggiungerla, lo sbarco
nel mondo della tecnica è, in fondo, la creazione della propria voce. Ma per
dire (dato che inevitabilmente la letteratura “dice”) cosa?

E vi
invito a proseguire la lettura, qui. E da Ivan.

 

5 pensieri su “PRIMA LA MUSICA, POI LE PAROLE

  1. Riporto parzialmente quello ciò che ho appena scritto nei commenti di NI.
    Gianni dice:
    “Con la letteratura accade però qualcosa di ancora differente. La letteratura è qualcosa “che dice”. C’è una imprescindibilità al raccontare. Proprio perché, per sua natura, la lingua esprime e comunica, insieme, indissolubilmente.”
    Dove Gianni, che prima confessa un certo tipo di fascinazione estetica per la parola (la frase, il discorso, etc.), poi spiega che la fascinazione non gli basta affatto. Aggiungo: la parola è uno strumento di comunicazione che si “piega” all’uso artistico senza poter rinunciare ad alcune caratteristiche…
    Le parole, le frasi, esprimono concetti; può darsi che esprimano anche una “forma”, può darsi che il loro suono sia piacevole, ma non può darsi in alcun caso che facciamo a meno del “senso”. Non ho mai letto un capolavoro che fosse la collezione di frasi insensate, e non credo che ne siano mai stati scritti.
    Gianni ancora:
    “La ricchezza e la modernità di molti testi sta nell’aver saputo esprimere metafore che si sono poste come universali nella nostra cultura condivisa.”
    Perché una metafora si può porre come universale, se non perché parla della condizione umana? Posto che a premessa di tutto il discorso c’è un rifiuto di ragionare per essenze, non vi è altro genere di pretesa universale, ritengo, che questo. E anche qui c’è molta precarietà…
    E’ molto bella questa: “Le loro domande non risuonavano.”
    Da lì in poi, parlando d’ “esser toccati”, credo che il tentativo sia di restituire alla parola la sua “poeticità” (il furto è solo apparente, è chiaro; vi sono solo degli “aspiranti ladri”). Le scrittura può dichiarare ma può anche evocare. La freccia che colpisce il bersaglio è un’illusione, altrimenti il contenuto di molta letteratura si potrebbe riassumere in poche frasi. La letteratura è un modo, o un insieme di modi di rappresentare: come tale, cercare di cavarne un’essenza mi sembra impresa folle, più che vana.
    perciò, sempre quotando, stavolta D’Amico: “Ma le arie erano un momento riassuntivo; non miravano affatto a esprimere un personaggio o un’azione; erano puri fatti lirici, che esprimevano quello che allora si chiamava un affetto, ma un affetto preso nella sua astrazione platonica”
    Ora, le astrazioni platoniche sono comode per alcuni casi, ed effettivamente inutili in altri. A costo di ripetermi, un affetto del genere, un’astrazione del genere, rischia di esser buono per tutte le stagioni, per tutte le morali, per tutti i tempi: aspira ad un tipo di universalità impossibile e pericoloso, ben diversa da quella dell’evento “dell’esser toccati”. Perché pericoloso? La giustizia è un’idea, ad esempio, su cui spesso si pratica una forma di platonismo allo stato puro.
    Qualcuno ricorda un uomo di Stato, un generale, un governatore, un dittatore, un vendicatore mascherato che non abbia parlato di giustizia, che non abbia preso dall’idea di giustizia ispirazione per le proprie azioni? E’ solo un esempio, ovviamente, di “abuso d’essenza”.
    L’elenco sarebbe infinito.

  2. Ivan, vieni al mio discorso: il panorama intellettuale italiano è o no afflitto da una malintesa idea platonica? Per idea platonica intendo anche una travisante mascheratura di impegno.

