Ovviamente no: la discussione non si chiude qui, come è giusto che sia, e qualunque siano le direzioni che prenderà. Quel che auspico personalmente è che il centro della riflessione sia il tema della “responsabilità etica” del narratore. Lo stesso con cui si è aperta questa settimana. Comunque sia, è stato importante parlarne, a mio modestissimo modo di vedere.
Però vorrei chiudere, per quel che riguarda almeno questa fase, con Stephen King. Con le sue parole, tratte da un’intervista rilasciata nel settembre 1998 al giornalista Andrew O’Hehir. Occasione, l’uscita di Mucchio d’ossa, citato ieri nel discorso sulla narrazione della violenza. Ne traggo una domanda e relativa risposta che non mi sembrano prive d’interesse.
D. Accade in molti dei tuoi libri che il veicolo per diffondere il Male nell’universo sia l’uomo.Molto spesso, un marito o un padre. Mi chiedo se realmente pensi che dentro ogni uomo normale, marito normale, padre normale, ci sia un mostro, un assassino di donne e bambini che aspetta di venire fuori.
R.Non penso che il mostro sia in ogni uomo, ma penso che sia in molti uomini. Penso che abbiamo davvero una propensione verso la violenza. Molti di noi sono…bene, molti di noi sono come molti aereoplani. Ricordi il volo TWA 800, quello che esplose sopra Long Island ? Ci fu un problema elettrico e il fuoco si appiccò alle ali. E’ quel che avviene al ragazzo che scatta improvvisamente, al Charles Whitman che sale sulla cima della torre e spara a un mucchio di gente. Al ragazzo che ha il fuoco nelle ali.
Questa è l’eccezione piuttosto che la regola. Naturalmente. Ma mi ricordo una ragazza. Quando andavo al college ci siamo frequentati, poi abbiamo smesso perchè “volevamo vedere altra gente”. Anzi. LEI voleva vedere altra gente, così abbiamo rotto.
L’ho incontrata molto tempo dopo. Aveva un livido sotto l’occhio. “Che è successo?”, le ho detto. “Non voglio parlarne”, ha risposto lei. “Andiamo a prenderci un caffè”, ho proposto.
Era successo che era stata con un ragazzo, e quel ragazzo voleva fare qualcosa che lei non voleva fare. Così, lui l’ha picchiata.
Non l’ho mai dimenticato. Questa storia è diventata anzi la base per molte storie che ho scritto.
Ricordo di averle detto: “Ci vuole coraggio per uscire con un ragazzo, vero? Quel ragazzo ti attrae, forse ti interessa. Ma quel che stai pensando, in fondo è Sto per entrare nella tua macchina. Sto per andare con te da qualche parte. Sto per aver fede nel fatto che mi riporterai indietro intera. Ci vuole coraggio”. Lei mi ha risposto: “Tu non potrai mai saperlo”. Gli uomini sono un pericolo. Siamo grossi animali”.
Sì, Lippa.
Ma proprio per questo continuare a rappresentare, narrare, disegnare gli uomini come “grossi animali” – per usare le parole di King – non fa che confermare questo loro ruolo. Alimentarlo. L’intervista risale a più di 10 anni fa. Oggi possiamo pensare in modo diverso, credo.
Mi spiego.
E’ vero, verissimo, tragicissimo che, statisticamente parlando, nel mondo ci sono mooolti più uomini che donne violente (per inciso una domanda: e gli altri generi sessuali?). Questo è in parte (ma solo in parte, attenzione!) dettato da fattori di supremazia fisica. Solo in parte, ribadisco, perché anche un mingherlino bene armato può fare una strage, se ha la testa malata per farlo. E una donna forte e corpulenta può non riuscire a difendersi solo perché non si sente in grado – psicologicamente, culturalmente – di alzare un dito per farlo.
Ma proprio perché i dati dicono questo, bisognerebbe che nel mondo delle finzioni e narrazioni, nel mondo della fantasia – che sia fatto di parole o di immagini – si cominciasse a demolire questa rappresentazione del maschio bestiale e violento.
A moltiplicare le possibilità, invece di ridurle sempre ai soliti due ruoli (due, solo due!): maschio etersosessuale violento vs. femmina eterosessuale inerme. Il che non vuol dire, semplicisticamente, scambiare i ruoli proponendo femmine bestiali e uomini inermi, come a volte fanno Dolce & Gabbana nelle loro campagne allusivamente sado-maso, tanto per fare un esempio di massa.
Ma vuol dire moltiplicare, moltiplicare e ancora moltiplicare ruoli, possiblità, relazioni, storie: far lavorare davvero la fantasia, insomma.
Nella speranza che, a medio/lungo termine, un cambiamento di rotta simbolica potesse incidere sul mondo reale. Speranza che non sarebbe vana, se il cambiamento coinvolgesse non solo prodotti culturali d’élite, avanguardie o accademie, ma – un po’ alla volta – la cultura di massa.
Spero di essere stata chiara.
E spero tanto che la discussione di oggi sia più serena che nei giorni scorsi… ciao!
🙂
Al solito, King esprime (racconta) benissimo una grande verità in poche frasi. Chapeau.
Ricordo una frase, non so bene se di Lovecraft o su Lovecraft, pescata in una mitica fanzine della Pagan Publishing, ch e diceva più o meno “Il tratto più caratteristico dell’uomo è la disumanità”. Non vorrei mischiare il discorso sulla violenza con quello sui giochi di ruolo, ma anche in Stephen King uno dei messaggi è che bisogna lottare per restare umani, bisogna lottare con i mostri (e qui è Claymore che esplora magnifcamente questo paradosso), interni ed esterni, e che lottando ci si può fare davvero male.
