A dire il vero, non basterebbero dieci post per raccontare questi quattro giorni appena trascorsi: il piacere nel condividere con gli studenti della Scuola Holden le storie e il “canone” della letteratura fantastica, la serietà di altri studenti, quelli del liceo Gioberti di Torino, nel decostruire il rapporto con i social, passando per la festa dello Strega ragazze e ragazzi e finendo con la forza del trio, ovvero con l’incontro al Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia sul Tabù del sesso, insieme a Riccardo Iacona e a Michela Murgia.
Mi soffermo, perciò, solo su uno degli appuntamenti: sempre Perugia, sempre Festival, tavola rotonda condotta impeccabilmente da Giulia Ciarapica, e con Maria Anna Patti di Casa Lettori, Vera Gheno dell’Accademia della Crusca e Nadia Terranova. Tema, il rapporto fra letteratura e social: trovate il video qui. Faccenda complessa e senza risoluzioni immediate (twitter serve a promuovere libri? Forse, insomma, non secondo me. Serve al discorso sui libri? Sicuro), ma che ha aperto almeno un paio di questioni su cui bisognerebbe tornare.
La prima è stata sollevata da Maria Anna Patti, quando raccontava di quegli appassionati lettori che si risentono quando uno scrittore si sottrae alla conversazione sui social, considerando il gesto una mancanza di attenzione o uno sgarbo. Problema, appunto, non da poco. Perché a ben vedere la soddisfazione del lettore imporrebbe allo scrittore non solo una presenza continuativa sui social, ma una vigilanza impossibile per chiunque, una disponibilità totale e assoluta che non può darsi (non solo per chi scrive, ma per chiunque svolga attività quotidiane come fare il caffè, dare l’acqua al geranio e i croccantini al gatto, parlare con i figli, lucidarsi le scarpe, fare la doccia, preparare un’insalata, comprare un chilo di patate. Vivere, insomma). L’idea che lo scrittore debba diventare un performer non mi ha mai convinto, anche se si diffonde sempre più: non foss’altro perché il performer in questione non avrebbe più tempo per scrivere, e comunque quel tempo diventerebbe sempre più contratto. L’argomento non si esaurisce in poche righe né in poche battute. Ci si torna.
Il secondo punto si deve a Vera Gheno, che ha raccontato come i “seguitori” dell’account twitter della Crusca reagiscano malissimo quando, per dire, viene loro spiegato che sé stesso PUO’ avere l’accento, Luca Serianni alla mano. La cosa non piace. Ma non per l’incolpevole accento, ma perché non c’è, insomma, una sanzione da comminare ai trasgressori. La lingua è lingua, diamine, e chi sbaglia paga.
Ma la lingua è faccenda mobile e fluida, si affannano a ripetere i linguisti non da oggi. Dunque, perché tanto accanimento? Perché una tale richiesta di adesione a una forma definita? Mi sono chiesta cosa ne sarebbe stato di Anthony Burgess se avesse scritto oggi Un’arancia a orologeria (da noi tradotto meravigliosamente da Floriana Bossi). Certo, la sua, quelle degli scrittori, sono Artlangs, lingue inventate, per la delizia comune. Ma lo scrittore che inventa, quanti “scopavirgole” avrebbe oggi contro? E non è, quell’ossessione per la forma, una forma di conservatorismo, un desiderio di ordine-nel-caos, un distogliere lo sguardo da quello che viene portato e narrato dalla lingua? Si pensi al putiferio suscitato da quell’aggettivo inventato da un bambino che Vera Gheno giustamente non ha neanche nominato, sostituendolo con “Voldemort”, appunto, il cui nome non va pronunciato, e che ancora una volta diventa caso estrapolato dalla semplicità del fenomeno: la lingua cambia, come cambiamo noi.
Si pensi ancora, esempio recentissimo che mi ha turbata non poco, a chi sta esprimendo critiche al cartello dei librai dove si avverte che non verrà ordinato e venduto il libro di Salvatore Riina. Ohibò, e perché criticarli? Semplice, zucconi miei, perché è stato scritto usando un carattere poco nobile, il Comic Sans. Servirebbe ricordare che quello stesso carattere è stato usato da Fabiola Gianotti per presentare le ricerche del CERN sul bosone di Higgs? Sì, perché anche in quel caso le critiche sono state formulate a valanga, a tutto svantaggio del bosone. Abbiamo un problema, temo.
Intervengo sulla questione della lingua: anche io ho notato questo accanimento per la regola immutabile da parte di molti puristi e forse ne faccio parte anche io (spero di no). Credo che la ragione sia semplicemente cercare un ordine nel caos e aggrapparsi disperatamente a qualcosa di noto, conosciuto e fallacemente ritenuto immutabile come la grammatica della lingua italiana.
Se uno ha avuto per anni un fregio blu o anche solo rosso per certe sue intemperanze linguistiche, fa fatica ad accettarle da parte degli altri. Che ci sia una “casta” anche lì? Quelli possono, noi no? Una “giustizia a orologeria” che scatta contro di noi e mai con loro?
Poiché sento che queste domande sono in parte rivolte a me, provo a rispondere. ElenaElle: sono d’accordo con te, spesso si tratta di una ricerca di stabilità in un contesto che, proprio strutturalmente, tende a essere fluido. E la fluidità della norma, in realtà, è un segno positivo, di vitalità. Solo che è difficile da accettare. Sandro: direi che è proprio il contrario. La maggior parte dei cambiamenti della norma è provocata proprio dall’uso vivo, cioè da quello che fanno i parlanti di una lingua. I linguisti, in Italia, molto raramente sono prescrittivi, ma tendono piuttosto a fare descrittivismo, ossia a descrivere la realtà linguistica, tenendo in grande considerazione gli usi e costumi linguistici *reali*. Pensare che ci sia una “casta” a cui è permesso qualcosa, linguisticamente, che alla “gente comune” è vietato, è una deformazione della realtà. I linguisti registrano l’uso vivo, non viceversa.
Tre volte benvenuta alla magnifica Vera Gheno, per inciso.
“Non sono affatto sicuro che la passione della lettura sia da coltivare e incoraggiare, penso che ci siano altre passioni, prima, da radicare e dirigere” F.Fortini
Io sono un seranniano e uso “sé stesso” da anni. Proprio perché sulle pagine dell’accademia della Crusca ne avevo trovato traccia.
Così insegno ai bimbi entrambe le forme.
A parte questo, il bello della lingua è la sua mutevolezza. Chiaramente non tutti i cambiamenti sono delle migliorie. La perdita del condizionale, del congiuntivo e di buona parte del sistema dei tempi a fronte di un imperfetto imperante a me non piacciono e ci “lotto”.
Poi magari verremo sommersi, e un giorno spiegheranno “Ah nel ‘900 si usava ancora il congiuntivo, ma possiamo saltare l’argomento perché assolutamente passato di moda”.
Credo che ci sia anche una buona parte di “deformazione professionale” che porta in automatico a voler correggere ciò che ai nostri occhi (e alle nostre orecchie) semplicemente stride. Penso a “gli” per “le” anche se riferito al femminile.
Decisamente i linguisti descrivono, su questo non ci sono dubbi di sorta.