  3. @ Mariano: “Ivan, vieni al mio discorso: il panorama intellettuale italiano è o no afflitto da una malintesa idea platonica?”
    Sì (ma credo di aver scritto la stessa cosa ieri, in effetti, dai un’occhiata al trackback).
    Però: quanto afflitto? Bisognerebbe starci in mezzo, e io ci sto a metà. Un po’ in quello accademico, a disagio quanto basta (e ho conosciuto alcune tra le migliori persone che mi potesse capitare di incontrare: il disagio si attenua ma resta), un po’ in quello letterario, da cui forse mi tiro fuori pro tempore o per sempre (perché ho visto gli ex platonici inconsapevoli ma battaglieri tramutarsi in vere e proprie macchiette, consapevoli e mansuete: e ugualmente ho conosciuto alcune tra le migliori persone che mi sia capitato di incontrare). Perché, dirai tu, bisognerebbe starci in mezzo? Le conseguenze sul piano “pubblico” sono atti che iniziano nel privato (chi separa pubblico e privato con l’accetta è solo un imbecille politico a pieno titolo, o uno che ha molto da nascondere). Forse, anzi sicuro, ne sai più di me. Quello che vedo io è che Platonia ha una popolazione variabile e “imprevedibile”. Platonia si spreme, Mariano, perché è il paradiso di chi non si mette più in discussione, dal punto di vista del valore, ed è l’aspirazione di chi NON VUOLE essere messo in discussione, a costo di strepitare: e strepita, e spesso lo si ascolta. Il platonismo malinteso, come dici tu, ha anche dei risvolti ridicoli, ad esempio il continuo appello “all’evidenza dei fatti”. I fatti sono evidenti per chi non ha argomenti per sostenere ciò che dichiara, è una scelta di “mezzi differenti”.
    Per inciso, è un discorso da cui non mi tiro del tutto fuori, se ricordo bene alcune “cose” che ho scritto anni fa, e se ricordo bene alcun scelte disoneste (e le ricordo, sono recentissime): sbagliando si sbaglia.
    Non so se questo platonismo sia davvero malinteso: mi pare che il malinteso sia la sua applicazione a un determinato “stato di cose”, il suo abuso in chiave ermeneutica per parlare di letteratura, politica, e così via: e magari per arrivare a se stessi. Non serve a nulla, in questo caso, ma funziona come operazione di marketing individuale (o di gruppo). Se non fosse chiaro ciò che sto dicendo: quante discussioni hai letto che tiravano avanti con sentenze del genere “il tizio A” è un genio, “no è uno scribacchino”: sul piano privato iniziano con “io sono il migliore”, “io sono la migliore”, etc.
    Un esasperante istinto di competizione è solo la frontiera più accessibile per procurarsi i messi per cantar di se stessi, sempre su basi pseudo-platoniche: c’è la famosa scala, nessuno sul gradino di Liala, tutti alla “vetta Shakespeare”.
    So che questo platonismo è ignorato, come si può ignorare di avere una malattia senza ignorare di averne i sintomi.
    C’è poi il caso che sia una volontà di illusione e basta (sul valore degli scritti, sul proprio valore, sui valori morali).
    Ma le corbellerie in buona fede non sono corbellerie diminuite, o meno pericolose.
    Non è una piaga universale, questo no. C’è persino chi riesce a “rivalutare” il passato senza cascare nelle trappole di un neoclassicismo da finta avanguardia; c’è chi proprio non corre nessun rischio di “corbellare”, per semplice coerenza, mi verrebbero subito in mente una decina di nomi, tre li leggi spesso qui su lipperatura…(secondo me).
    Nessuna tragedia, ma non nego il problema: anche perché negarlo sarebbe un “danno culturale”. Molto meglio affrontarlo. Ma come? Quando leggo del DNA della scrittura, ad esempio, mi irrito. Gianni non parla d’altro, nel pezzo, seppure in termini diversi. DNA? L’insipienza smaschera: è solo un’indecente versione di quel platonismo che si riferisce alla biologia e che ha scambiato il DNA per il Santo Graal, per restare all’esempio. Ma in effetti, anche in letteratura, il problema si può definire come “problema del Santo Graal” (facendo certamente un favore al dibattito pubblico, perché se citiamo Platone dobbiamo supporre che Platone sia conosciuto: lo è, di fama, come un cantante rock che non hai mai ascoltato, ma non è molto letto)
    “Per idea platonica intendo anche una travisante mascheratura di impegno.”
    E allora siamo d’accordo punto per punto, forse (riprendo l’argomento nei prossimi giorni). Intanto, faccio notare che “all’aumentare del valore” per cui ci si impegna, aumenta il senso dell’impegno (dal punto di vista dell’impegnato). Mi pare una forma neppure tanto mascherata di autoconferimento di autorità, ossia un bell’imbroglio, nonché una scusa per pontificare. Ma basta stare attenti a chi parli continuamente di se stesso con marcati accenti wagneriani. Magari ci caschi per sei mesi, un anno, ma non per sempre.

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