Secondo me è chiaro che il primo passo per lottare con i mostri è saperli riconoscere, e ciò purtroppo non è banale. Per fare un altro esempio, Joe R. Lansdale, in Tramonto e polvere mette in scena tutto questo in modo esemplare, anche se con qualche “texanata” di troppo.
Comunque. La buona narrativa, con qualunque medium, è una delle migliori pedagogie del disumano (insegna a riconoscerlo, non a praticarlo!) valida che ci viene offerta nella nostra società. Ma essa è un medium paradossale, deve inchiodarci al racconto di ciò che vorebbe non accadesse, deve testimoniare il mostruoso e l’orribile, deve indugiare sull’orrore per scriverlo nelle nostre coscienze. Certo, ci vuole una certa preparazione per “leggere” i media narrativi ed è più semplice per chi non ne capisce l’importanza invocare il bando (vedi tutte le crociate contro la TV violenta, i romanzi horror, i fumetti, i videogame). E anche con le migliori intenzioni, come dimostrano le discussioni di questa settimana, una narrazione può, per mille motivi, fallire il suo intento…
[PS – probabilmente il server interno mi bloccherà l’accesso a questa pagina, come alle 2 precedenti, per eccesso di termini “pericolsi”… spero di potervi leggere almeno qui, se no dovrò aspettare stasera!]
@ Giovanna.
Ma secondo me semplicemente Loredana tenta ancora di far comprendere il suo punto di vista sulla copertina. Nel topic prima lo faceva con un discorso tecnico. Qui è emotivo.
Del resto anche Gipi due colonnini fa parlava dell’importanza di ‘sentire’ le vicende che si raccontano.
King riesce a far riflettere anche con esempi molto semplici, l’ho notato più volte. Questa domanda, per esempio. Io me la sono fatta tutte le volte che sono stata con un uomo, a parte (non a caso), con i due con cui ho avuto le storie più lunghe (nel senso che di loro ho avuto fiducia assoluta fin dall’inizio).
Spero che di questo brano non si colga il sessismo, ma l’empatia. Il punto non è che gli uomini sono spesso violenti, ma che le donne sono spesso in pericolo – anche quelle che vivono in società laiche e democratiche. Devono essere più scaltre, più caute, più sveglie, più organizzate, più diffidenti degli uomini – e ovviamente, purtroppo, non basta mai.
Credo che tu, Loredana, abbia postato questo brano per ricordare all’altro sesso che la nostra cosiddetta “ipersensibilità” si è andata formando con l’esperienza, che non è una caratteristica femminile priva di ragione, una sorta di sindrome premestruale che ci rende nervose. È qualcosa per cui paghiamo tutti i giorni un prezzo (qualcosa che quindi, forse, ha un valore).
Donata, qui sono perfettamente daccordo con te. E sottolineo (anche al di fuori del contesto “narrativo”) che proprio agli uomini la donna in gamba fa spesso paura, e c’è una macchina sociale repressiva, maschile e (purtroppo) anche femminile che lavora contro la parità effettiva delle donne, a partire dall’educazione, che troppa cattiva pedagogia tende ad accompagnare le ragazze verso inferiorità, sottomissione, dipendenza. Questa è una delle priorità su cui bisognerebbe lavorare per creare una società più libera.
C’è moltissimo lavoro da fare. Su un altro blog, un autore di fumetti ha appena affermato che io con le mie critiche gli faccio “più paura degli stupratori”. Ennesimo piccolo segnale che di quanta strada fatta abbia divorato l’inconsapevolezza. C’è una diffusa non-percezione dell’enormità di questo problema, o comunque una leggerezza nel farci sopra affermazioni coram populo, che sinceramente dà i brividi. Questa discussione era e rimane dolorosamente necessaria.
refuso: “piccolo segnale che di quanta strada”
c’è un “che” di troppo.
Stephen King ha ragione: noi uomini-maschi siamo grossi animali: anzi, grose bestie, perché gli animali non-umani non praticano la violenza intraspecifica priva di uno scopo vitale (difesa del territorio, sicurezza del branco, ecc.). La civilizzazione che copre i segni della bestia sul nostro volto è troppo recente, ha lo spessore di una passata di smalto. Basta un sorriso mal controllato e spuntano i canini a ricordarcelo. E l’esercizio del potere che abbiamo esercitato ha accorciato, rispetto alla donna che dal potere è stata a lungo esclusa (e in parte lo è ancora) la distanza da quell'”animale” che all’epoca dell’orda di caccia ha azzerato, attraverso l’uso di strumenti atti ad uccidere a distanza, l’inibizione biologica alla violenza intraspecifica (che invece le altre specie viventi mantengono).
Se provate a guardare da quest’ottica i film di Kubrick, che utilizzava pretesti allegorici (come la guerra) per descrivere le relazioni interpersonali, vi accorgerete che anche lui non ha fatto altro che dire questo.
grose=grosse
Purtroppo l’ipersensibilità femminile descritta da Donata si basa su molti secoli di brutte esperienze con i grossi animali descritti da King, i quali tendono ad avere memoria corta o a pensare (sbagliando) Io queste cose non le faccio, queste cose non mi riguardano. Eppure tra le prime cause di morte delle donne c’è la violenza domestica, perpetrata dal fidanzato, dal compagno, dal marito, dal padre.
Anche se adesso sembriamo più civili, non dobbiamo certo abbassare la guardia, anzi. Lo stupro è diventato reato contro la persona solo pochi anni fa; prima accadeva perché le donne se la cercavano (ma anche adesso questa insinuazione c’è sempre). Il diritto di famiglia riformato, dove l’uomo e la donna hanno pari diritti, è solo del 1975: poco meno di trent’anni fa, prima per le donne la sola separazione era la morte civile, la violenza domestica la si taceva e alla via così. Per questo, la bella letteratura (e i bei fumetti, i bei giochi, i bei film ecc…) sono indispensabili strumenti di conoscenza.
la bella letteratura è (singolare) indispensabile strumento di conoscenza, scusate il refuso…
Un attimo, pero. Una cosa è la rappresentazione della violenza nella narrazione che a mio avviso nel suo interno contiene già il suo esorcismo. Un’altra cosa è la rappresentazione della violenza come fatto di cronaca. In questo caso se continuiamo, mi riferisco a noi giornalisti, a usare termini come: “Tragedia famigliare” quando un marito massacra l’intera famiglia, o “Dramma della gelosia” quando un uomo respinto macella a coltellate una donna, il concetto stesso di crimine violento viene distorto.
A mio avviso il primo passo è il restituire l’immagine violenta nella sua cruda interezza, non sono tragedie ma omicidi. Mai, a nessuno, verrebbe in mente di dire al TG… ennesima tragedia di mafia.
È vero, come dice l’amica di King, i maschi non possono saperlo, va bene, ma mi sembra che l’intero sistema non li aiuti minimamente nella comprensione.
Ogni fatto di cronaca in cui la vittima è una donna e il carnefice un uomo è ammantato da un velo romantico, uno schifoso linguaggio da romanzo d’appendice condito, sempre, da un abbozzo di psicologia fai da te. Programmi televisivi d’approfondimento “ti amo, ti uccido” e saggi letterari perpetrano questa visione.
Altra cosa: “Non potrai mai saperlo”. Credo che questa frase sia esplosa in King come un gesto che richiama e allontana a un tempo, un gesto che lo ha invitato a esplorare un territorio che non saprà davvero mai mappare fino in fondo. Certo, quell’invito ha trovato una persona pronta a racoglierlo (quanti maschi di fronte all’impossibilità di capire “fino in fondo” il punto di vista di una donna alzano le spalle e bevono un’altra birra?) e a farlo fruttare, il risultato di quel monito e delle esplorazioni di King si vede nei suoi romanzi.
Ma forse quella frase, quell’idea carica di pericoli, potrebbe proprio essere il punto di partenza con cui iniziare a costruire una pedagogia diversa.
Libro di testo? Scegliete voi, io direi Angela Carter.
Ricordo di aver affrontato questa discussione spesso, con una mia amica.
E’ vero: una delle poche cose (sorry! :-)) con cui mi trovavo nel discorso di Wu Ming 1, un post fa, è che noi non abbiamo gli stessi “sensori”. Cose che coinvolgono soprattutto la sfera del dolore fisico, a volte. Magari dobbiamo interrogarci di più, farci più domande, essere più curiosi… e ovviamente, non lo intendo nell’accezione morbosa o fredda. Alla fine l’empatia non è proprio una dote innata, è una voglia di averla. Però credo che sia anche verissimo il primo intervento di questa discussione, quello di Giovanna. Moltiplicare le possibilità, non dormire sugli stereotipi, abbattere tutti i modelli che ti convincano che la vita è solo lì, in quei codici narrativi, in quei cliché. Che hanno alla fine, come inevitabile conclusione, quella di sortire una specie di torpore in chi ne usufruisce, di mancanza di attenzione.
Verissimo! Però, per abbattere i modelli, occorre guardarli/guardarsi. Credo che sia questo che King ha fatto nella maggior parte dei suoi romanzi, per esempio. Arrivando anche a creare, alla fine, modelli diversi. I protagonisti “vecchi” delle sue ultime storie, per esempio.
“Guardare, guardarsi” sono d’accordo, perchè questa è la frase che completa quel “Non potrai mai saperlo”
Un uomo non potraà mai sapere quello che prova una donna, forse, ma quello che prova lui?
A me sembra che anche questo sia questo il punto: che cosa provano gli uomini?
Lo sanno, se ne occupano, se ne preoccupano?
Azzardo: no, almeno la stragrande maggioranza degli uomini che conosco.
Se penso a delle eccezioni, mi viene in mente immediatamente Tommaso Pincio di Cinacittà che personalmente avrei messo negli esempi del topic ‘raccontare la violenza’.
Ecco Tommaso Pincio mi sembra un uomo e uno scrittore che prende sul serio la responsabilità di raccontare una storia di violenza, anche efferata, anche estrema.
Vale la pena di leggere anche quello che dice nelle sua recensione del libro “Sexyrama. L’immagine della donna nelle copertine dei periodici dal 1960 al 1970′. Credo che possa essere utile alla discussione.
correggo: a me sembra che sia anche questo il punto.
Provo ad ampliare un discorso e parto con un esempio.
Tempo fa, mi sono iscritto a un gruppo su facebook, contro gli stupri. Mi sono tolto entro due giorni. Perché?
Perché al trentesimo commento che auspicava la pena di morte in Italia, mi sono veramente girati i coglioni. Spero di non essere frainteso, con quello che sto per dire. L’impressione che ho è che a molta gente che si sente partecipe e veemente per queste tematiche, sotto sotto, non gliene freghi niente. Ha solo una gran volontà di linciare. E quanto più il crimine è ripugnante tanto più sono intimamente felici, perché possono tirare i sassi più forte. Ora, intendiamoci. Quei crimini per cui ci si indigna sono oggettivamente ripugnanti. Sono oggettivamente mostruosi. Ma per molti non diventa più un problema di capire perchè lo siano, diventa solo quello di “giustiziare il colpevole”. Si impara benissimo a incazzarsi con chi, ma si è ignoranti sul perché. Questa, ovviamente, non è attenzione o sensibilità verso il problema.
A buona parte della gente che bercia sulla pena di morte e su torture inenarrabili verso stupratori e pedofili, non importa niente del problema in sé. Lo risolve a birra e rutto libero cinque minuti dopo aver mandato il suo messaggio incazzoso. E sotto sotto, forse, farebbe la stessa cosa, con la scusante di averlo fatto a un “cattivo”.
Allora ipotizziamo, per un momento, che un narratore abbia un compito morale (per me, personalmente, il suo unico compito morale è scrivere delle storie belle e coinvolgenti, punto e basta): il compito dovrà essere appunto quello di restituire l’accento al “perché”. A far capire e,a ppunto, a far empatizzare.
Cristiano, provo a rispondere qui, contemporaneamente, agli ultimi tuoi due commenti.
E lo faccio linkandoti questo articolo
http://napoli.repubblica.it/multimedia/home/4581166
Dunque, il manifesto napoletano è evidentemente diverso dalla copertina in questione: perchè in quel caso – il manifesto – l’effetto è studiato.
Nel caso della copertina la buona fede è certa. Così come sono assolutamente sicura che molte persone, incluse molte donne e ragazze, non la trovino disturbante (la copertina, intendo).
Però fa riflettere, credo.
E sono altresì sicurissima che è vero quel che dici: perchè lo constato anche io. Perchè di stupri si parla per un paio di settimane e poi si passa alla prossima emergenza. Mentre i medesimi continuano, e anzi aumentano, ma finchè non si raggiunge la nuova punta di diamante meritano mezza riga qua e là.
Qual è dunque il punto: che per essere “empatici”, per andare al di là della facile indignazione su facebook o al bar, occorre fare un passo in più. Che è, appunto, interrogarsi sui famigerati modelli. Che sono sottili, che sono difficilmente riconoscibili e che spesso ti sfuggono da dentro. Esattamente come diceva Gipi quando raccontava della “gnocchetta” che ti sfugge comunque via dalla mano. A meno che tu non ci rifletta molto, ma molto, ma molto.
In questo senso intendo la responsabilità etica di chi narra. Certo che DEVE raccontare una storia, possibilmente bella. Ma deve anche capire, lavorando sui propri strumenti, come può svicolare da qualcosa che comunque, non volendo, ha introiettato.
E’ come dici tu: si impara ad incazzarsi, ma si è ignoranti sul perchè. E, aggiungo, su quanto quel perchè ci riguarda.
Non dico che sia un lavoro facile: ma narrare, qualsiasi sia la forma che si sceglie, libro o fumetto o videogioco o film, non è facile. L’artigianato (all’arte credo meno, in ogni settore) richiede attenzione continua su se stessi.
Il punto, e secondo me è il punto anche della nostra discussione, sta qui. Mi spingo a pensare, chiedendo scusa se offendo qualche sensibilità -ma davvero non è mia intenzione – che se al disegnatore fosse stato concesso il tempo per “entrare” in quella storia, che per sua ammissione ha conosciuto solo dalla sceneggiatura, quel disegno sarebbe stato diverso. Per forza di cose.
Conoscere cambia. L’esperienza personale che ha raccontato Gipi ha influito su di lui. L’incontro con l’amica picchiata ha influito su King. Questo intendo con empatia: avere i pori della pelle aperti, pronti a captare quel che avviene intorno a noi. Anche se non lo comprendiamo subito. Anche se sembra superfluo.
Almeno, io la penso così.
Il post di Cristiano mi ha fatto pensare per un po’, quasi non lo capivo. In realtà per me quel tipo di indignazione forcaiola fa parte di una cultura di violenza al cui interno situo lo stupro.
Secondo me, comunque, a parte la frustrazione che c’è ed è forte, almeno in me, penso che sia molto produttivo capire quanti punti di vista ci siano nel guardare le cose e, soprattutto, scambiarseli. Perchè in teoria tutti sappiamo che esistono, metterli a confronto è tutta un’altra cosa.
Loredana… su questo che scrivi sono davvero d’accordissimo. Poi, ti dirò, questo commento che avevo fatto non c’entrava nemmeno con la querelle del fumetto, almeno non cosciamente. Era davvero una riflessione un po’ generale sul rapporto narrativa-violenza-empatia e consapevolezza. Alla fine, almeno, è più che positivo il materiale su cui riflettere di tutta quanta questa storia.
*refuso da tastiera prossima alla morte: coNsciamente, non certo cosciamente. Gesù… *__*
Riprendendo Paolo S consiglio anch’io Angela Carter (praticamente tutto, ma in particolare, “Notti al circo” e “Figlie sagge”), oltre che, per deformazione professionale, il lavoro di Martha Graham, soprattutto le coreografie degli anni Trenta e Quaranta. Graham lavorò molto sui modelli di cui parla Loredana, peccato (o per fortuna?) che la danza sia sempre, per sua natura, così ‘sfuggente’.
lalipperini:”Nel caso della copertina la buona fede è certa.”
Vorrei avere la stessa certezza, purtroppo propendo per l’opposto.
Cioè credo che autori ed editore abbiano cercato di guadagnarsi la pagnotta, nè più nè meno dei pubblicitari della Relish.
Non ho approfondito, non sono andato (per scelta) sui siti della casa editrice, ma la strategia (di vendita) mi sembra la stessa
Non mi sento di lanciare anatemi per questo, ognuno ha il diritto di procacciarsi da vivere come può, se non commette reati. Non riesco a vedere la differenza, ecco tutto.
Piuttosto, questa volta mi colpisce che in una pubblicità diretta a potenziali acquirenti femminili si faccia ricorso a una situazione sadica, come se i pubblicitari pensassero che a una donna sotto sotto piace trovarsi in quelle condizioni.
Poi sarà solo per attirare l’attenzione, però…
Quello che mi fa stare veramente male e che in queste due ultime discussioni si rileva una massiccia presenza maschile, e davanti ad affermazioni come l’ultima di King e quelle di Donata, gli uomini non possano che confermare. Emerge dalla memora atavica un senso di profondo schifo. Scusatemi perché questo blog è frequentato da persone civilissime e colte, ma purtroppo constatare che l’empatia nella rappresentazione della violenza sulle donne non fluisca come un moto spontaneo ma sia da ricercare, a me mette una tristezza infinita e insieme anche i brividi.
“Questo intendo con empatia: avere i pori della pelle aperti, pronti a captare quel che avviene intorno a noi. Anche se non lo comprendiamo subito”. Com’è possibile questa a questa altezza evolutiva i pori siano ancora invariabilmente chiusi? (vedi copertina famigerata).
“gli uomini non possano che confermare”
“l’empatia nella rappresentazione della violenza sulle donne non fluisca come un moto spontaneo”
Ok, basta che non rivolgi queste frasi a me.
Andrea, tutti noi vorremmo chiamarsi fuori, perché le parole di Claudia fanno male. E’ troppo comodo dire: “Io no!”.
Di fatto, tu come molti, all’inizio di questa discussione hai alzato uno schermo tra te e il disagio di chi reagiva in modo “cristiano” di fronte alla copertina. Hai adottato un distacco da “intenditore” e sei andato pesantemente sul “neognostico”, parlando del rosso, del bianco, del nero. Hai fatto del “cromatosimbolismo” pure piuttosto meccanico, cercando a forza nella copertina – e dandolo subito per autoevidente – il contrario di quello che non volevi gli altri vedessero. Solo in una fase successiva del confronto hai cominciato a staccarti da questo atteggiamento.
Guardacaso, nessuna delle donne intervenute qui è partita frapponendo schermi di qualsivoglia natura. Il rapporto con l’immagine di violenza è stato im-mediato. Noi maschi dobbiamo sempre fare un passaggio in più, foss’anche un micropassaggio, per le ragioni che si dicevano sotto, nell’altro thread: i maschi vengono stuprati molto meno spesso, non percepiscono subito cosa possa significare, devono sforzarsi in quel senso, pensarci.
Ed è proprio quello che ha detto Claudia: “l’empatia nella rappresentazione della violenza sulle donne non fluisca come un moto spontaneo.”
refuso: “chiamarsi fuori” —> “chiamarci fuori”.
Caro WuMing1, le scene di violenza le ho viste in casa. Capisco il tuo modo demenziale di ricostruire i miei interventi qui, sta nelle regole del gioco intellettuale che tu hai voglia di praticare, mentre io no. Ma non ammetto che una persona mi attribuisca dei pensieri, degli stati d’animo, senza neppure conoscermi. E’ una questione di civiltà che vale per uomini, per donne, per transessuali.
“il tuo modo demenziale di ricostruire i miei interventi qui, sta nelle regole del gioco intellettuale che tu hai voglia di praticare”
Ma stai scherzando??? Minchia andrea sei de coccio eh? Cazzo faresti perdere la pazienza a chiunque. A me sembra che qui siano stati adoperati tutti gli strumenti della comprensione e che nessuno ti abbia attribuito nulla (io no di certo). L’hai fatta tu l’interpetazione su base cromatica e quindi assumitene la responsabilità e sappi subirne le conseguenze. Non si può sparare cazzare a caso a pensare di farla franca. Io da parte mia non sopporto che mi si venga dire che quella copertina va giudicata su base estetica. Quello che fa giochetti intellettuali semmi sei tu, e se li fai pur avendo presenziato alla violenza in casa vuol dire che hai dei blocchi emotivi molto seri. E questo lo dico non conoscendoti sulla base di quello che scrivi. Pensa cosa riesci a comunicare!
Claudia, dal mio punto di vista sapere che uno “come me” può pescare da qualche parte dentro di sé qualcosa che gli consente (nel senso: gli dà il via libera) di fare una cosa che io mai e poi mai farei mi inquieta profondamente: Perché mette in moto un meccanismo di autoosservazione che non mi garantisce di essere “diverso” da chi compie determinati atti di violenza. Stesso DNA, stessa morfologia, probabilmente stesso impianto istintuale. È sopra tutto questo che si costruisce la mia differenza rispetto all’animale che sta sotto. Può essere una crosta più o meno spessa, che non cancella quanto esiste sotto, ma lo tiene a bada.
Dire “io non sono così” sarebbe sopravvalutarsi. Il fatto che molti di “noi” (“persone civilissime e colte”) non si sono mai trovati nelle circostanze in cui l’animale esce è un mix di volontà, educazione, ambiente e fortuna. Per me è un dovere verso me stesso evitare queste situazioni, ma se non ammetto che l’animale c’è, come posso tenerlo a bada?
Ciò precisato, non credo sia l’empatia la cosa che mi accomuna a un branco o a un individuo violenti. Ovvero, non riesco davvero a “comprendere”, a prendere dentro di me cosa muove un Ghira. Posso “leggerlo”, in base ad alcune logiche che rifiuto con tutto me stesso di fare mie. Ma devo riconoscere che, alla base di quelle logiche che io trovo aberranti c’è un fondo comune: DNA, morfologia, istinti. E questa cosa mi mette in allarme.
Perché mi chiedo: davvero potrei anch’io, saltate alcune condizioni diventare così? E se la mia risposta è no è no perché non voglio, non perché la possibilità non esiste.
Inversamente, per le vittime provo simpatia: la violenza subita (e perché dalle donne e basta? vogliamo dimenticare i vecchi, i bambini, gli animali? o i carcerati, anche per crimini violenti: la violenza su di loro dovrebbe non orripilarmi?) è una violenza che immagino anche troppo bene, che sento sulla mia pelle, nelle ossa, che urla nel cervello. Perché lo voglio, perché ho bisogno che suoni come un monito. Ancora una volta, non perché io sia nato così, ma perché ho scelto di volerlo, perché mi aiuta a essere la persona che voglio.
*
Ciò detto: l'”altezza evolutiva”, secondo me è una conquista individuale, non storica, né specie-specifica. E bisogna incamminare ciascun individuo sul sentiero della consapevolezza (cosa che nessuna istituzione fa seriamente, e non solo dalle nostre parti), perché i pori di ogni singolo si aprano. Un senso di schifo che emerge dalla memoria atavica è una reazione spontanea, ma poi il “lavoro su di sé” resta tutto da fare.
Claudia b., ho scritto molte cose che sono state sintetizzate da WM1 in modo demenziale.
E davvero devo rispedire le tue parole al mittente. Non mi interessa discutere così.
Concordo pienamente con Andrea quando dici che non bisogna attribuire intenzioni, stati d’animo e pensieri a chicchessia.
Io ti posso dire quello che ho visto nello svolgimento della discussione: di fronte a quella copertina c’è stato un moto immediato di ripugnanza da parte di tutte le donne intervenute e pochissimi uomini e una disamina critica e tecnica, molto articolata, che poi è divenuta schermaglia, tra gli uomini.
La cosa su di me ha provocato una specie di shock, qualcosa che, come dice Donata, emerge da una memoria atavica probabilmente, non lo so, non schifo, ma efferatezza che si aggiunge a efferatezza.
E certo questa è una reazione immediata su cui lavorare, ogni empatia non può che basarsi su un autoascolto. E sono d’accordo.
Ma, allo stesso tempo, bisognerebbe fare pure un passo indietro e di fronte a una interpretazione (e difesa) di quella immagine, tutta di testa, fatta in punta di coltello e di forchetta, chiedersi: ma cosa provo io di fronte a questo?
Può essere tutto, anche la più esecrabile delle emozioni, ma qualcosa si deve pur ‘provare’ di fronte a quella immagine. O no?
A questo punto, Andrea, ti consiglieri veramente di rileggerti e rilfettere. Le parole sono pietre, e non stiamo qui a fare dell’ermeneutica di affermazioni pesanti come quelle che hai fatto tu. Mi spiace che tu ti sia sentito male interpretato, ma chiediti qual’è la corda che hai toccato che ha scatenato quella che tu pensi essere cattiva sintesi e mala intepretazione. Non è a senso unico come dici tu. Quando le parole non arrivano, molto spesso è perché sono espresse male. Da parte mia ti rileggo volentieri, ma solo se riformuli tendendo conto anche della sensibilità del tuo interlocutore, e non solo della tua posizione. Si chiama comunicare e capirsi. Si chiama, anche, empatia.
Paolo, devo riflettere su quello che scrivi, per quanto conosco un numero sufficiente di uomini a cui si rizzerebbero i capelli a leggerti. Non puoi ridure tutto a un “fondo comune: DNA, morfologia, istinti”. E neppure pensare che sia la consapevolezza esercitata su questo fondo comune a spegnere la violenza. Ci sono esseri umani (non uomini, non donne) che non hanno la minima pulsione alla violenza e non per fattori culturali o per una conquista individuale. Ma perché non ce l’hanno, e basta. Anche il fatto che pensi che l’incamminare l’uomo verso la consapevolezza sia responsabilità delle istituzioni mi fa spavento. Visto che la nostra identità già si fonda sulla violenza, ed è un’onta, nulla di cui essere fieri, sarebbe veramente arrivato il momento di provare instintualmente empatia, di averla metabolizzata. Per me questa è la fiducia nell’uomo, cosa che appunto ho metabolizzato nonostante la violenza perpetrata per secoli ai danni dalle mie consessute. E questo è ciò che mi fa tremare quando sento che dovrei avere paura a salire in macchina con un uomo, perché la fiducia l’ho metabolizzata e quindi non capisco perché l’uomo non possa metabolizzare l’empatia.
Scusa Valeria, ma quando scrivi:
“bisognerebbe fare pure un passo indietro e di fronte a una interpretazione (e difesa) di quella immagine, tutta di testa, fatta in punta di coltello e di forchetta, chiedersi: ma cosa provo io di fronte a questo?”
ho l’impressione che mi stai prendendo per il culo, perché ho scritto fin da subito – e poi l’ho ripetuto varie volte nel corso della discussione – che l’immagine dà sicuramente fastidio.
Poi ho cercato di capire il perché di quel fastidio. E ho tentato di mettere in dubbio l’equazione automatica: fastidio/disgusto = lavoro cattivo (cattivo nel senso di cattiveria, di disonestà e allo stesso tempo di inutilità).
Speravo che venisse Ambu a raccontare il suo disegno perché so che raccontare come nasce un disegno è sempre bello e interessante. Sarebbe stato così anche in questo caso, in cui l’immagine è controversa nella lettura.
Spesso in discussioni come queste si tende a passare dagli argomenti al piano personale, proiettando proprie convinzioni nella testa dell’altro, che diventa come un proprio personaggio.
Sabato ero a Brescia per la mostra sui disegni del Borinage di Van Gogh. Eravamo in quattro, due ragazze, un amico e io. Dopo la mostra abbiamo fatto due passi in centro. Ci passa davanti una donna nera molto alta. Le due ragazze che erano con noi la inseguono fin dentro un supermercato. Era transesessuale, brasiliana.
Dico: dobbiamo fare un discorsetto.
Una delle ragazze fuori dice: è un uomo.
Inizio il discorsetto: 1. è una persona che ha la sua vita, e a nessuno piace essere inseguito e additato; 2. non è un uomo, è una persona transessuale, la differenza è fisica e psicologica.
Il mio discorsetto credo non convinca nessuno, nonostante siano sicuramente ragazze molto gentili. O forse funzionerà per la prossima volta.
Ora penso che c’è una profonda ignoranza e mancanza di empatia che toglie dal discorso la parola ‘transessuale’. Tutto continua a essere bipolare: ‘maschio’ – ‘femmina’, ‘uomo’ – ‘donna’. Anche qui è quasi sempre così. E poi si vedono gli inseguimenti nei supermercati.
“Ho scritto fin da subito – e poi l’ho ripetuto varie volte nel corso della discussione – che l’ *immagine dà sicuramente fastidio*”.
Dà infinitamente più fastidio questo aplomb (leggi: gelo, o anche alessitimia, incapacità di comunicare emozioni) che hai, caro Andrea.
“So che raccontare come nasce un disegno è sempre bello e interessante. Sarebbe stato così anche in questo caso, in cui l’immagine è controversa nella lettura”.
Sul serio? Non ci si era accorti che l’immagine fosse controversa, grazie per il rilievo.
Minchia, sei de coccio fijo mio.
Scusami Andrea, ma quello che vorrei proprio evitare è fare delle proiezioni. Tutto quello che ho scritto qui riguarda quello che penso e che provo io.
E’ vero ti ho chiamato in causa per dirti che ero d’accordo con te sul fatto di q2uanto sia illegittimo fare attribuzioni di stati d’animo, pensieri ecc. ecc., ma poi nel proeseguimento del post mi riferivo all’andamento generale della discussione, non ai tuoi interventi in particolare.
Per me questo argomento è troppo faticoso da affrontare, forse non sarei dovuta intervenire dall’inizio, perché mi rendo conto che provo una specie di doloroso crampo interno a scriverne.
Se si trattasse di altro, anche a me piacerebbe molto disquisire di quell’immagine da un punto di vista estetico e tecnico, delle angolazioni dell’inquadratura, dei ‘personaggi quinta’ ecc. ecc., sul fatto che il fumetto sia o non sia un medium adatto per affrontare certi temi (e per me lo è), ecc. ecc. ecc. Sono temi che mi coingolgono molto, ma non quando sto affrontando il tema dello stupro.
In uno dei miei primi interventi, proprio per decentrarmi dal mio stato emotivo, avevo proposto un articolo di Wu Ming 1, che secondo me offre degli spunti interessanti per l’analisi di quella copertina, in particolare avevo indicato la ‘fisica dell’alibi’ come una possibile chiave di lettura.
Per quella citazione mi sono presa l’accusa di volere fare la ganza e invece più vado avanti nella lettura dei post e più mi pare che sia proprio la ‘fisica dell’alibi’ la chiave di volta di tutta questa discussione.
Claudia, ti stavo scrivendo una lunga risposta che divagava troppo. A dirla corta, non sono neppure sicuro che la mia consapevolezza basti davvero a frenare quello che ho chiamato l’animale. Me lo auguro sinceramente. C’è chi non pensa che neppure questo basti: http://tinyurl.com/ajnhhe .
Ma che altri strumenti ho? (anziché strumenti, volevo scrivere armi… ahi ahi!)
*
Andrea, grazie per non aver abbandonato la discussione!
Vorrei dire delle cose che mi suggeriscono questo post – a random, diciamo.
– Non sono affatto convinta che l’omini sotto tutti delle bestiole potenziali di cui le donne sono tutte potenzialmente vittime. Questo è un fatto che riguarda la realtà e che di conseguenza deve riguardare la sua narrazione. In questo senso appoggio l’intervento di Giovanna Cosenza. E io non lo so se la voglio quella solidarietà di King, anche se indubbiamenente è meglio della sua assenza. Ricordo quando su questo stesso blog, si parlava di Piccolo – il quale pure cianciava di uomini che hanno il bestiale e ni ci piacciono le mignotte. Io non avevo presente per bene Piccolo e lo difesi. Un commentatore – ora purtroppo non ne ricordo il nome, ma forse Anghelos o Barbieri non mi ricordo scusatemi – si imbizzarrì e mi disse che col cavolo, a lui le puttane proprio non lo arrapavano manco un po’ ed era stanco di questa reductio alla scimmia della psicologia spicciola. Mi fece riflettere. Poi vidi Piccolo alla televisione e pensai che aveva assolutamente ragione il commentatore. La relazione tra maschile e violenza insomma per quanto sussista certamente è estremamente variabile e diversificata e mediata da tante cose.
E quoto appieno, più del post, l’intervento della Lipperini a proposito della ruminazione emotiva di quel che si decide di narrarare. Come in effetti mi colpì molto l’intervento di Gipi. Tuttavia ho la sensazione che questa ruminazione non sia mai una perfetta garanzia contor la suscettibilità altrui. C’è un oltre variabile e soggettivo. Per esempio la Loredana ritiene che Ellis sia in buona fede che Ellis sia onesto nella sua lettura della violenza. Che Ellis non induca al voyeurismo. Sento che la Loredana ha dato a Ellis qualcosa che io non sono disposta a dargli. Per un libro che io ho trovato furbo, che mi fa sentire tanto intelligente, ma che oltre la paraculitas glamoured non va. Ma ho il sospetto, anche se non l’esempio che se io e Loredana ci parlassimo lei avrebbe da dire la stessa cosa, su qualche altro autore che io investo delle categorie della buona fede e della corretta ruminazione dell’esperienza.
Sarebbe interessante indagare questo quorum soggettivo. Ma mi sembra importante riconoscerlo. E per quanto io pure sia una donna che ha ben chiaro cosa sia la violenza sulle donne, no non mi pare eticamente scandaloso che ci siano approcci anche mediati all’immagine violenta, empatie che magari arrivano solo più lentamente. La vera differenza è tra chi si interoga ew chi non lo fa, tra chi entra e chi se ne fotte. Partecipare a questo dibattito anche nella maniera più difesa e razionale – vogliamo rispondere a un clichet e dire “tradizionalmente maschile”? diciamolo, anche se non vuol dire intrinsecamente maschile – è già un segno di un certo tipo.
Valeria, anche a me è tornata in mente l’interpretazione di ‘300’.
Il fatto è che anche allora, e nonostante Miller sia dichiaratamente fascio, avevo cercato delle ragioni per non dare un’interpretazione a senso unico e stigmatizzante del fumetto/sceneggiatura. In quel caso come in questo rispondevo a WM1: ok, sensato quello che dici, ma a me del film resta altro, come la mettiamo?
Si erano fatte due fazioni. Ma anche se poi resto della mia opinione, mi è utile quello che ha scritto WM1. Anche adesso, sto leggendo il saggio NIE, son d’accordo e no, ma è utile.
Però sono argomenti, nessuno scrive sciocchezze come: “vuol dire che hai dei blocchi emotivi molto seri”.
@ girolamo
“perché gli animali non-umani non praticano la violenza intraspecifica priva di uno scopo vitale (difesa del territorio, sicurezza del branco, ecc.).”
Evidentemente non hai mai visto il cane alfa di un branco sodomizzarne un’altro, o un topo mordere sistematicamente i compagni di gabbia alla base della coda.
Etc, etc, etc. 😉
“Un commentatore – ora purtroppo non ne ricordo il nome, ma forse Anghelos o Barbieri non mi ricordo scusatemi – si imbizzarrì e mi disse che col cavolo, a lui le puttane proprio non lo arrapavano manco un po’…”
Direi Anghelos per esclusione.
Non sono mai andato con una persona che esercita la prostituzione. Non potrei mai, sono fatto così. E soprattutto nel caso della prostituzione, è importante non ridurre quello che una persona è, a quello che una persona fa.
Utile. Perfetto, una buona categoria.
A me ad esempio è stato molto utile la letture di Pincio e di Ellis per capire alcune cose sulla violenza e sul modo di rappresentarla. Non trovo nessuno dei due scrittori furbo e Ellis lo trovo grandissimo.
Che ci siano approcci mediati alle immagini violente non lo trovo scandoloso neppure io. Quello che trovo illegittimo e, per quello che ho provato, crudele è opporre quel tipo di lettura molto di testa alla reazione immediata ed emotiva.
Non mi si può dire che la mia reazione di ripugnanza di fronte a quella immagine non è adeguata perché dietro alla mia reazione c’è:
1) disprezzo per i fumetti
2) un non adeguato bagaglio tecnico per interpretare quello che vedo
3) poco rispetto per il lavoro degli altri
4) moralismo e arretratezza culturale
…….
Mi fermo qui, perché credo che proseguire su questo piano del discorso non porti da nessuna parte.
Infatti sono quattro argomenti che non reggono perché vanno sul piano personale e sono ‘proiettivi’, cioè qualcuno proietta su di te le proprie convinzioni.
Tra l’altro è importante per un artista sapere come verranno letto ciò che fa. Mi ricordo lunghe che Gipi parlò parecchio, anni fa, se inserire o no una bestemmia in una sua storia. Ovvio che se lo fai, ferisci il sentimento religioso di qualcuno. Allora devi pensare a ciò che ottieni con quell’offesa.
A proposito avere un punto di vista ‘religioso’ su qualcosa non è un male assoluto. Per un credente ‘Prima i piedi’ di Kippenberger provoca un sentimento onesto di offesa. Su questo non c’è dubbio. Anche qui si valuta ciò che si va a ‘offendere’ e ciò che si vuole esprimere. L’opera di K. si muove in quello stesso sentimento religioso offeso per mostrare un’offesa più grande, attraverso un linguaggio figurativo, quindi l’autonomia espressiva dell’opera va difesa.
Se un sindaco decide che la preghiera islamica deve avvenire per strada, offende il sentimento religioso in modo indifendibile.
ec.
‘…come verrà letto…’
‘Mi ricordo che Gipi parlò parecchio…’
Sì, Andrea. Si potrebbe anche partire dalle reazioni immediate per capire qualcosa della forma e dell’estetica dell’immagine.
Io non sono un’esperta di fumetti, però mi piacciono e di tanto in tanto li leggo (bevo anche il vino senza essere una sommellier, e spero che nessuno abbia niente da ridire in proposito).
E quando ho letto la parola ‘prostituta’ mi è venuto in mente ‘Mademoiselle Fifì’, trascrizione in fumetto che Dino Battaglia fece della novella di Maupassant.
Lì gli ingredienti forti c’erano tutti, e c’era fortissimo, soprattutto, quell’ingrediente, l’ ‘umiliazione’, che è alla base di ogni violenza e di ogni volontà di sopraffazione.
Bene, non so se è legittima la domanda, ma perchè sia Maupassant che Battaglia non mi hanno provocato quel moto di ripugnanza che mi ha provocato quella copertina?
Eppure la violenza, l’umiliazione, la sopraffazione nei confronti della donna c’erano proprio tutti.
E’ de coccio.
Valeria, non lo, Battaglia è un grande maestro del fumetto, Maupassant è un grande maestro della letteratura…
So che l’umiliazione di una donna per me è il male, tant’è che conosco sempre ragazze che magari si sentono un po’ scassate e io tendo a fare l’empowerment. Che non è comunque una cosa buona in un rapporto, perché il rapporto diventa quella cosa lì, e quando non c’è più bisogno finisce.